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Cortocircuito universitario: alle radici del mercato del sapere

Progresso e regresso sono tensioni coesistenti nei grandi processi storici. È buona regola non dare mai per ovvio l’esito di un fenomeno, per quanto la sua direzione possa sembrare evidente. Una tendenza che appare stabile nel tempo, come l’allargamento del bacino di utenti che possono accedere all’istruzione superiore, può subire il contraccolpo di una reazione innescata da forze contrarie, come un aumento esorbitante delle domande di accesso ai corsi universitari o la revisione della spesa pubblica destinata all’intero comparto dell’università.

Accade così che l’avanzata di principi ideali, da cui scaturiscono nuove generazioni di diritti - tra cui vanno annoverati i diritti politici e sociali, dati troppo spesso per garantiti, ma ancora oggi esposti ad attacchi - venga a scontrarsi con i calcoli della convenienza economica. Ecco che dell’originaria spinta dell’Illuminismo, che si prefiggeva di liberare ogni essere umano dallo stato di minorità, non resta altro che un’analisi della misura in cui un aumento del capitale umano incide sulla produttività del lavoratore. 

A un occhio attento non sfuggirà il fatto che il tema dell’istruzione superiore non rientri esclusivamente nel campo della politica economica, ma nell’ambito ben più ampio della strategia politico-culturale di una nazione. Nelle dinamiche delle relazioni internazionali del terzo millennio, la capacità di influenzare gli altri sul piano degli stili di vita e dei modi di pensare e agire giunge a superare l’incessante competizione sugli arsenali militari. Nei nuovi conflitti che si consumano a colpi di soft power, oltre agli accordi commerciali e ai più ambiziosi piani infrastrutturali – la Belt and Road Initiative è un caso emblematico -, sono gli atenei universitari a rivestire un ruolo decisivo, in quanto campi di addestramento di eserciti non armati di giovani talentuosi e meritevoli.

Non importa tanto di quale nazionalità, da quale parte del globo provengano, quanto il fatto che gli studenti, per la cui istruzione superiore le amministrazioni universitarie avranno mobilitato ingenti risorse, si riveleranno in grado di farsi latori di una certa impostazione di pensiero, di soddisfare la domanda di manodopera altamente qualificata sul mercato del lavoro e, auspicabilmente, di portare lustro agli atenei. 

A tal fine, gli Stati Uniti e i cugini d’oltreoceano hanno battuto i potenziali rivali sul tempo, traendo vantaggio dalla diffusione pressoché globale della lingua inglese. Come ha ribadito di recente il rapporto intitolato “A Test of Leadership: Charting the Future of US Higher Education”, redatto nel 2006 da una commissione nominata da Margaret Spellings, allora segretaria al Dipartimento americano per l’educazione,

gli Stati Uniti devono assicurarsi che le università americane siano capaci di primeggiare [achieve global leadership] nei settori strategici come le scienze, l’ingegneria, la medicina e altre professioni altamente qualificate.

A conferma degli sforzi economici compiuti per raggiungere il primato nei predetti settori, in un’analisi pubblicata dal National Science Foundation e incentrata sulla provenienza delle 2,5 milioni di pubblicazioni scientifiche prodotte a livello globale nel 2018, si può osservare come gli Stati Uniti abbiano occupato la prima posizione per circa un decennio dal 2007, venendo poi superati dalla Cina. È bene segnalare che il tasso di crescita della produzione di ricerca scientifica in Cina (8,43%) risulta il doppio della media globale.

In realtà, il primato statunitense esce indenne dal confronto con Pechino poiché, in termini di impatto scientifico globale, le pubblicazioni americane vantano il numero più elevato di citazioni. In aggiunta, occorre precisare che, mentre le pubblicazioni americane ed europee vertono prevalentemente sui settori dell’astronomia, dell’astrofisica, delle scienze biologiche e biomediche, delle geoscienze, della scienza della salute, della psicologia e delle scienze sociali, gli articoli pubblicati in Cina si focalizzano sulle scienze agrarie, sulla chimica, sull’informatica e sull’ingegneria.

Nel rapporto della commissione Spellings non manca un’esortazione rivolta al governo federale, perché continui a stanziare risorse per l’istruzione superiore e sostenga la competitività statunitense a livello globale, senza trascurare l’impegno costante nell’attrarre le migliori menti provenienti dagli Stati americani e non.

D’altronde, nell’ottica delle mire egemoniche covate da potenze del calibro di Stati Uniti, Cina e Unione Europea, ai giovani riconosciuti come meritevoli dev’essere garantito ogni strumento utile al loro successo accademico e professionale: immersi inevitabilmente nelle logiche della competizione globale, gli studenti universitari si ritrovano irreggimentati in vere e proprie industrie dell’eccellenza. Di questo modello produttivistico gli atenei anglosassoni, da una sponda all’altra dell’Atlantico, sono convinti promotori, tanto da sacrificare la vecchia università libera e gratuita per una nuova, sfavillante e, pur tuttavia, economicamente accessibile a pochi.

Allineandosi alle conclusioni tirate dal rapporto Dearing del 1997, la segretaria britannica all’istruzione superiore Margaret Hodge espresse in maniera concisa l’indirizzo politico adottato per la prima volta dal governo laburista di Tony Blair: “[There is] no such things as a free lunch.” Dal momento che gli studenti neolaureati beneficiavano della crescente qualità dell’offerta formativa degli atenei universitari, con prospettive di impiego invidiabili ed elevate fasce salariali, avrebbero dovuto contribuire in misura maggiore alla spesa totale destinata al comparto universitario. 

Che l’impronta culturale determinante nell’impostare un simile cambio di rotta sia attribuibile alla carica della cavalleria neoliberista degli anni ’80 è fatto acclarato. L’avversione maturata dall’opinione pubblica nei confronti delle tasse ha condotto la classe politica inglese a privilegiare altri orientamenti di politica fiscale. Tuttavia, per quanto l’Ocse abbia ribadito l’altissimo valore economico degli investimenti statali nell’istruzione superiore – ogni sterlina investita genererà tre volte tanto in termini di reddito nazionale - a seguito dell’introduzione di tasse universitarie dalle 1000 sterline all’anno in su attraverso il Teaching and Higher Education Act, gli studenti britannici arrivano a indebitarsi per cifre pari a 40mila sterline al termine del ciclo di studi.

All’incremento delle tasse universitarie si aggiunge, infatti, la questione del debito universitario. A fronte delle spese esorbitanti che i giovani si trovano a sostenere si è affermata la tendenza a finanziare i propri studi superiori a debito. Ciò significa che le nuove generazioni di studenti rischiano di doversi sobbarcare a un fardello sproporzionato prima ancora di aver avuto accesso al mercato del lavoro.

Ciononostante, questo preoccupante fenomeno si è diffuso dapprima negli Stati Uniti, dove, dal 1987 al 2018, il costo onnicomprensivo di un corso universitario è cresciuto del 103% e, alla fine del quarto trimestre del 2018, il debito universitario totale ha raggiunto la cifra di 1500 miliardi di dollari. Inoltre, a causa delle ripercussioni sul mercato lavorativo della crisi economica del 2008, sempre più neolaureati vengono etichettati come debitori insolventi, o perché il prestito viene rimborsato con oltre novanta giorni di ritardo sulla scadenza o perché non rimborsato a tutti gli effetti.

Nel frattempo, a marzo 2018 i prestiti universitari hanno varcato la soglia dei 105 miliardi di sterline nel Regno Unito e il finanziamento a debito degli studi ha guadagnato terreno più di recente in Francia, mentre neppure l’Italia è riuscita a sfuggire a simili pratiche – nel 2018, 889mila famiglie hanno chiesto un prestito per sostenere economicamente i figli iscritti all’università o alle scuole di alta specializzazione, per un importo medio di 7970 euro - a conferma del fatto che l’allarmante tendenza inizia a spandersi anche nel “vecchio continente”. Con un conseguente acuirsi delle disuguaglianze, dato che le donne risultano più penalizzate degli uomini in termini di capacità di estinguere i debiti contratti per gli studi.

Difficile credere che un aumento delle borse di studio potrà esser sufficiente a porre rimedio a un problema tanto complesso. Non resta che chiedersi se sia lecito permettere che i più giovani, linfa vitale delle nazioni, si consegnino nelle mani di un laissez-faire generalizzato che piega il diritto di accedere ai gradi più alti degli studi alle logiche del mercato. Mala tempora currunt.

Data
11 Giugno 2020
Articolo di
Francesco Giuseppe Laureti

Francesco Giuseppe Laureti

TAG
neoliberismo, università

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Francesco Giuseppe Laureti

Francesco Giuseppe Laureti

Nato umanista e appassionato di storia antica e moderna, dopo essermi diplomato al Liceo Classico “G. D’Annunzio” di Pescara, mi sono iscritto al corso di Scienze Internazionali e Diplomatiche presso…

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