Nel libro "The Tyranny of Merit. What's Become of the Common Good?" (pubblicato a settembre 2020), il filosofo comunitarista Michael J. Sandel sottolinea il ruolo altamente dannoso per la democrazia giocato dall’ideologia del merito, diffusa nelle élites contemporanee e parte integrante del linguaggio mediatico.
Il suo nucleo essenziale consiste nel credere che una società giusta dovrebbe permettere a chiunque, senza distinzioni di etnia, genere, e di condizioni socio-economiche di partenza, di avere successo, di arrivare fin dove il proprio talento e i propri sforzi lo permettono. Il successo personale all’interno della grande competizione capitalistica diventa dunque un segno del proprio valore e del proprio impegno.
Ideologia e Realtà
È da questa retorica che nasce l’insistenza sulla responsabilità personale e sulla mobilità sociale, considerata la soluzione contro le diseguaglianze seguite ai processi di globalizzazione.
Tuttavia, la mobilità, decantata da molti politici, soprattutto di centrosinistra, non si è realizzata. Sandel mostra come essa sia inversamente proporzionale alle diseguaglianze: con un’analisi comparata dei maggiori paesi occidentali, si nota che il tasso di mobilità verso l’alto è più basso dove ci sono maggiori diseguaglianze (come negli Stati Uniti) e più accentuato dove queste sono minori. La retorica del merito è dunque fattualmente falsa e serve a mascherare le diseguaglianze crescenti e i tagli al welfare (“se non tiri a campare è colpa tua”).
Dissoluzione comunitaria
L’autore ritiene che la nozione del merito sia eticamente e politicamente contestabile, anche in condizioni di pari opportunità. Perché, infatti, ai talentuosi spetta moralmente un guadagno enorme? Possedere un talento non è una questione di merito personale, né lo è il vivere in una società dove quel talento è ben remunerato; è capitato che una certa qualità fosse nostra.
In altre parole, il talento è un dono per il quale l’individuo è costitutivamente indebitato. Caso, fortuna e senso della grazia, del dono, della contingenza del proprio successo, e umiltà sono integralmente recisi dalla retorica del merito. Inoltre, è anche difficile scovare con chiarezza il talento individuale e prescindere dall’apporto del contesto sociale. Difatti, la meritocrazia dimentica che la comunità ha un ruolo decisivo nella vita personale di ognuno di noi, che siamo originariamente indebitati con essa.
Fatto ancora più grave, la meritocrazia fomenta comportamenti lesivi del buon vivere democratico: hubris, vanto, senso di superiorità tra i vincitori della competizione, umiliazione e risentimento tra gli sconfitti.
La competizione universitaria e il “credenzialismo”
L’ambito maggiormente analizzato dall’autore è quello universitario. Proprio sulla scorta dell’idea per cui l’individuo è interamente responsabile del proprio successo, e che per raggiungerlo nell’era della globalizzazione è necessario avere una laurea (Bill Clinton disse: “what you earn depends on what you learn”), negli ultimi decenni le università americane sono diventate teatro di un’asperrima competizione per l’accesso, tanto da polarizzare la società in chi ha un diploma e chi no.
Anche in questo caso, il merito è per lo più una finzione: evidente composizione di classe delle università; scarsa mobilità garantita dall’educazione (anche pubblica); selezione parzialmente privilegiata degli alunni (chi proviene da famiglie che donano all’università, chi ha buone capacità atletiche, chi è figlio di un alunno della stessa università); test attitudinali, come il SAT, che risentono del background socio-economico dei candidati, premiando i più privilegiati, i quali hanno maggiore possibilità economiche di prepararsi al test.
Ciononostante, la meritocrazia ha dato vita a una selezione così consumante che perfino tra i giovani provenienti da famiglie ricche - i “vincenti” - si riscontra un trend in crescita di ansia, stress, depressione, scarsa autonomia, ossessione per le performances, abuso di droghe, tendenze suicide.
Uno degli aspetti culturali più evidenti di questa competizione è il “credenzialismo”, visibile, ad esempio, nella volontà diffusa tra i politici di esibire i propri titoli (talvolta inventandoli) o la propria intelligenza. Alcune analisi linguistiche-statistiche mostrano l’esplosione dei termini relativi all’intelligenza (come il termine “smart” usato ormai anche per le cose) e alla stupidità, che sembrano sostituire le più antiche e venerande categorie politiche di giusto e ingiusto (è il caso di Obama, che considerava la guerra in Iraq stupida, più che ingiusta).
In politica, tutto ciò si è tradotto in un maggiore affidamento alla tecnocrazia, in un atteggiamento fideistico verso il libero mercato e nella credenza che la globalizzazione sia inarrestabile, alla stregua di un fatto di natura. Vengono dunque espulsi dal discorso pubblico argomenti morali e forieri di conflitto, e si considera il discorso economico estraneo alla comprensione popolare.
Ne consegue che il bene comune è ridotto al PIL o a una semplice somma delle preferenze individuali, indipendente dal giudizio che si può esprimere su tali differenze e, in particolare, dal contributo che ciascuno porta al bene comune in termini di beni e servizi prodotti.
Si tratta di una neutralità esibita, che nasconde la faziosità e la tracotanza delle élites contemporanee (scarsa saggezza pratica, dimenticanza del bene comune, esclusione della classe lavoratrice dalla decisione politica e dai partiti mainstream, mancanza di confronto col dissenso). Ne risulta indebolito il progetto civico di coltivazione della cittadinanza e della solidarietà.
Erosione della dignità del lavoro e perdita del riconoscimento
Il sistema meritocratico produce un ambiente sociale invivibile per i più: quando la maggioranza della popolazione non ha un diploma e l’economia è in buona misura fondata sul lavoro non qualificato, pretendere che il diploma sia il requisito indispensabile per “farcela” significa non solo accettare livelli crescenti di povertà ma anche legittimare una società di frustrati e risentiti.
Tra le classi popolari non si registrano solamente stress e indigenza economica, ma erosione della dignità del lavoro e perdita del riconoscimento. Tale svilimento di senso ha comportato una crescita esponenziale delle cosiddette “deaths in despair”, ossia morti dovute a cause autoinflitte (droghe, alcol, suicidio), soprattutto tra maschi bianchi di mezza età non diplomati. Il fenomeno è in crescita dagli anni ’90, ed è culminato nel triennio 2014-2017, quando l’aspettativa di vita americana ha invertito il precedente - e longevo - trend di crescita. La differenza tra diplomati e non diplomati si vede anche in altri aspetti della qualità della vita. Tra i secondi si registrano più malattie, declino di abilità nel socializzare e nel lavoro, instabilità familiare e comunitaria/culturale.
La reazione populista
La rivolta populista non è dunque riducibile solamente a xenofobia, a questioni economiche (globalizzazione diseguale, rivoluzione tecnologica, flessibilità, forze economiche considerate “inarrestabili”) o al “politicamente corretto”; essa esprime la rabbia e il risentimento verso un sistema competitivo eticamente invivibile, in termini di dignità del lavoro, senso di impotenza politica, perdita di stima sociale. Secondo l’autore, Donald Trump - che, ben inteso, Sandel disistima - ha colto e sfruttato le ansie e le frustrazioni incomprese di carattere culturale e morale.
L’autore ricorda opportunamente che i partiti di sinistra hanno perso il proprio elettorato proprio sostenendo questa retorica e perseguendo - soprattutto con Clinton, Blair, Schroder e, in parte, Obama - politiche economiche iniziate a destra da Thatcher e Reagan: deregolamentazione finanziaria; promozione di trattati commerciali globali; nel caso di Obama, bail out delle grandi banche di investimento implicate nel crollo del 2008 (dimenticando la rabbia dei cittadini americani).
Per una giustizia contributiva
Per Sandel tutto ciò non significa contestare in toto il concetto di merito. Esso può portare a maggiore efficienza; comporta responsabilizzazione e “potenzia” l’individuo nella sua libertà personale; non discrimina ed è equo (aspetto storicamente maggiormente positivo, venendo superato lo storico privilegio protestante e maschile nell’accesso all’università). Né l’autore contesta il proposito di caldeggiare la frequenza universitaria in strati sempre maggiori dell’università, anche facilitandone l’accesso. Cionondimeno, se la meritocrazia ha svolto un ruolo critico importante, non può costituire un ideale sociale da massimizzare.
La pandemia dovrebbe aver aperto gli occhi a molti sull’importanza di chi svolge un lavoro umile (commessi, fattorini, infermieri, ecc.), senza i quali sarebbe stato difficile reggere alle misure di lockdown. Ora è necessario rifondare una giustizia contributiva: oltre al salario minimo, alla Tobin tax per la finanza - la cui ipertrofia ha ostacolato il bene comune -, e alla tassazione fortemente progressiva (giustizia distributiva), è doveroso rimettere al centro il riconoscimento e la dignità del lavoro, tornare a percepirsi come produttori, e non solo come consumatori.
Bisogna fare in modo che avere una laurea non sia necessario per condurre una vita dignitosa, prendere sul serio le più diverse forme di apprendimento (anche l’educazione tecnica), come contributi fondamentali al bene comune.
Serve ripensare la società non come una somma di preferenze, ma come uno spazio civico di dibattito e riflessione critica sul valore di queste, una società che coltivi le virtù civiche dell’argomentazione e del dialogo; riscoprire la funzione educativa della formazione di cittadini riflessivi, capaci di deliberare sul bene comune, ossia dibattere su cosa è valevole di riconoscimento e cosa dobbiamo l’uno all’altro come cittadini.
Il vero valore del nostro contributo alla società dipende dall’importanza morale dei fini che perseguiamo, non dalla mera soddisfazione di una domanda (come vorrebbero i fideisti del libero mercato). Siamo pienamente umani quando contribuiamo al bene comune e riceviamo stima sociale.
[…] merito è un parametro comprensibile e condivisibile nel giudizio dell’individuo rispetto […]
[…] riformatore” (o “socialismo liberale”) e anticipa alcune riflessioni importanti sul ruolo del Welfare State. Mill si dichiara, infatti, favorevole all’intervento dello Stato nel sistema economico, […]