Era il 28 aprile 1932 quando il re e artefice del Regno saudita, Abdul Aziz Ibn Saud, al ritorno del principe Faisal da una visita ufficiale in Italia, dava un primo e decisivo slancio alle relazioni tra Roma e Riyad. “Desidero mantenere ad ogni costo il legame di amicizia con l’Italia, poiché questa amicizia è molto preziosa”, affermò re Saud. L’evolversi dell’interlocuzione diplomatica tra i due Paesi e i progressi nella cooperazione economica avrebbero sciolto ogni dubbio sulla veridicità della dichiarazione di intenti. A conferma della sincera stima della casa regnante dei Saud verso Roma, il ministro plenipotenziario italiano a Gedda, Ottavio De Peppo, riferì che il re si spostava per le vie della città a bordo di una Isotta-Fraschini nuova di zecca che il principe Faisal aveva acquistato durante la visita ufficiale in Italia. Un altro segno di buon auspicio per le relazioni a venire.
I primi ammiccamenti
Due sono i trattati bilaterali che nel 1932 annunciarono l’inizio dei rapporti diplomatici ed economici tra la monarchia italiana e quella saudita: un Trattato di amicizia italo-saudita e uno commerciale. Fin dall’inizio del XX secolo, una presenza di tecnici italiani impegnati nella progettazione e realizzazione della ferrovia dell’Hegiaz, di ingegneri, esperti di infrastrutture e addestratori militari si era consolidata nella Penisola Arabica. Da allora, i sauditi sarebbero stati ben propensi ad affidarsi alla competenza e alla maestria degli italiani.
Alcuni furono ingaggiati negli anni ’40 per conferire una struttura più razionale alla Marina e Aviazione saudita, altri assunti nella compagnia petrolifera Aramco, che costituiva un segnale inequivocabile della volontà statunitense di inserirsi negli equilibri geopolitici del Medio Oriente.
Eppure, fu soltanto nel secondo dopoguerra che l’allineamento della politica estera italiana alle posizioni statunitensi stabilì un canale di interlocuzione privilegiato tra Roma e Riyad. Varrà ricordare che la buona reputazione italiana beneficiava del discredito piombato su Francia e Gran Bretagna per il perseguimento di disegni imperialistici ormai incompatibili con il nascente ordine bipolare. A differenza di Londra e Parigi, l’Italia non fu costretta a fare i conti con il peso del passato coloniale, per quanto innegabili fossero state le ambizioni espansionistiche su un’area che andava dall’Etiopia allo Yemen.
Se a ciò si aggiunge la posizione cauta assunta dal governo italiano sulla questione arabo-israeliana, dovuta all’influenza a Roma di correnti politiche filoarabe (se non filopalestinesi) si può ben comprendere la ragione per cui Roma era tenuta in gran considerazione nel mondo musulmano, Arabia Saudita inclusa. In un discorso pronunciato al Senato della Repubblica nel luglio 1958, l’allora Presidente del Consiglio Amintore Fanfani espose una visione lucida del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo:
“I Paesi arabi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale ed Israele hanno con noi amichevoli relazioni, che ci proporremo di rendere sempre più attive quale contributo dell’Italia ad allargare l’area della prosperità e quindi consolidare le sorti della libertà sulle rive mediterranee. Confidiamo che i conflitti che turbano ancora alcune zone giungano alla fine, ridando pace nell’ordine e nella giustizia con beneficio di tutti.”
Una cooperazione crescente “nonostante le nubi”
L’Italia uscita umiliata dalla Seconda Guerra Mondiale era stata privata dei possedimenti coloniali, nonché del suo arsenale bellico. Ma dalla firma dei Trattati di Parigi in poi, allo sforzo volto a marcare una discontinuità con il regime fascista si affiancava l’aspirazione di riacquisire un prestigio internazionale. In uno scenario geopolitico in cui Washington dettava agli alleati occidentali le condizioni per un sistema difensivo in chiave antisovietica, Roma mirava ad assumere il rango di media potenza, beneficiando del crollo di credibilità di francesi e britannici. Questa intenzione fu ben evidenziata dal console Guido Sollazzo in occasione della firma del Trattato di Amicizia del ’32:
"Le politiche inequivocabili e leali dell'Italia nei confronti di questo Stato [Arabia Saudita], unite a uno spirito di profonda comprensione della storia di questi popoli, saranno in grado, con il tempo e la perseveranza, di raggiungere quei risultati che altri, che erano qui davanti a noi ed erano meglio attrezzati di noi, si sono sforzati invano di raggiungere, essendo guidati solo dall'egoismo e dai piani egemonici".
Inoltre, dal primo dopoguerra la competizione tra compagnie petrolifere sull’area del Mediterraneo allargato si era intensificata a tal punto che le cosiddette “sette sorelle” si erano convinte della necessità di costituire dei veri e propri consorzi che sedessero ai tavoli negoziali con i Paesi ricchi di “oro nero”. La neonata - ma ambiziosa - compagnia di bandiera italiana, l’Eni, insieme con Agip, avrebbe insidiato l’oligopolio delle rivali.
Perseguendo l’obiettivo strategico di garantire al tessuto produttivo italiano “energia abbondante e a basso costo”, secondo la formula di Enrico Mattei, il “cane a sei zampe” raggiunse accordi vantaggiosi con la Persia nel marzo 1957 e con il Regno saudita nel 1967. Al di là delle ricerche petrolifere e dell’assistenza tecnica fornita da Eni all’Arabia, dopo che la prima legazione diplomatica saudita a Roma fu elevata al rango di ambasciata nel 1958, i livelli di cooperazione economica e il volume di interscambio tra Italia e Arabia continuarono a progredire: l’accordo italo-saudita per la collaborazione nell’industria petrolchimica del ’67, l’accordo di cooperazione industriale e tecnologica del ’71, l’accordo di collaborazione culturale, scientifica e tecnica del ’73.
Inoltre, la crisi petrolifera degli anni ’70 non poté che persuadere Roma della necessità stringente di coltivare buone relazioni con uno dei maggiori produttori di greggio del Vicino Oriente. Tra il 1981 e il 1983, il volume delle esportazioni italiane verso Riyad passò da 2,6 a 4,6 miliardi di lire. A seguito della mossa italiana - ben accolta alla corte dei Saud - di appoggiare la liberazione del Kuwait dall’occupazione irachena del ’90, le relazioni economiche tra i due Paesi si consolidarono ulteriormente. Ne fu una prova tangibile il lancio di un’Associazione delle aziende italiane in Arabia Saudita nel ’93.
Tenendo ben presente l’evoluzione dei rapporti bilaterali tra Italia e Arabia Saudita, trainati in buona parte da ragioni strategiche di approvvigionamento energetico e dalle commesse, ci si può proiettare sugli scenari attuali, in cui spiccano il piano “Vision 2030” e il passaggio del testimone tra Roma e Riyad alla presidenza del G20.
A novant’anni dal Trattato di amicizia italo-saudita
Se a riaccendere i riflettori sulle molteplici forme di interazione tra i due Paesi è stata la recente partecipazione dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi alla seconda giornata del Future Investment Initiative, meno eclatante, ma ben più interessante, può esser ritenuta la recente visita ufficiale del Ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio in Giordania e Arabia Saudita.
Un filo sottile lega i tre Paesi, poiché l’Italia è custode della sede delle massime autorità della Chiesa cattolica, mentre la Giordania è governata dal regime monarchico dell’ultimo ramo superstite della dinastia hashemita, che a lungo aveva sorvegliato i luoghi sacri dell’Islam, e la dinastia saudita è succeduta a quella hashemita nel ruolo di custode dell’Hegiaz, dove sono situate La Mecca, Medina e Gedda.
Inoltre, la Giordania ha svolto un compito di mediazione di cruciale importanza tra Paesi occidentali, Israele e Paesi arabi, laddove l’Arabia Saudita ha adottato negli ultimi anni una politica estera attiva, a tratti ingombrante e preoccupante, nello scacchiere mediorientale: basti pensare al sostegno economico destinato al regime egiziano, all’attenzione rivolta alle comunità musulmane dell’Africa orientale e alle iniziative di contrasto all’influenza esercitata dagli iraniani nel Vicino Oriente.
Per l’Italia intrattenere relazioni non solo economiche e culturali, ma soprattutto diplomatiche con due membri autorevoli del Consiglio della Cooperazione del Golfo (Ccg) è condizione necessaria per veder aumentare il proprio prestigio sulla sponda araba del Mediterraneo allargato, dove di recente è stato reintegrato persino il Qatar.
Sia ben chiaro che non si parla di un prestigio fine a sé stesso, bensì di uno status che consentirebbe a Roma di influire, in una certa misura, nel dialogo multilaterale dei Paesi membri del Ccg, da cui potrebbe dipendere una svolta della situazione libica. Ciononostante, il ministro Di Maio ha voluto attribuire alla sua azione diplomatica un carattere “squisitamente economico”, cosicché ha provveduto, appena dopo la sua nomina, a trasferire le deleghe dal dipartimento del Mise.
Non c’è dubbio che questa dimensione di indirizzo della politica estera sia rilevante, dato che i Paesi del Golfo hanno ospitato e ospiteranno eventi di risonanza internazionale come l’Expo di Dubai, rinviata a causa della crisi pandemica, e i Mondiali in Qatar previsti per il 2022. Ma una tale interpretazione dell’incarico dell’inquilino della Farnesina è assolutamente riduttiva e non conforme allo status di media potenza di cui l’Italia gode storicamente.
Non si deve, tuttavia, trascurare l’impulso dato dal principe ereditario Mohammed bin Salman alla politica economica dell’Arabia Saudita. Con innovazione tecnologica, transizione energetica e modernizzazione delle città come punti cardine, il piano “Vision 2030” inizia a prendere forma. Ed è evidente il coinvolgimento italiano, come accade per la Linea 3 della Riyad Metro progettata e quasi ultimata dalla ex Salini Impregilo, ora Gruppo WeBuild. Questa ha collaborato dagli anni ‘70 alla realizzazione di ben 22 opere in Arabia Saudita, per un valore totale di più di 20€ milioni.
Sulla bilancia commerciale tra Roma e Riyad pesano in modo particolare, da una parte, le esportazioni italiane (pari a 3,3 miliardi di euro nel 2019) di macchinari (pari al 36% dell’export italiano complessivo in Arabia Saudita), macchine, elettrodomestici, materiale elettrico (pari al 6,8% dell’export totale), mobili (pari al 6%) e ghisa e acciaio (pari a 5,1%); dall’altra, le esportazioni saudite (pari a 3,8 miliardi di euro) di combustibili (pari all’84% del totale), materie plastiche e prodotti chimici.
Da questa analisi emerge chiaramente che il Regno saudita è di fatto un alleato strategico per l’Italia. Spetta però a quest'ultima trovare la via più adeguata a sostenere una cooperazione politica ed economica senza mai abbassare la guardia su forme di compressione dei diritti umani fondamentali – con particolare riferimento alla libertà di opinione e di stampa e alla condizione delle donne - e sulla questione dello Yemen. La posta in gioco in questo braccio di ferro tra ragioni di natura strategica ed economica e valori non negoziabili è altissima.
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