I paesi più sviluppati dal punto di vista economico in America Latina hanno sempre riscontrato gli stessi due problemi che condizionano il loro sviluppo economico: il debito estero e il deprezzamento della moneta. Con la crisi dovuta al Covid-19 queste debolezze stanno rivenendo alla luce.
Per debito estero si intende l’ammontare del debito, pubblico e privato, detenuto dai non residenti. Per deprezzamento invece si intende la diminuzione del valore della moneta di riferimento rispetto ad un’altra in regime di cambi flessibili.
L’Argentina, il Messico e il Brasile sono i tre Paesi che guidano l’economia di quell’area. Il Brasile è lo Stato con il Pil più alto, con 3.248 miliardi di dollari, poi il Messico con 2.463 miliardi e infine l’Argentina con 922 miliardi. (fonte: Index mundi, 2017)
Questi possono essere definiti Paesi in via di sviluppo (con l’ultimo presente tra i BRICS), ovvero quelli più vicini al raggiungimento del livello dei paesi sviluppati. I fattori negativi citati in precedenza non permettono però a questi tre Stati di arrivare al compimento dell’obiettivo di allinearsi ai paesi Europei e agli Stati Uniti.
Il circolo vizioso tra debito estero e deprezzamento si crea nel momento in cui, per fattori esterni o interni, la valuta nazionale si inizia a deprezzare: se il debito estero è espresso in valuta nazionale, il valore relativo del credito diminuisce. Questo provoca una perdita per il creditore.
Ma se uno Stato ha una parte del debito espresso in valuta estera, il valore relativo del debito si innalza. Infatti, il deprezzamento della moneta crea svantaggi per il debitore, che per rendere la stessa cifra in valuta estera dovrà aumentare l’ammontare di valuta nazionale da cambiare, visto il deprezzamento. Ciò comporta un rischio di inadempimento del debitore e quindi per lo Stato la dichiarazione di default.
Gli Stati dell’America Latina, come quelli non ancora sviluppati, sono spesso costretti a indebitarsi in valuta estera. Questo avviene proprio perché il deprezzamento è più probabile dell’inadempimento e quindi gli investitori preferiscono correre il rischio di non rivedere ripagato il loro credito piuttosto che la possibilità di una diminuzione del proprio valore: infatti, a supporto di questa tesi, i titoli di Stato denominati in valuta nazionale hanno tassi di interesse più alti rispetto a quelli denominati in valuta domestica.
In generale, un alto debito estero, ovvero quello detenuto dai non residenti, porta uno svantaggio per i paesi che lo posseggono: in caso di deprezzamento della moneta ci sarebbe una perdita di fiducia degli investitori verso i debitori privati e pubblici, e quindi i non residenti cercheranno di vendere i propri titoli per non rischiare di non rivedere onorati i prestiti sottoscritti (se in valuta estera) o diminuire il proprio valore (se in valuta nazionale).
Questo discorso può essere fatto solo per i non residenti: facendo un esempio, se i detentori del debito pubblico nazionale fossero solo residenti, non avrebbero convenienza a vendere sul mercato questi titoli. Infatti, se decidessero di vendere i loro titoli potrebbero portare ad un default dello Stato per il conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di debito pubblico che porterebbero all’impossibilità dello Stato di emetterne ulteriori.
Se lo Stato del residente va in default, ci saranno conseguenze indirette negative, come le possibili manovre restrittive per recuperare la fiducia dei mercati e poter immettere nuovamente sul mercato i titoli di Stato. Gli agenti economici non residenti non vengono colpiti da questi effetti indiretti. Proprio per questo essi sono più propensi a vendere asset rischiosi, come possono essere i titoli di Stato di un paese in difficoltà e in tempi di incertezza, per mettere al sicuro i propri investimenti senza avere conseguenze.
Quindi un alto debito estero crea dei problemi significativi, soprattutto ad un paese non ancora sviluppato. Il Paese con il debito estero nominale più alto sono gli Stati Uniti d’America, che però possono permetterselo, poiché economicamente forti. Il Brasile è ventunesimo, il Messico ventottesimo e l’Argentina trentunesima.
Il circolo vizioso tra debito estero e deprezzamento è un problema storico dell’America Latina: basti pensare alle due crisi petrolifere che si sono abbattute sull’economia mondiale nel 1973 e nel 1979.
Nel 1973 l’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) decise di aumentare il prezzo del petrolio per colpire i paesi della NATO che supportavano lo Stato di Israele contro la Palestina durante la cosiddetta guerra del Kippur. In pochi mesi i prezzi dell’oro nero si quadruplicarono.
Nel 1979 dopo la rivoluzione islamica in Iran, ci fu una riduzione della produzione del petrolio che portò ad un aumento dei prezzi. I paesi sviluppati all’epoca, come quelli dell’Europa e gli Stati Uniti, erano grandi importatori di petrolio.
Quindi, i Paesi produttori ricevettero i cosiddetti petrodollari: i dollari provenienti dalle esportazioni di petrolio che naturalmente aumentarono in valore nominale.
Essi furono investiti presso depositi delle banche commerciali dei paesi sviluppati e non usati per lo sviluppo delle proprie nazioni. A loro volta le banche investirono questi depositi nei titoli di Stato dell’America Latina. Complice in questo caso anche la politica restrittiva della FED di quegli anni, che aumentò il TUS (tasso ufficiale di sconto), l’America Latina dovette affrontare due problemi: deprezzamento delle monete e aumento del debito estero, spesso in valuta estera.
Alcuni Paesi, tra cui il Messico, dovettero dichiarare default ed essere “aiutati” da enti sovranazionali, tra cui la Banca Mondiale, con manovre economiche paragonabili a quelle imposte dell’odierna Troika.
La crisi dovuta al Covid-19 potrebbe portare i paesi dell’America Latina, soprattutto i più deboli, al default. È opportuno fare dei confronti con il dollaro per poter analizzare l’andamento dei tassi di cambio con le valute dell’America latina. Questo perché il dollaro è la moneta principale per gli scambi internazionali, e gli Stati Uniti hanno una rilevante influenza su questi tre Paesi, anche per la loro vicinanza.
Andando ad analizzare rispettivamente i dati dei tassi di cambio tra peso messicano, real brasiliano, peso argentino e dollaro americano, si evidenzia il deprezzamento delle tre valute latine:
- il tasso di cambio USD/MXN (dollaro/peso messicano) è salito da 18,56 pre-Covid-19 (19 febbraio 2020) a un picco di 25,36 il 23 marzo (deprezzamento del 37% circa). Ora è comunque ad un livello di 22 punti.
- Il tasso di cambio USD/BRL (dollaro/real brasiliano) è salito invece da 4,36 fino ad un massimo di 5,9 il 13 maggio (deprezzamento del 35% circa). Ora è a 5,4 punti.
- Il tasso di cambio USD/ARS (dollaro/peso argentino) è salito invece da 61,6 fino ad un massimo di 73,2 della chiusura odierna, ovvero il 15 agosto (deprezzamento del 19%).
Bisogna anche tener conto che il dollaro americano si è deprezzato rispetto ad altre valute, come l’euro, da maggio in poi. Anche questo spiega la risalita parziale delle valute dell’America Latina.
Il deprezzamento di queste tre valute, e in generale delle valute più deboli, è causato dall’incertezza, sia economica che politica, dovuta alla pandemia in atto.
Gli investitori non vogliono detenere nei propri portafogli asset pericolosi in tempi di incertezza. Proprio per questo motivo hanno deciso di vendere sul mercato le valute deboli per comprarne altre come il dollaro, il franco svizzero, lo yen giapponese o l’euro. Le prime tre sono considerate valute rifugio, proprio perché in periodi di crisi tendono ad apprezzarsi rispetto alle altre. Infatti, con il deprezzamento gli investitori avranno una perdita relativa, visto che riceveranno meno ammontare di un’altra moneta quando verrà effettuato il cambio.
Un altro esempio è il prezzo dell’oro che è arrivato ai massimi storici per lo stesso motivo: l’incertezza economica.
L’incertezza politica invece è causata dal contesto in cui oggi il mondo si ritrova, ovvero fronteggiare una pandemia. È ragionevole credere che i paesi sviluppati abbiano più forza e probabilità di superare economicamente la crisi rispetto ai paesi come quelli dell’America Latina. Inoltre, in questi paesi non sono state prese misure forti per contrastare e contenere la pandemia come in Europa. In particolare, il Brasile è secondo nella classifica di contagi, avendo superato ampiamente i 3 milioni e il Messico è ottavo con più di mezzo milione di casi, ma terzo per numero di decessi (63.000).
In aggiunta, per l’Argentina si può evidenziare l’aumento dell’incertezza politica creata dalla reputazione del Presidente Alberto Fernandez, insediatosi nel dicembre del 2019, poiché è considerato un esponente del populismo latino-americano e più specificatamente peronista, che ha certamente preoccupato i mercati.
In conclusione, la pandemia ha rimesso in luce i problemi dell’America Latina con le loro valute deboli che tendono a deprezzarsi, soprattutto in momenti di difficoltà e di incertezza. Unendo questo con il problema del debito estero, le possibili conseguenze dirette sono i default degli Stati dell’America latina. L’Argentina, infatti, per la nona volta è andata in default tecnico a luglio 2020.
Per quanto concerne le conseguenze indirette dell’incertezza politica ed economica, vi è la possibilità che in futuro saranno adottate manovre economiche “lacrime e sangue” per rinnovare la fiducia dei mercati e degli investitori esteri. È necessario pensare a un'altra via d'uscita.
Precisa e approfondita la spiegazione sulle motivazioni dell’instabilita’ e fragilità economica dei paesi latino americani.
Articolo interessante
Ottimo articolo condivisibile e ben strutturato