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Uno sguardo al DEF: austerità o crescita?

Lo scorso 12 maggio il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che “il Patto di Stabilità è inadeguato” prendendo così le distanze da posizioni rigoriste ancora presenti e forti in Europa. Una posizione, questa, ulteriormente rimarcata il 20 maggio quando rispondendo all’ipotesi di un aggravio della tassa di successione proposta dal segretario dem Letta ha opposto un fermo “non è il momento di prendere soldi ma di darli”. Tuttavia, analizzando il Documento di Economia e Finanza (DEF) emerge un quadro radicalmente diverso.

Il Patto di Stabilità e Crescita, seppur formalmente sospeso, sembra continuare a proiettare la propria influenza sugli indirizzi di politica economica del nostro Paese: dall’attuale livello di deficit/Pil dell’11,8% (un numero peraltro destinato a salire) il Governo prevede una riduzione al 5,9% per l’anno prossimo fino ad arrivare al 3,4% nel 2024 [1]. Dunque, un vero e proprio percorso di rientro tutt’altro che graduale ed espansivo. Analogamente, osservando l’evoluzione del saldo di bilancio strutturale si prevede una quantomeno ambiziosa se non azzardata riduzione di cinque punti e mezzo in soli 3 anni dal 9,3% al 3,8% del 2024: una vera e propria tabella di marcia a tappe forzate verso l’obiettivo di medio termine indicato per l’Italia allo 0,5% di surplus strutturale dal Fiscal Compact.

Bisogna anche sottolineare come più volte le stime dei precedenti DEF siano state superate dai fatti. Nonostante ciò, il documento programmatico rimane uno strumento utile per prevedere quello che sarà il presumibile orientamento in politica economica di un dato governo, e da questo DEF non si può non riscontrare una prosecuzione di quelle politiche di austerità orientate da parametri oramai obsoleti.

Ad esempio, l’obiettivo di medio termine (OMT) del saldo strutturale indicato nel DEF è fonte di numerose critiche. Esso misura lo stato delle finanze pubbliche di un Paese al netto della congiuntura economica ovvero il deficit in corrispondenza del quale il Pil effettivo coincide con il Pil potenziale (ossia quando abbiamo il pieno impiego dei fattori produttivi) e in cui la spinta inflazionista è nulla. È questo un punto cruciale poiché foriero di implicazioni economiche e politiche rilevanti. Il Pil potenziale viene calcolato dalla Commissione utilizzando la funzione di produzione neoclassica e stabilendo un tasso di disoccupazione strutturale (NAWRU) in corrispondenza del quale la crescita dei salari rimane costante [2].

Secondo Bruxelles, la disoccupazione “di equilibrio” nel nostro Paese è stimata al 9%; una siffatta considerazione ha inevitabilmente sollevato numerosi dubbi sia di natura scientifica [3] che politica. Risulta evidente che calcolare il Pil potenziale su queste basi limiti fortemente i margini di manovra degli Stati membri nello stimolare le proprie economie specie dopo una recessione così severa. Addirittura, nel caso del nostro Paese, il Mef prevede che l’output gap (differenza tra Pil effettivo e Pil potenziale) si azzeri già nel 2023. Se questi indirizzi dovessero concretizzarsi, il rischio di ripetere gli errori commessi all’indomani della crisi finanziaria globale che prolungarono la recessione in tutta Europa, appare più che concreto.

Condurre una politica economica così prudente sul fronte della finanza pubblica non solo finisce con il limitare la ripresa economica ma fa sì che ci si accanisca nei confronti di un problema tutt’altro che impellente come quello del debito pubblico, sebbene continui ad essere percepito come tale da una folta schiera di commentatori. Infatti, se è vero che durante il 2020 il debito pubblico ha raggiunto la cifra record di 2.569,3 miliardi, l’aumento di 159,4 miliardi rispetto al 2019 è stato integralmente assorbito dal programma di acquisto dei titoli di Stato della Bce (Pepp) e quindi monetizzato [4]. Considerando che la Bce continuerà a garantire condizioni favorevoli sul mercato per l’anno in corso ed almeno per la prima metà del 2022, disegnare un rientro dal deficit troppo frettoloso è dunque doppiamente sbagliato.

Che il Paese non necessiti di alcuna stretta fiscale è non solo condizione necessaria per una ripresa robusta, ma palesemente in contrasto con i fondamentali economici del nostro Paese: l’Italia a differenza del dopo-crisi finanziaria del 2008/2009 presenta un avanzo di partita corrente pari a 58,8 miliardi, ossia il 3,6% del Pil (in gran parte garantito dall’avanzo commerciale record di 70 miliardi). Una condizione, questa, che ha permesso al nostro Paese, dopo oltre 35 anni, di tornare a vantare una posizione netta sull’estero (differenza tra attività e passività finanziarie esterne) positiva per 30 miliardi di euro [5].

Secondo l’autorevole studio condotto da Roubini e Manasse [6] e un Paese sperimenterebbe una crisi debitoria con conseguente rischio di default in presenza di un deficit di partita corrente pari al 4%; la Commissione europea riconosce invece come squilibrio macroeconomico foriero di crisi di “sudden stop” dei flussi di capitali una posizione debitoria pari al 35% del Pil. Analizzando i dati sopra citati appare evidente come in entrambi i casi l’Italia non presenti nessuno dei due rischi. La reale criticità che emerge analizzando lo stato dell’economia italiana è rappresentata dalla piuttosto deludente ripresa economica.

Come si evince dalla grafica, nel 2023 il nostro Paese sarà l’unico tra i 27 Stati membri a non aver ancora recuperato il livello del Pil precrisi. Il Recovery Fund le cui condizionalità spiegano in parte il prudenziale quadro di finanza pubblica, appare inadeguato tanto nello stimolo economico, come si può constatare dalle stesse stime del Mef sotto riportate, quanto nella forma [7].

Per queste ragioni un Paese con un debito pubblico per oltre i due terzi posseduto da residenti (di cui un quarto dalla Banca d’Italia), con il secondo surplus commerciale d’Europa e unico tra i “periferici” a vantare una posizione creditoria verso l’estero non solo non necessita di una riduzione del deficit così rapida come quella prospettata nel Def ma possiede tutta la “capacità” per rafforzare la crescita sfruttando la grande liquidità e i bassi tassi di interesse presenti sul mercato.


Note:

[1] Ministero dell'Economia e delle Finanze (2021) "Documento di Economia e Finanza", Consiglio dei Ministri, 15 aprile.

[2] D'auria et al. (2010) “The production function methodology for calculating potential growth rates and output gaps”, Commissione europea.

[3] Stirati, A. (2016) “Blanchard, the NAIRU, and Economic Policy in the Eurozone”, Institute of Economic Thinking (INET).

[4] Banca d'Italia (2021) "Finanza pubblica: fabbisogno e debito", Statistiche, 15 febbraio.

[5] Banca d'Italia (2021) "Bilancia dei pagamenti e posizione patrimoniale sull'estero", Statistiche, 20 maggio.

[6] Manasse, P. & Roubini, N. (2005) "“Rules of Thumb” for Sovereign Debt Crises", Fondo Monetario Internazionale (FMI).

[7] D'Orsi, R. & Geurriero, A. (2021) "Perché il Next-Generation EU non è una panacea per l'Italia", Econopoly-IlSole24Ore, 2 febbraio.

Data
7 Giugno 2021
Articolo di
Giacomo Di Martino

Giacomo Di Martino

TAG
austerità, crescita, def, ministero dell'economia, patto di stabilità

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Giacomo Di Martino

Giacomo Di Martino

Studente in Governo e Amministrazione alla Luiss Guido Carli di Roma. Interessato ai temi del diritto e dell’economia senza trascurare la passione per la storia.

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