Fin dall’antichità, le infrastrutture riflettono la capacità, tipica dell’essere umano, di rimodellare il territorio secondo le proprie necessità. Se è vero che, in origine, era il fabbisogno di beni di prima necessità e di materie prime a guidare i commerci dall’Europa attraverso le rotte del Mediterraneo e, in seguito, su distanze ben più lunghe, fino all’Estremo Oriente, ecco che l’esigenza di facilitare gli spostamenti, velocizzare il flusso di merci, semplificare le comunicazioni e collegare gli angoli più remoti del globo emerge prima di quanto si sia portati a credere.
Eppure, c’è chi offre una versione più prudente e attenta alle sfide e ai rischi che possono derivare dalle dinamiche economiche e geopolitiche innescate e catalizzate dalle opere infrastrutturali di carattere strategico.
Nel suo The Great Convergence: Information Technology and the New Globalization, Richard Baldwin, professore di Economia internazionale al Graduate Institute di Ginevra, racconta di come la pax mongolica che vigilò sulla Via della Seta tra XIII e XIV secolo non fu soltanto fattore di sviluppo dei commerci tra Occidente e Oriente, ma anche motivo di rapida diffusione della peste bubbonica. L’epidemia senza precedenti che spazzò via tra un quarto e metà della popolazione europea era stata veicolata dai traffici commerciali di un tentativo di globalizzazione, secoli prima della comparsa di treni e battelli a vapore. L’Europa sarebbe uscita prostrata da questa terribile crisi.
Con questo Baldwin non intende demonizzare la globalizzazione e i mezzi mediante i quali essa si espande, bensì interroga gli eventi del passato per comprendere come evolva nel corso del tempo la relazione tra il fenomeno più discusso dell’ultimo secolo e le infrastrutture. Dopo lo shock della peste, la bilancia della fortuna sembrò iniziare a pendere dal lato dell’Occidente, a causa del superamento del modello di organizzazione feudale e dell’acquisizione di potere contrattuale e di sempre maggiori libertà da parte del "popolo minuto". A incidere positivamente sullo sviluppo di attività artigianali e commerciali furono, secondo Stephen Noel Broadberry, fattori come il tipo di agricoltura, l’età di matrimonio delle donne, la flessibilità dell’offerta di lavoro e la struttura delle istituzioni europee.
Rimane, tuttavia, irrisolto l’interrogativo a monte, sulla complessità dei fenomeni economici, sociali e geopolitici accelerati dalle infrastrutture. Interrogativo che si fa ancora più pressante con l’avanzata di nuovi mezzi di trasporto e comunicazione tra gli inizi del XVIII e la metà del XX secolo. Idee, merci e persone viaggiano su terra, per mare e persino nell’etere grazie a motori, cinghie di trasmissione, ponti, ferrovie, porti, cavi sottomarini e transistor, con il conseguente abbattimento di costi di trasporto e comunicazione. Così, avanza a gran velocità la globalizzazione, che non può fare a meno delle infrastrutture.
Ma fino a che punto si può dar ragione a Baldwin, che vede nella “grande convergenza” un trampolino di lancio per le economie emergenti del continente asiatico? E che ruolo hanno le infrastrutture strategiche in questa svolta critica della storia globale?
Infrastrutture strategiche: iniziando dai fondamentali
Per capire cos’è un’infrastruttura strategica chiediamoci prima cos’è un’infrastruttura. “Infrastruttura”, infatti, è una di quelle parole che tutti crediamo di conoscere ma che analizzate solo poco più a fondo rivelano densi significati. Una “infra-struttura” è una “struttura tra” qualcosa e qualcos’altro, ovvero un complesso di costruzioni e opere complementari e necessarie allo svolgimento di un’attività economica (strade, ferrovie, aeroporti, porti ecc.) o allo stesso vivere di una comunità (fognature, scuole, ospedali ecc.).
Le infrastrutture, quindi, costituiscono il mezzo concreto attraverso cui le persone perseguono molti dei loro fini (permettono di viaggiare a chi fa turismo, di lavorare a chi deve farlo spostandosi ecc.) e rappresentano la possibilità della fruizione di servizi essenziali come istruzione e cure (come scritto sopra, scuole e ospedali). Posti dunque in quest’ottica, comprendiamo che le infrastrutture siano e debbano essere al servizio di una comunità, permettendone lo sviluppo e promuovendone il benessere sociale considerato che ciò che le accomuna è dare la possibilità di comunicare alle persone, che non sono tali se non in comunità.
Le infrastrutture, dunque, sono qualcosa di strategico in sé, se intendiamo per tale aggettivo “ciò che è diretto al raggiungimento di un obiettivo o è di rilevante importanza”. Ma all’interno del vasto e variegato mondo delle infrastrutture, che spazia dal marciapiede sotto casa alla ferrovia ad Alta Velocità Roma – Milano, vi sono le cosiddette infrastrutture strategiche, ovvero complessi di opere pubbliche di peculiare rilevanza o fondamentali per raggiungere alcuni target economici, politici o sociali.
Tale tipo di opere pubbliche (denominate cioè in questo modo) è oggi molto in voga ma è stato inizialmente messo in risalto nella nota legge n. 443 del 2001 conosciuta come “legge obiettivo”, emanata durante il governo Berlusconi II, che programmava e stilava un elenco di “infrastrutture strategiche” per l’Italia da realizzare negli anni tra il 2002 e il 2013. Al fine di ammodernare il sistema dei trasporti nazionale, erano individuate opere di “preminente interesse nazionale” del valore di oltre 125 miliardi di euro; in quell’occasione si definivano anche in sede di programmazione gli strumenti normativi e finanziari per realizzarle, ovvero corsie preferenziali e stanziamenti (che coprivano solo una parte del programma).
Per mare e per aria
Nell’ambito dei trasporti, tendenzialmente, è strategico ciò che mette in comunicazione grandi bacini di persone e merci: questo può avvenire a livello nazionale (come l’Autostrada del Sole A1 Milano – Napoli che costituisce la spina dorsale del Paese), ma più spesso ancora a livello internazionale. Il settore della logistica, per esempio, che permette a tutti noi di possedere device assemblati in Asia o di rifornire i supermercati è fondamentale e a livello mondiale la maggior parte delle merci è trasportata con navi portacontainer.
D’altronde, Parag Khanna evidenzia bene il braccio di ferro che si sta consumando negli ultimi anni tra l’esigenza crescente e irrefrenabile di connettività, trainata da strade, ferrovie e hub portuali, e le resistenze opposte dalla sovranità nazionale degli Stati. Con una formula sintetica ed efficace, si potrebbe affermare che quella che Khanna chiama global urban network civilization si contrappone a uno sforzo compiuto da singoli Paesi, o da organizzazioni regionali come l’Unione Europea, di governare fenomeni transnazionali come la libera circolazione dei capitali o i flussi migratori. E, a tal proposito, Zygmunt Bauman ha osservato che le merci viaggiano oggi più facilmente delle persone.
Ma abbiamo anche visto recentemente quanto possa essere fragile la connettività creata da un’infrastruttura strategica tra le più importanti al mondo: il Canale di Suez. Dal 23 al 29 marzo vi è infatti rimasta incagliata, a causa probabilmente di una tempesta di sabbia, la nave cargo Evergiven, che, essendo lunga ben 400 metri, ha ostruito il canale artificiale per quasi una settimana. Il risultato, poiché è stato ostruito un passaggio che garantisce il transito del 12% delle merci mondiali complessive, è stato un danno economico di circa 10 miliardi di dollari al giorno. È stato impedito a circa 400 navi, petroliere e altre imbarcazioni di attraversare lo stretto. Famose le immagini che ci sono arrivate dall’Egitto con le navi rimaste ancorate al largo sia nel mar Mediterraneo sia nel mar Rosso ferme ad aspettare.
Il Canale di Suez fu completato nel 1869 e la sua nazionalizzazione nel 1956 ad opera del presidente egiziano Nasser aprì la crisi di Suez. Nel 2015 furono raddoppiati alcuni tratti del canale. L’ostruzione nei pressi di Suez ha causato inevitabilmente un cambiamento delle rotte commerciali mondiali: molte navi, infatti, impossibilitate a passare, hanno deciso di circumnavigare l’Africa passando da Capo di Buona Speranza in quei giorni di fine marzo, allungando il viaggio di almeno una settimana e spendendo all’incirca 300.000 dollari in media di carburante in più.
Prima del 1914, data del completamento del Canale di Panama, avveniva un’analoga situazione in America: le navi erano costrette a compiere un lunghissimo viaggio attorno al Sud America attraverso Capo Horn. Al momento della sua realizzazione ad opera degli USA, il canale era posto sotto il controllo e la tutela della nazione nordamericana. Oggi una nave che attraversa il canale vede temporaneamente sospesi i suoi diritti di extraterritorialità, tanto che al comandante della nave si avvicenda temporaneamente il pilota dell’Autorità di Panama, che guida il vascello durante l’attraversamento dello stretto.
Ci si potrebbe spingere ad affermare che le infrastrutture rimodellano lo spazio, esigono norme di diritto funzionali alle proprie caratteristiche e fungono da strumenti di realismo politico. Ed è qui che entra in gioco la geopolitica.
A lungo via di intensi scambi commerciali e culturali, l’economia-mondo del Mediterraneo correva il rischio di morire asfissiata tra ‘700 e ‘800. Il “Grande Mare” vedeva le sue coste e le sue acque contese da un numero crescente di concorrenti. Dopo la vittoria di Trafalgar riportata dagli inglesi sui cugini d’Oltremanica, il predominio della Corona britannica sui mari era incontrastato, non v’era dubbio. Eppure, con la Russia zarista che si affacciava con la sua flotta nel “mare di mezzo”, gli Ottomani ancora padroni delle acque orientali e del Nord Africa, gli Stati Uniti che presto decisero di portar guerra ai pirati barbareschi e questi ultimi a minacciare le navi mercantili europee, solcare il Mediterraneo era diventato fonte di rischi e probabili perdite.
Mentre tramontava l’epoca delle Repubbliche marinare e il colonialismo assumeva le sembianze di un imperialismo predatorio e feroce, gli Stati nazione occidentali comprendevano quanto il gradiente tecnologico che li divideva dal resto del mondo avrebbe spalancato loro ampie praterie in Africa, America Latina e Asia da amministrare secondo modalità differenti (colonialismo formale o informale).
Il dominio saldo di un impero richiedeva, tuttavia, mezzi rapidi ed efficienti, che consentissero non soltanto a rifornimenti e comunicazioni urgenti di giungere in tempi brevi dalla madrepatria ai territori periferici, ma anche agli eserciti. Varrà ricordare che il terreno di scontro più celebre era localizzato nell’Asia centrale, l’area del Great Game tra russi e inglesi.
L’idea di Ferdinand de Lesseps, che poteva confidare nell’appoggio del presidente francese Luigi Napoleone, non suscitò notevole entusiasmo nelle classi dirigenti europee. Al di là delle criticità tecniche, di natura forse pretestuosa, sollevate dagli ingegneri dell’epoca, della realizzazione di una Canale che collegasse il “mare britannico” al Mar Rosso il governo britannico non voleva sapere nulla. Il Primo Ministro Lord Palmerston temeva che una simile opera infrastrutturale aprisse un varco utile ai rivali europei per strappare agli inglesi l’India. Su questa partita si giocavano gli equilibri di potenza al di fuori del “vecchio continente”.
Gli interessi commerciali e strategici delle altre potenze europee ebbero la meglio e la costruzione fu ultimata in tempi eccezionali grazie all’utilizzo di escavatrici e altri macchinari. Alla cerimonia di inaugurazione (1869), che sarebbe stata coronata dall’Aida di Giuseppe Verdi due anni più tardi, c’erano il khedivè Ismail, l’imperatrice Eugenia di Francia, l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe e principi di Prussia e Paesi Bassi. Ma fin da subito divenne chiaro che l’Egitto poco avrebbe contato nella gestione del Canale per mezzo dell’Autorità di Suez. Tutti gli occhi delle élite politiche, militari ed economiche europee erano attratte dalle nuove opportunità aperte dal passaggio artificiale.
Già nel 1870 si calcola che più di 400.000 tonnellate di merci furono trasportate attraverso la via marittima su circa 500 navi mercantili, nel 1871 la quantità di merci ammontava a 750.000 tonnellate. E gli inglesi si assicurarono il controllo di buona parte dei flussi commerciali. Entro il 1870 gli investitori britannici gestivano due terzi dei traffici totali, cosicché il Board of Trade di Londra iniziò a rivalutare l’importanza dell’infrastruttura. Certo è che il volume dei traffici era destinato ad aumentare sia per il crescente interesse delle compagnie mercantili europee, sia per effetto dei motori a vapore che andavano diffondendosi nelle flotte occidentali.
Oggi, invece, mentre a Gibuti sorge la prima base militare installata dal governo di Pechino al di fuori delle sue acque territoriali, è proprio la Cina, un tempo Paese vittima delle ambizioni imperialistiche che il varco di Suez contribuì a ingrandire, a sfruttare il Canale per espandere la propria soft power nel teatro del Mediterraneo. Una presenza che si fa progressivamente più pervasiva, attraverso accordi commerciali e investimenti diretti all’estero (FDI) per progetti infrastrutturali e aree portuali. D’altronde, la “Via della Seta marittima” non esige di essere percorsa in maniera unidirezionale, a dispetto di una certa visione eurocentrica dei commerci globali.
Solo più tardi, quando l’asse del potere geopolitico ed economico volgeva a favore del Mediterraneo, rivitalizzato dalla costruzione del Canale di Suez, cominciò a delinearsi un progetto di canale che tagliasse in due le Americhe. E le acque in cui si doveva concretizzare l’infrastruttura non erano meno contese di quelle del “Grande Mare”. Nonostante la longa manus della potenza marittima britannica si imponesse anche nel Mar dei Caraibi, l’America Latina era stata terreno di conquista degli spagnoli fin dal ‘500 e, non a caso, a cavallo tra Otto e Novecento, sarebbe scoppiata una guerra ispano-americana per il controllo di Cuba. Fu la vittoria di una potenza emergente su una potenza dell’ancien régime.
Ciononostante, gli appetiti della borghesia commerciale e industriale occidentale erano rivolti all’Estremo Oriente e fu ancora Ferdinand de Lesseps a progettare una prima versione del Canale di Panama. Dopo che il progetto originario fu rifiutato, emersero i rapporti di forza latenti sull’Oceano Atlantico. Sebbene la rivoluzione americana avesse incrinato la relazioni tra Washington e Londra, le due nazioni giunsero a un’intesa con il Trattato di Hay-Pauncefote (1901), che dette via libera agli americani per la costruzione del canale. Vero è che gli inglesi, in un frangente così critico di competizione globale sui territori d’Oltremare, preferivano cedere il passo agli Stati Uniti d’America piuttosto che alla Francia. I Canali di Suez e Panama consentono, ancora oggi, di abbattere i costi di trasporto delle merci aprendo varchi attraverso le masse continentali, richiedono regimi speciali di diritto internazionale e, se non opportunamente manutenuti, possono esporre a gravi rischi il commercio globale.
Infrastrutture strategiche riguardano, però, non solo l’acqua, ma anche l’aria.
Esempio classico è l’aeroporto hub. Il sistema cosiddetto hub and spoke (tradotto “fulcro e raggio”) è un particolare modello di organizzazione del trasporto aereo. Consiste nel convogliare su un aeroporto hub una grande quantità di voli, il che permette di aumentare le frequenze anche tra “aeroporti spoke” (che sono, in linea di massima, scali minori). Pochi costosi voli diretti tra aeroporti spoke sono sostituiti con molti voli più brevi tra aeroporto hub e aeroporti minori. Ciò implica però, ovviamente, la necessità di fare scalo. Il successo di questo sistema si basa ovviamente sulle lunghe distanze, sulla centralità geografica dell’aeroporto hub e sulla sua configurazione oltre che sul numero degli aeroporti spoke.
Un aeroporto hub di una compagnia aerea è usato per la sosta prolungata degli aeromobili negli “hangar”, per il loro mantenimento e la loro gestione. Infatti, l’hub può essere commerciale o anche amministrativo-tecnico, ovvero con la presenza della sede operativa della compagnia. Ricordiamo che esistono anche aerei cargo sebbene abbiano un ruolo più marginale rispetto alle navi cargo. E questo lo stiamo vedendo bene in questi mesi: l’aeroporto dell’Aeronautica militare italiana di Pratica di Mare è aeroporto hub per stoccaggio e distribuzione dei vaccini anti Covid-19.
Il sistema hub and spoke si contrappone poi al sistema point-to-point in cui si effettuano tratte dirette tra aeroporti periferici. Spesso questo modello diventa antieconomico, ma in un contesto come quello italiano, in cui le distanze non sono eccessive, è preferibile. Le grandi compagnie aeree possiedono più di un hub, mentre le società minori, che possono anche essere compagnie di bandiera di piccoli stati, ne hanno solo uno, che è spesso lo scalo della capitale della nazione.
Le grandi compagnie aeree avranno molti slot, le piccole di meno. Lo slot è un lasso di tempo entro il quale un aereo ha il permesso al decollo in un aeroporto. Di solito dura 15 minuti. Gli slot fanno gola nel mercato delle compagnie aeree perché, in un’ottica di acquisizione di società, la società acquirente ingloba gli slot della compagnia acquistata potendo quindi aggiungere destinazioni nuove e/o aumentare la frequenza di voli in un aeroporto.
Ferrovie: assi portanti di Stati e imperi
Come abbiamo visto, è il ruolo dei porti ad essere strategico in ambito commerciale mentre gli aeroporti mantengono il primato in ambito civile e privato. Si sta cercando di rendere meno isolate queste infrastrutture attraverso un potente strumento: le ferrovie. Con lo sviluppo dell’Alta Velocità il treno sta diventando un mezzo privilegiato per gli spostamenti di merci e persone. Oltre ad essere più ecologico di aerei, navi, automobili e tir, permette di liberare dal traffico strade urbane e autostrade.
L’allacciamento dei binari a porti, aeroporti e industrie, prende il nome di intermodalità. In particolare, si usa l’espressione “ultimo miglio” per indicare la costruzione di brevi diramazioni che dalle ferrovie già esistenti confluiscono in questi luoghi. La logistica intermodale usa i container, ovvero attrezzature per trasportare le merci che possono essere spostate dai tir ai treni, alle navi. Negli ultimi anni, gli esecutivi stanno comprendendo quanto sia strategico il collegamento immediato e diretto tra diversi tipi di infrastrutture, come nel caso dell’intermodalità dell’ultimo miglio.
Nel PNRR italiano è riportato: «in quest’ottica, è necessario concepire le infrastrutture logistiche come un unicum di nodi e reti, adeguatamente interconnesse, che consentano una movimentazione dei carichi quanto più possibile fluida e priva di “colli di bottiglia”». “Unicum di nodi e reti” è un’altra definizione che sta per “intermodalità”. Anche nei piani tedesco e francese il riferimento all’intermodalità nelle sezioni “infrastrutture” è presente.
In Italia è Mercitalia Rail srl l’azienda pubblica che si occupa di trasporto ferroviario merci e logistica in Italia ed Europa. L’azienda opera tra i principali porti, interporti e terminal industriali su scala nazionale e internazionale, siglando anche partnership con altri operatori. La sua Business Unit SME (Sviluppo Mercati Esteri) è stata pensata per dare nuovo impulso allo sviluppo dei traffici e abbraccia tutte le filiere. La squadra di SME opera da più di vent’anni su territorio francese e dell’Est Europa. Mercitalia tramite la controllata tedesca TX Logistik raggiunge anche i mercati austriaco, tedesco, danese e svedese.
Eppure, l’attenzione delle classi dirigenti allo sviluppo infrastrutturale, soprattutto in chiave geopolitica, ha degli importanti precedenti storici.
Su ferro e legno si muovevano con prepotenza le locomotive dei grandi imperi del XIX secolo. La globalizzazione iniziava a viaggiare a gran velocità dall’Europa all’Asia centrale, mentre in alcuni Paesi soggetti a dominio coloniale i “cavalli di ferro” collegarono città e campagne, centro e periferia, favorendo la coesione della futura comunità nazionale: in India il treno è un simbolo storicamente associato agli spostamenti del Mahatma Gandhi. Attraversavano pianure incontaminate, tagliavano montagne e correvano sulle vallate agevolando gli spostamenti di beni e persone. Ma ciò che più rilevava era il valore squisitamente geopolitico che una ferrovia poteva assumere.
Si pensi alla realizzazione dell’ambizioso progetto della Berlino-Baghdad, che, dopo esser stato interrotto dallo scoppio della Prima guerra mondiale, fu ultimato negli anni ‘30. Fortemente voluta dall’Impero prussiano, le sue basi furono poste con l’assenso del Sultano di Costantinopoli e, tuttavia, c’erano potenze europee che non gradirono lo sforzo tecnico ed economico profuso dai prussiani.
Questo strumento della Weltpolitik di Guglielmo II, che poté giovarsi anche di finanziamenti francesi, sarebbe penetrato nel ventre dell’Impero britannico, fatto che veniva percepito come una minaccia dal Colonial Office. Una simile infrastruttura consentiva al concorrente tedesco di mobilitare eserciti di leva impressionanti in tempi brevi, oltre a dare accesso agli importanti mercati orientali.
Oggi, invece, la spinta geopolitica sembra aver invertito direzione, poiché vie di collegamento e infrastrutture vengono utilizzate da Paesi orientali che avevano subito la penetrazione imperiale nel XIX secolo per aprirsi la strada verso Ovest. La Cina, salita alla ribalta con il piano di dimensioni globali della Belt and Road Initiative, pare aver appreso la lezione del “secolo della vergogna”.
Mai un Paese della sfera confuciana aveva lanciato un piano tanto ambizioso su scala mondiale prima d’ora e di esso potrebbero beneficiare anche altre economie dell’Estremo Oriente, che sfruttano la liberalizzazione dei capitali sviluppatasi negli ultimi anni, costi della manodopera più bassi di quelli occidentali e, non ultimo, l’accesso al know-how occidentale per rafforzare la propria competitività a livello internazionale. E le economie asiatiche sono solo alcuni dei protagonisti della “grande convergenza” descritta da Baldwin.
La Belt and Road è un progetto del grande paese asiatico per il miglioramento dei collegamenti commerciali con i paesi di Asia ed Europa. È in sviluppo sia sulla direttrice terrestre/ferroviaria sia su quella marittima. Per attuarlo, la Cina ha anche predisposto la AIIB (Banca Asiatica d'Investimento per le Infrastrutture). Ad oggi, tappa fondamentale di tale espansione commerciale strategica cinese è il porto del Pireo di Atene: uno dei suoi moli è dal 2010 stato preso in gestione dalla cinese COSCO, società di trasporto merci. In Italia, i porti coinvolti nella rilevante iniziativa geoeconomica cinese sono gli scali di Trieste e Genova, primi per flusso merci nel Paese.
Infrastrutture strategiche possono inoltre essere ponti e tunnel. Questo tipo di collegamenti permette di fare un salto di qualità al flusso di traffico complessivo di un’area. Ponti e tunnel, dove l’ingegneria lo consente, sono realizzati per eliminare i cosiddetti “colli di bottiglia”, espressione usata per identificare una carenza della portata di una infrastruttura rispetto alla domanda di traffico già esistente.
E questo, per rimanere nel contesto dei trasporti: esistono infatti almeno due altri tipi di infrastrutture “strategiche”. Quelle energetiche (come impianti eolici, gasdotti come il Tap, dighe, raffinerie, centrali elettriche ecc.) e quelle immateriali, non meno importanti (come la banda larga e la fibra ottica) e a queste ultime connesse. I cavi sottomarini poi possono essere atti ad entrambi i compiti: quello energetico (nello specifico, elettrico) e quello della trasmissione di informazioni e dati (come appunto fibra ottica e banda larga). Per quanto concerne la prima funzione, abbiamo visto come dallo scorso ottobre il completamento della nuova linea elettrica sottomarina Capri – Sorrento possa permettere il risparmio di emissioni pari a 120mila tonnellate annue di CO2 dismettendo la vecchia centrale a gasolio.
Ma sull’altro fronte, quello delle telecomunicazioni, l’importanza dei cavi sottomarini è anche geopolitica: secondo la televisione pubblica danese la National Security Agency (NSA), l’agenzia di intelligence americana, avrebbe dal 2012 al 2014 spiato parlamentari e alti funzionari europei, tra cui anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, attraverso sistemi di intercettazione dei cavi sottomarini delle telecomunicazioni danesi.
Persino le infrastrutture difensive non sono da dimenticare, come i muri. Ricordiamo che il muro tra il Messico e gli USA è stato un cavallo di battaglia dell’ex presidente statunitense Trump con il fine proclamato dal tycoon di fermare l’immigrazione clandestina dall’America meridionale e centrale. E un altro muro non meno famigerato è quello che separa la Striscia di Gaza da Israele, tornato alla ribalta a livello mediatico negli ultimi giorni.
Ecco che le infrastrutture, nella stessa misura in cui possono fungere da catalizzatori della spinta alla globalizzazione, possono ugualmente arginarla, limitarla, se non addirittura tentare di frenarla. Ciononostante, appare irrealistica l’ipotesi di un’inversione di marcia del fenomeno (c’è chi immagina, rifacendosi a Samuel Huntington, una divisione futura del mondo in “insulae geoculturali”), cosicché è pensabile soltanto di governarlo adeguatamente. Come abbiamo infatti visto, è duplice il ruolo che possono ricoprire le infrastrutture e sta all’uomo conferire dei fini appropriati ai mezzi di cui dispone.
Conclusioni
Che siano di trasporto, energetiche, di scambio dati o militari, le infrastrutture costituiscono, come scritto in precedenza, un fattore di evidente valore strategico in ogni contesto socioeconomico. Alcune, tuttavia, sono più strategiche di altre: o perché rispondono a un bisogno impellente o perché sbloccano un’economia. E poi, lo ricordiamo, esistono anche infrastrutture, se non inutili, almeno sproporzionate rispetto alle esigenze di un territorio.
Le sfide globali dell’oggi richiedono uno sforzo di visione, che sappia decifrare interdipendenze e correlazioni tra attività umane. Non è un caso che il tema delle infrastrutture si intrecci con un altro: la compatibilità delle opere con l’ambiente, l’ultima sfida con la quale le infrastrutture dovranno fare i conti. Una questione non da poco, che vede messi a confronto sviluppo e sostenibilità ambientale, ma che sarà opportuno analizzare in un altro approfondimento.
Riferimenti
D. Abulafia, The Great Sea: A Human History of the Mediterranean, Allen Lane, 2011
R. Baldwin, The Great Convergence: Information Technology and the New Globalization, Cambridge, MA: Belknap Press of Harvard University Press, 2016
Ian F. W. Beckett, La Prima guerra mondiale, Einaudi Editore, 2013
P. Khanna, Connectivity and the Future of Geopolitics. Interview with Parag Khanna, ISPI, 29, ottobre 2018
F. Laureti, Trieste and the ‘Great Game’ In the Balkans
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