Questo approfondimento è parte di una serie di due articoli sul processo di privatizzazione in Italia. Qui trovi il secondo articolo.
Il milieu ideologico delle privatizzazioni
Dagli anni ‘90 il clima culturale si è fatto ostile alle ideologie politiche e alle posizioni di parte. La democrazia non andrebbe più intesa come scontro tra ideali diversi, ma si ridurrebbe a un presunto “governo dei migliori”, dove le uniche qualità che contano sono la competenza e l’onestà.
Inutile dire che una persona può essere competente ed onesta, fermo restando il carattere politico delle sue idee. Dietro una scelta squisitamente tecnica si nasconde comunque una visione del mondo, degli obiettivi di lungo periodo e una qualche gestione di parte del conflitto distributivo.
Come sappiamo, in economia politica non esistono scelte squisitamente tecniche, ma sempre delle policy a favore o a sfavore di una certa classe sociale. In politica non esistono scelte neutre: è per questo che il tentativo, sia mediatico sia accademico, di ricondurre qualsiasi presa di posizione politica ad un presunto criterio tecnico scientifico ha fatto degenerare profondamente il dibattito pubblico in questo paese.
Ne è un esempio la riforma dell’IRPEF di Draghi, che, per quanto vanti un carattere tecnico scientifico, nasconde dietro di sé intenti chiaramente politici: una politica di classe.
Per questo, applicare un criterio puramente tecnico all’analisi delle riforme ha poco senso, senza prima aver esplicitato la propria posizione circa i possibili conflitti distributivi che scaturiscono dalla riforme stesse. Da qui, l’impossibilità di avere un esito win-win: qualcuno ci perde sempre.
Inoltre, si constata in modo del tutto singolare che, da quando la politica ha iniziato ad essere pervasa dal mito dell’onestà e della competenza, chi ha perso di più sono state le classi subalterne. Strano. Non sarà mai che gli onesti e competenti alla Draghi siano classe dominante e seguano una propria agenda politica a difesa dei propri interessi?
La fase storica
Questo clima culturale ha delle radici profonde: inizia a prendere forma durante la Prima Repubblica, per poi entrare prepotentemente nel dibattito politico di questo paese con il superamento del sistema partitico e la fase di privatizzazioni e liberalizzazioni degli anni '90.
Ad ogni modo, anche volendo vestire i panni del tecnocrate senza preferenze politiche ed utilizzare un criterio puramente analitico, l’analisi costi-benefici delle privatizzazioni è particolarmente difficile.
Ad esempio, la variazione del livello di produttività delle aziende privatizzate e il livello dei prezzi al consumo può dipendere da fattori assolutamente indipendenti dalle privatizzazioni in sé, come ad esempio shock esogeni della domanda, oppure cambiamenti radicali nella disponibilità di tecnologie. Perciò un’analisi in cui si tenga conto di un solo fattore, come i prezzi al consumo, è sempre insufficiente ai fini delle valutazioni delle privatizzazioni (Florio, 2007).
Questi sono alcuni dei motivi per cui è fuorviante parlare di successo o di fallimento delle privatizzazioni, perché pressoché ogni processo di riforma politica ha dei vincitori e dei vinti. Nel caso specifico, il processo di riorganizzazione del nostro sistema produttivo ha avuto certamente degli effetti positivi: minimi e trascurabili sui consumatori e lavoratori, enormi sul volume di affari della finanza, sui salari dei manager, sull’aumento delle diseguaglianze.
L’impatto delle privatizzazioni sul livello dei prezzi e sulla produttività delle imprese è stato positivo, ma molto piccolo, tanto da far ipotizzare che potrebbe essere paragonabile a quello che avviene in qualsiasi altro processo di riorganizzazione aziendale, ad esempio quando un’azienda acquisisce un’altra azienda o quando un’azienda viene nazionalizzata (Florio, 2007).
L'agenda politica
Il governo italiano aveva una specifica agenda politica nello svolgere le privatizzazioni: come dichiarato nel “Libro verde sulle partecipazioni dello stato”, l’idea alla base del progetto italiano di privatizzazioni era quella di: “i) aumentare la competitività del sistema produttivo
ii) promuovere lo sviluppo dei mercati finanziari
iii) aumentare l’internazionalizzazione delle imprese in prospettiva della globalizzazione e della maggiore integrazione europea” (Bortolotti, 2005).
Più in generale, si voleva creare un ambiente economico più competitivo tra aziende, eliminando i cosiddetti monopoli pubblici e riducendo la supposta inefficienza delle imprese pubbliche. L’idea era quella di creare, dallo smantellamento delle industrie pubbliche, 10 o 12 gruppi industriali in grado di competere a livello europeo (Barucci, 2007). La competizione tra aziende avrebbe portato a maggiore efficienza, alla fuoriuscita dal mercato delle aziende inefficienti e ad un calo dei prezzi per i consumatori.
Sicuramente abbiamo assistito ad una crescita del volume di affari nella finanza e ad una maggiore internazionalizzazione delle imprese, ma in questi anni non abbiamo assistito né a benefici evidenti per i lavoratori, né a un chiaro vantaggio per i consumatori, specie per quanto riguarda il settore delle utility, dove per il consumatore mediano non vi è stato un vantaggio dal processo di privatizzazioni (Florio, 2014). Inoltre, la competitività delle aziende italiane è stagnante proprio perché il processo di liberalizzazioni non ha aumentato gli investimenti come invece si pensava avrebbe fatto.
Purtroppo, in questi processi si è spesso dimenticata una nozione economica elementare: non tutti i mercati sono perfettamente concorrenziali. Se da un lato potrebbe avere senso liberalizzare un settore con libero accesso delle imprese al mercato, dall’altro è opinabile la liberalizzazione di un settore dove non si farebbe altro che passare da un monopolio/oligopolio pubblico ad uno privato.
Il compito di un monopolio pubblico, specie dove non vi è libero accesso delle aziende al mercato, come nel settore dell’energia, è quello di generare dei prezzi bassi per il consumatore, e, ancora più importante, stipulare con i colossi dell’energia dei contratti favorevoli ai consumatori. Inutile specificare che tutto ciò non ha nulla a che fare con la libera concorrenza (Florio, 2012).
Alla radice
Come siamo arrivati a questo punto? Negli anni '80 si impose, nei paesi anglosassoni e poi in tutti i paesi occidentali, l’idea per cui facendo agire spontaneamente il mercato si sarebbe raggiunto un equilibrio economicamente efficiente.
In Europa occidentale il processo di privatizzazione e liberalizzazione seguì di pari passo quello di integrazione europea e di integrazione monetaria. Infatti, fu proprio l’apertura al mercato internazionale e la liberalizzazione dei capitali che impose un’agenda di politica liberista.
Le stesse direttive della Commissione europea vietavano di sussidiare le aziende di Stato, in quanto queste avrebbero avuto una posizione di privilegio rispetto alle altre aziende, distorcendo in questo modo il naturale funzionamento del mercato. Veniva chiesto all’Italia di rinunciare al sistema economico che l’aveva portata a passare nel giro di 40 anni da un paese prevalentemente agricolo alla seconda manifattura d’Europa, in quanto considerato inefficiente e particolarmente incline a fenomeni di corruzione e ingerenze della politica nell’economia.
La maggior parte delle privatizzazioni in Italia avvenne negli anni '90, in particolar modo dopo gli attacchi speculativi alla lira, l’entrata dell’Italia nel trattato di Maastricht, le stragi di mafia e Tangentopoli. Un periodo di assoluto caos politico, in cui la fiducia nelle istituzioni era molto bassa e si credeva che il mercato e il vincolo esterno avrebbero finalmente disciplinato l’economia italiana.
La fede nel mercato era una convinzione estremamente diffusa nell’opinione pubblica italiana: basti guardare il risultato del referendum sull’abolizione del Ministero delle partecipazioni statali, in cui una schiacciante maggioranza del 90% votò a favore dell’abolizione del Ministero. È questo il periodo, precisamente dal 1992 al 2000, in cui l'Italia si colloca al primo posto nella classifica delle privatizzazioni (Privatization Barometer, 2005).
Quello che era prima
Ma facciamo un passo indietro. Prima della fase di liberalizzazioni e privatizzazioni, in Italia vigeva un sistema economico misto, in cui lo Stato era proprietario di gran parte del settore bancario (3/4) e circa di 1/3 delle 50 più grandi aziende di proprietà pubblica.
Tre grandi holding detenevano le aziende pubbliche italiane: ENI, IRI e EFIM. Le infrastrutture, i servizi pubblici, la manifattura, l’energia, le banche e le assicurazioni erano di buona parte di proprietà statale. In questo sistema, il controllo era svolto da manager autonomi con pieni poteri di controllo (Barca, 2015).
Come scrive Ugo Pagano, "il capitalismo italiano si presenta nel dopoguerra con un ampio settore di grandi imprese pubbliche che garantiscono una separazione estrema fra proprietà e controllo" (Pagano, 2019).
La narrazione
Ma come si consolidò la ferma convinzione che il sistema economico italiano fosse un sistema fallimentare e da riformare completamente? Come si arrivò alla sicurezza di dover smantellare le aziende pubbliche nel giro di così pochi anni?
Veniva ripetuto in molte sedi che l’Italia, per giocare alla pari con le altre potenze europee, doveva seguire le regole di integrazione europea, una ricetta fatta di privatizzazioni, liberalizzazioni e flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Veniva anche ripetuto come il sistema misto italiano fosse inefficiente, ed in particolare le aziende private italiane fossero più produttive di quelle pubbliche.
Molti dei dati forniti a sostegno di questa tesi sono un aggregato sugli utili e sulla produttività delle aziende pubbliche rispetto a quelle private. Questo dimostra molto poco, ma comunque ci porta a riflettere sul fatto che le imprese pubbliche non nascono unicamente con il compito del profitto, ma anche con finalità di tipo sociale e sono portate ad operare al fine di erogare servizi ai cittadini laddove il mercato non riesce a farlo.
Inoltre, i loro azionisti di riferimento sono tutti i cittadini, a differenza di un’impresa privata, dove gli azionisti di riferimento sono pochi privati. Quindi anche se il paragone “naïve” tra produttività di aziende pubbliche e aziende private fosse motivato da considerazioni metodologiche, comunque non terrebbe conto del fatto che le aziende pubbliche alle volte devono operare in condizioni di utili negativi. Senza contare l’enorme varianza di produttività tra diversi settori pubblici in Italia: infatti, in alcuni ci vantavamo delle eccellenze in ambito internazionale, in altri casi aziende poco competitive erano mantenute in vita.
In questa prima parte dell'analisi abbiamo descritto brevemente il funzionamento del sistema economico italiano pre-privatizzazioni e le finalità politiche ed economiche delle privatizzazioni, mentre nella seconda parte metteremo luce sulla differenza tra gli esiti reali delle privatizzazioni in Italia e le mistificazioni operate dalla stampa mainstream sulle privatizzazioni.
Leggi qui il secondo articolo dell'approfondimento.
[…] (moneta stabile, forte e integrata nei circuiti internazionali), istituzionale (facilitare la privatizzazione e la liberalizzazione) e sociale (riducendo ad esempio i diritti sul […]