Tassare di più i ricchi? Non serve, almeno secondo la vulgata liberista rappresentata da pagine come l’Istituto Liberale, che si definisce "il più grande think tank liberale italiano".
Il 25 settembre sui suoi canali social l’Istituto Liberale ha pubblicato una complessa infografica (qui) per dimostrare quanto un sistema più progressivo sia inutile al fine di redistribuire la ricchezza. E non solo, dopo una sbrigativa (e imprecisa, come vedremo) analisi economica gli autori del post si sono spinti oltre, tacciando chi non la pensi come loro di essere irrazionale e populista.
Il contesto
La crisi finanziaria globale, la prolungata stagnazione che ne è seguita e in ultimo la pandemia da Covid hanno messo a nudo tutte le fragilità del paradigma liberale contemporaneo e delle sue declinazioni socio-politiche, ideologiche ed economiche. Vi è però chi, mosso dai propri istinti reazionari e in connivenza con l’apparato mediatico, insiste con le medesime ricette, rifiutando di prestare orecchio alle istanze di una vasta schiera di inascoltati, e bolla grottescamente chiunque proponga la costruzione di un’alternativa.
A dare manforte al mantenimento dello status quo, intriso della retorica neoliberale, troviamo pagine e canali social il cui compito parrebbe quello di convincerci che il miglioramento della condizione umana sia da ricercarsi in una svolta reazionaria delle nostre istituzioni e delle forme di rappresentanza collettiva. È il caso, ad esempio, della pagina "Istituto Liberale".
Ammantandosi di un improbabile principio di autorità, gli autori della pagina non perdono occasione per lanciarsi in ardite argomentazioni apologetiche di una visione ultraliberista distorsiva della realtà. A tal proposito, gli autori ricorrono spesso a dati poco discussi e ancor meno contestualizzati, convinti che questo sia sufficiente ad affrancarli dalle narrazioni populiste che contestano, ma che, alla prova dei fatti, emulano in salsa reazionaria.
Abbiamo preso uno dei loro post più condivisi che parla di un tema a noi caro per smascherare la strategia mistificatoria tipica di queste pagine. Dovremmo tassare di più i ricchi? Secondo Istituto Liberale no. Per noi, invece, è quanto mai necessario farlo subito, e in modo deciso.
Per sostenere questa posizione procederemo analizzando le diapositive proposte nel post di Istituto Liberale esaminando gli strumenti argomentativi adottati per poi demistificare le tesi avanzate. Nella maggior parte dei casi sarà sufficiente imbastire un discorso logico che tenga conto dei nessi causali sottostanti le dinamiche discusse, ma talvolta faremo riferimento anche a questioni di carattere metodologico e alla letteratura sul tema. Sebbene il dibattito sia ampio e lungi dall’essersi concluso, ed esporlo con dovuta minuzia richieda una review accademica piuttosto che un articolo online, un accenno ad alcune delle posizioni in campo sarà sufficiente a far crollare l’intero apparato argomentativo proposto da Istituto Liberale.
I ricchi pagano già abbastanza? FALSO
Strumenti argomentativi: distorsione dei dati, distorsione grafica, omissione
I ricchi pagano già abbastanza: a sostegno di questa tesi Istituto Liberale si limita a riportare alcune cifre sui valori assoluti dell’imposizione fiscale, sostenendo che “negli Stati Uniti il 50% della popolazione che guadagna di più paga il 97% di tutte le imposte”. Siamo felici di constatare che gli autori abbiano scoperto il principio di progressività delle imposte, che rimane fortunatamente un concetto acquisito nelle economie capitalistiche avanzate di tutto il mondo, sebbene gli istinti reazionari di cui pagine come Istituto Liberale si fanno portatrici premano per ritornare ad un sistema di tassazione di stampo "feudale".
È giusto che chi guadagna di più paghi di più. Anche perché chi guadagna di più ci riesce spesso per privilegi acquisiti per nascita e grazie a un sistema in cui, dati alla mano, l'ascensore sociale è sempre più bloccato, e non certo grazie alle proprie eccezionali capacità.
Il punto è: quanto devono pagare di più i ricchi? E’ giusto che in un sistema economico destinato a crescere, siano i profitti in valore assoluto ad appropriarsi della maggior parte dei ritorni di produttività mentre i salari perdono terreno? Siamo sicuri che questo non esacerbi la disuguaglianza economica, destinata a tradursi in egemonia politica da parte di una manica di oligarchi ai danni dei più? Più è progressiva la tassazione, più un rischio di questo tipo viene scongiurato.
L’esempio degli Stati Uniti è quello di un paese che, come l’Italia (lo vediamo dopo) negli ultimi anni ha applicato pesanti sconti a favore dei più ricchi: da un’aliquota massima (ossia la percentuale di tasse pagate al margine dai più ricchi) del 94% sotto l’amministrazione Truman si è passati a tassare meno del 40% del reddito da lavoro. I risultati sono tangibili, almeno per i paperoni d’America. Il problema è che a fronte della crescente accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi multimiliardari è corrisposto il declino della classe media statunitense, che rappresentava il caposaldo dell'economia americana post-bellica (lo vedremo a breve).
Nel complesso, l’esempio degli USA non è propriamente edificante: a fronte di una tassazione tanto esigua dei redditi elevati corrispondono odiose disuguaglianze e povertà in larghe fasce della popolazione. Quello che secondo Istituto Liberale dovrebbe essere l’alfiere del benessere si dimostra un caso da non invidiare, tra i peggiori nel mondo occidentale in tema di disuguaglianze.
L’argomentazione sul caso italiano trova poi spazio in una slide successiva. Senza contesto, senza ricostruzione storica e con un paragone con i soli Stati Uniti si cerca di far passare il sistema fiscale italiano come ingiusto, affermando che “in Italia l’aliquota marginale massima delle imposte sul reddito è del 43% e viene raggiunta con un reddito annuale di 75mila euro”.
Colpo di scena: Istituto Liberale ha qui in parte ragione, ma non certo per le cause che espone. Il punto è sì che si è considerati “ricchi” non appena si guadagna più di 75mila euro, ma questa non è la conseguenza di un regime di tassazione di stampo sovietico, come Istituto Liberale vorrebbe far credere. La realtà è infatti che in Italia si raggiunge l’aliquota di tassazione massima con una fascia di reddito medio proprio perché negli anni si è deciso di attuare politiche regressive in favore di chi ha di più.
Lo dimostrano con estrema lucidità Rocco Artifoni, Antonio De Lellis e Francesco Gesualdi: dal 1974 ad oggi, anno dell’introduzione dell’aliquota Irpef, le tasse sul reddito sono aumentate per tutti tranne che per i più benestanti. Come? Riducendo drasticamente gli scaglioni Irpef (ovvero le fasce di reddito usate per calcolare le tasse, passate da oltre 30 a meno di dieci) e “semplificando” il sistema, ovvero raggruppando grossolanamente le fasce sacrificando la logica progressiva impostata agli inizi degli anni Settanta.
Con lo straordinario risultato di aver aumentato le tasse per i più poveri e la classe media e ridotto drasticamente le tasse ai più ricchi. Un sistema ingiusto sì, ma a sfavore di chi ha meno. La soluzione è riassunta in una parola: progressività.
Altra nota: Istituto Liberale sorvola completamente sul tema della differenza tra reddito e patrimonio (quote, immobili, terreni, ecc…), sebbene numerosi economisti tra cui Thomas Piketty e il Premio Nobel Joseph Stiglitz, abbiano più volte sottolineato che siano questi ultimi in particolare a determinare oggi gli squilibri tra individui.
Forse perché in Italia le tasse sul patrimonio in moltissimi casi sono meno della metà della media europea? Persino Luigi Einaudi scriveva a proposito a favore dell’imposta di successione. Il suo pensiero sulla carta dovrebbe stare molto a cuore ai nostri amici di Istituto Liberale.
A differenza loro, però, Einaudi non utilizzava le proprie vesti di liberale per nascondere la difesa dei propri privilegi, e dunque tanto vale ignorarlo quando non serve la propria causa:
“La confusione esistente in materia nella mente del pubblico è bene illustrata dall’opinione assai comune che le imposte sulle successioni provochino una riduzione della ricchezza capitale del paese. Se si suppone che lo Stato destini il gettito di queste imposte alle sue uscite ordinarie, in modo da ridurre o evitare corrispondentemente le imposte sui redditi e sul consumo, è vero, naturalmente, che una politica fiscale di alte imposte di successione ha l’effetto di accrescere la propensione a consumare della collettività".
Le tasse non migliorano il benessere dei poveri. FALSO
Strumenti argomentativi: distorsione dei dati, distorsione grafica, falsa correlazione, omissione
Le tasse non migliorerebbero il benessere dei poveri: non si comprende sulla base di quale elemento, se non della propria percezione, si basi tale argomento.
Premesso che Istituto Liberale sembra parlare di povertà senza specificare di che povertà si parli (relativa, assoluta, estrema?), viene sostenuto che il benessere dei poveri non migliori senza portare alcun dato a riguardo. Nulla, pura opinione.
Si fa riferimento soltanto all’aumento delle entrate fiscali e della spesa pubblica, che è un trend fisiologico dovuto alla crescita economica (basta che il reddito cresca a una velocità maggiore di quella alla quale si riducono le imposte) e che nulla dice su come queste risorse vengano allocate.
Riguardo alle condizioni dei poveri, forse sarebbe opportuno osservare che la povertà estrema è aumentata nelle liberaldemocrazie proprio dagli anni ‘80 (lo vedremo dopo), cioè dal momento in cui si sono energicamente applicati i tagli delle imposte che gli autori caldeggiano.
Non vi è alcun “uso della ragione” né chissà quale illuminata comprensione dei “meccanismi economici” decantate dagli autori alla base di una tassazione regressiva: solo la pulsione reazionaria di chi mira a difendere i privilegi acquisiti di un sistema ineguale. La stessa che poteva motivare un industriale in età vittoriana a battersi contro l’abolizione del lavoro minorile.
Non esiste nessuna emergenza disuguaglianza. FALSO
Strumenti argomentativi: distorsione dei dati, distorsione grafica, omissione, affermazione falsa
Il colmo dell’argomentazione degli autori è quella in cui si sostiene che non vi sia alcuna “emergenza disuguaglianze”, andando contro i risultati empirici dei maggiori istituti di ricerca che si occupano del tema.
Di disuguaglianza, solo nell’ultimo periodo, hanno parlato con toni tutt’altro che riduzionisti Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Nazioni Unite, Commissione Europea, Mario Draghi e Ministero dell’Economia e delle Finanze. Badate bene: organismi che fino a pochi anni fa hanno difeso (e continuano a difendere, nel suo complesso) il paradigma neoliberale. Non stiamo certamente parlando di Lotta Comunista. Per Istituto Liberale, invece, è tutto ok.
Per quanto riguarda la questione metodologica è doverosa una premessa: l’indice di Gini impiegato da Istituto Liberale è un indicatore discusso e controverso.
Pur supponendone la bontà, notiamo come gli autori si guardino bene dall’ingrandire sull’andamento dell’indice di Italia e USA che riportano, creando l’illusione ottica di mancate oscillazioni significative. Cosa ancor più importante, alla luce del fatto che l’ideologia neoliberale si sia consolidata negli anni ‘80, risulta quanto mai curioso che gli autori abbiano deciso di partire proprio proprio dagli anni ‘90 nell’analizzare l’andamento dell’indice Gini. Includendo il decennio ‘80-’90 sarebbe stato infatti possibile osservare un’impennata dell’indicatore.
I problemi di cui sopra legati all’indice Gini spingono il principale database consultabile online (il WID, World Inequality Database) a prediligere altri indicatori, come l’andamento delle retribuzioni nei top-10% e dei bottom-50%. Se guardiamo ai casi di USA e Italia si nota un’impennata delle disuguaglianze proprio dagli anni ‘80, evidenziando il ruolo decisivo dell’avvento del paradigma neolberale.
Se si confrontano peraltro le due curve prima e dopo la tassazione, appare evidente il ruolo decisivo ricoperto proprio dall’imposizione fiscale progressiva nell’evitare una eccessiva polarizzazione: un dato che mina alla base l’intero apparato argomentativo degli autori dell'Istituto Liberale.
Dal grafico sottostante si evince infatti come la maggiore (per quanto insufficiente) progressività delle imposte del sistema italiano consenta di ottenere un esito di distribuzione del reddito più eguale rispetto al caso degli USA, dove una scarsa incisività nella tassazione dei redditi più alti contribuisce a risollevare i redditi del 50% più povero solo marginalmente.
Nel mondo ci sono meno poveri. FRASE CONTROVERSA
Strumenti argomentativi: distorsione empirica, distorsione grafica, omissione e mancata argomentazione, contraddizione logica
Partiamo da una premessa. È comunemente accettato da coloro che effettuano ricerche sulla povertà globale che qualunque dato prima del 1981, ovvero da prima che la Banca Mondiale registrasse annualmente statistiche sulla povertà globale, è troppo approssimativo per essere utile. Spingersi sino al 1820 è semplicemente privo di senso, dato che lo stesso concetto di povertà ha subito nel tempo radicali trasformazioni.
Tuttavia, pur non volendoci soffermare sul grafico proposto, secondo Istituto Liberale nel mondo ci sarebbero meno poveri grazie alla globalizzazione. Ora, lascia basiti la singolare capacità di eseguire balzi argomentativi senza curarsi dei nessi logici mostrata a più riprese dagli autori. In questo caso si contraddice un’esclamazione effettuata poco prima (la condizione dei poveri non era rimasta immutata nonostante l’aumento delle tasse e della spesa pubblica?) e la si lega ad un fenomeno estremamente complesso che ci si guarda bene dal discutere quale la globalizzazione.
Nel fare ciò peraltro si sorvola sul dato per cui a condizionare l’andamento aggregato sono quasi esclusivamente i paesi asiatici, in particolare dell’Asia orientale. Tra il 1990 e il 2017, degli 1,2 miliardi di persone portate al di sopra della soglia della povertà estrema, 1,3 miliardi provenivano dall'Asia del sud e dell’est, il che significa una cosa semplice: mentre in queste zone la povertà estrema calava, nel resto del pianeta essa aumentava. Se si guarda in particolare ai paesi ad alto reddito, i poveri assoluti sono quasi raddoppiati, passando dai circa 4 milioni del 1990 ai 7,5 milioni del 2017.
Questa eterogeneità negli andamenti della povertà tra regioni segnala inequivocabilmente che la globalizzazione ha rappresentato un fenomeno di sottofondo. Decisivo è stato il ruolo ricoperto dalle strategie di crescita specifiche dei singoli paesi.
Se si guarda ad esempio ai paesi asiatici, è possibile constatare come questi abbiano spesso optato per politiche agli antipodi di quelle prescritte dal consenso economico neoliberale, come sottolineano gli economisti Ha-Joon Chang e Dani Rodrik. In Cina, spiccato è stato il ruolo della pianificazione pubblica, affiancata da un’apertura internazionale dei mercati che è stata molto graduale e limitata a specifici settori dell’economia. Prima di essa, il miracolo asiatico è stato accompagnato da misure analoghe e proprio quando il governo ha cessato il controllo sui movimenti di capitale, è degenerato nella crisi finanziaria di fine anni ‘90, come argomentato da Joseph Stiglitz.
Inoltre, è da sottolineare come quanto avvenuto è dovuto a motivazioni non meramente legate all’assetto economico, ma alla diffusione di strumenti e tecnologie figlie della modernità (sistemi di diffusione idrica, cure sanitarie e igiene di base, beni alimentari di prima necessità). Lascia poi riflettere come il modello capitalistico occidentale tenda a caldeggiare la privatizzazione di questi beni, limitandone l’accesso (caso più recente è quello dei vaccini, ma già prima di essi, eclatante è quanto avvenuto con le risorse naturali).
A riprova che il modello di globalizzazione "all'occidentale" non vada esattamente di pari passo con il benessere della larga parte della popolazione, come abbiamo visto nei paesi avanzati la povertà assoluta è peggiorata di pari passo con la disuguaglianza. Poiché, visto il loro punto di partenza nella curva di sviluppo, le esternalità portate dai miglioramenti tecnologici sono state più marginali, è evidente quanto abbiano qui pesato politiche oligarchiche tese a favorire l’accumulazione dei capitali e la sistematica esclusione dai beni di cui sopra di larghe fasce della popolazione: esattamente ciò che gli amici restauratori di Istituto Liberale auspicano.
Per concludere
C’è un grosso problema di natura epistemologica alla base delle riflessioni in campo economico. L’economia non è una scienza sperimentale e non si può testare in laboratorio. La matematizzazione dell’economia - le cui radici erano un tempo piantate nella matrice politica della disciplina - l’ha resa materia per certi versi affascinante e misteriosa. Di fronte ad un’equazione econometrica pochi possono dirsi dotati degli strumenti analitici per metterla in discussione.
La realtà è però che l’economia si occupa dello studio di un sistema complesso che chiamiamo realtà e che difficilmente può essere riassunto da un sistema di equazioni senza semplificazioni che ne minano alle fondamenta il grado di applicabilità.
Grazie alle numerose zone grigie di questo mondo, vari studiosi e divulgatori tendono così a mascherarsi dietro una presunta neutralità, strumentalizzando i risultati e adoperandosi per adattarli al loro pensiero più che utilizzarli come strumento conoscitivo.
Abbiamo fatto del nostro meglio per smontare le tesi di Istituto Liberale cercando di restituire la complessità del dibattito sui temi affrontati. Diranno i lettori se abbiamo fatto un buon lavoro. Sulla pericolosità di una narrativa fintamente scientifica non abbiamo niente di più da dire. Sulla sua pericolosità, però, ci sarebbe molto su cui riflettere. Anche per questo esiste Kritica Economica.
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