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Capitalismo alla Messi

Il calciomercato è sempre stato in grado di mobilitare interessi e investimenti milionari. Ma diventa molto più del connubio tra calcio ed economia quando a decidere di muoversi è Lionel Messi, che dopo oltre quindici anni, trentaquattro trofei, 731 partite e 634 gol con la maglia blaugrana, ha deciso unilateralmente di rompere con il Barcellona e di cambiare squadra.

Per la squadra che volesse aggiungere Messi al proprio organico, la trattativa rischia di trasformarsi in un vero e proprio piano di investimenti paragonabile a una strategia di politica industriale. Il calciatore, ritenuto ex aequo assieme a Cristiano Ronaldo con largo distacco dalla concorrenza il migliore della sua epoca e uno dei campioni più grandi di tutti i tempi, vanta uno stipendio annuo di 50 milioni di euro e richiede di mantenere per sé la totalità dei lauti introiti legati alla promozione della sua immagine.

C’è di più: il Barcellona prevede una clausola di rescissione da 700 milioni di euro per il cartellino del giocatore, per quanto sulla base di una clausola contrattuale che lui ritiene esser naturalmente prolungata dal 31 maggio al 31 agosto, Messi sostiene di detenere un’opzione che gli consentirebbe di liberarsi a costo zero dal contratto. Si va verso una lunga battaglia legale: il Barcellona ha grande necessità di monetizzare dalle cessioni di alcuni membri della rosa, di ridurre un monte ingaggi sproporzionato e di colmare i vuoti di bilancio lasciati da operazioni di mercato azzardate nelle ultime sessioni. Ci concediamo una battuta osservando come la fase dell’austerità blaugrana sia coincisa con l’arrivo al Camp Nou di un tecnico olandese (l’ex leggenda del Barça Ronald Koeman).

Il calcio, fenomeno fondamentale per capire gli equilibri sociali ed economici nel mondo globalizzato, dà come sempre una chiave di lettura originale per i fenomeni della contemporaneità, e il caso Messi non fa eccezione. L’approccio formale al suo addio al Barcellona insegna molto della concezione del diritto da parte dei detentori di elevate quantità di capitali; la corsa alla sua acquisizione la dice lunga su chi siano i “veri padroni del calcio” studiati dal giornalista Marco Belinazzo in un omonimo saggio. La corsa al vantaggio competitivo dato sul campo dall’acquisizione di Messi si intreccia con normative che, con particolare attenzione al caso italiano, favoriscono il vorticoso fluire dei capitali legati a redditi di prima fascia.

Di conseguenza, possiamo iniziare questa panoramica sul capitalismo alla Messi con un’osservazione giuridica: fa quantomeno ridere l'idea che Lionel Messi, indiscutibile fuoriclasse del pallone ma anche evasore fiscale reo confesso  chieda l'addio al Barcellona forzando l’interpretazione del diritto spagnolo dopo averlo a lungo eluso con le sue allegre operazioni di trasferimento di capitali all’estero. Il campione di Rosario nel 2013 è stato indagato per aver eluso oltre 4 milioni di euro di introiti pubblicitari ottenuti tra il 2007 e il 2009 sfruttando società offshore legate a Belize e Uruguay; in seguito, nel 2016, Messi e il padre hanno pagato oltre 3 milioni di euro di multe al termine di un processo per frode fiscale per commutare una condanna a 21 mesi di reclusione ricevuta da un tribunale spagnolo. Il diritto quando fa comodo si interpreta a piacimento, quando è scomodo lo si elude.

In secondo luogo, la platea delle concorrenti all’acquisto di Messi vede in prima fila due club, il Manchester City dell’ex tecnico blaugrana Pep Guardiola e il Paris Saint-Germain vicecampione d’Europa, di proprietà di famiglie arabe, e in seconda fila l’Inter vicecampione d’Italia legata all’ambizioso progetto della sua proprietà cinese. I veri padroni del calcio, Belinazzo lo ha intuito in anticipo, sono extra-europei, e gli investimenti nel pallone sono funzionali a penetrazioni ben più complesse ed articolate.

Non a caso gli emiri del Qatar sono sbarcati a Parigi poco prima degli accordi tra Doha e l’allora presidente Nicolas Sarkozy; gli Emirati Arabi Uniti usano da tempo il City come vetrina per promuovere la loro immagine e i loro investimenti nel Regno Unito; l’Inter invece è divenuta cinese sulla scia dell’acquisizione da parte di ChemChina del suo sponsor storico, Pirelli, del crescente inserimento di Pechino nel mercato italiano, dell’aumento dell’attenzione cinese per Milano.

Guardando dalla passerella che da Piazza Gae Aulenti porta verso Piazza della Repubblica, nel pieno del centro direzionale di Porta Nuova, in basso rispetto ai circostanti grattacieli si potrà notare la discreta sede italiana della strategica compagnia cinese del tecnologico, Zte. Poco lontana, in linea d’aria, la sede dell’Inter di recente inaugurazione, più sfarzosa e scintillante. Segnale più tangibile del ruolo assunto dalla Cina nel capoluogo milanese. Per tutte queste realtà, acquisire Messi vorrebbe dire valorizzare non solo le prestazioni delle proprie formazioni ma anche il valore del brand e le prospettive di “capitalismo politico” dei loro proprietari nei Paesi d’investimento. Un grande campione acquistato porta con sé, inevitabilmente, un enorme capitale di soft power per la proprietà che perfeziona l’acquisto.

Infine, una nota italiana. Lo spiraglio che consente all’Inter di sognare il fuoriclasse argentino è dato da un provvedimento del governo Renzi che concedeva ai lavoratori dipendenti che si trasferivano in Italia dopo aver risieduto all’estero per almeno 5 anni di vedere assato soltanto il 70 per cento del reddito. Non erano inclusi tutti i lavoratori, ma solo i dirigenti o quelli altamente specializzati. Come ha spiegato il sito Ultimo Uomo, il “Decreto Crescita” approvato dal governo Conte I ha ridotto ulteriormente l’imponibile, abbassandolo dal 70 al 30 per cento; ha poi ridotto a due anni il tempo che il lavoratore deve aver passato all’estero, e ha eliminato la parte sul lavoro specializzato. Il tutto indipendentemente dal merito creditorio o fiscale pregresso del soggetto.

Non sindachiamo sull'operazione Messi né entriamo nel merito della liceità degli stipendi dei calciatori (o degli alieni del pallone). Ma il raffronto tra Messi, evasore fiscale agevolato ora sul piano delle tasse, e i "comuni mortali", colpiti da aliquote Irpef regolari e pressanti, verrebbe naturale in caso di arrivo del campione in Italia, dato il problematico periodo che viviamo. E sfidiamo ad accusare coloro che proponessero tali accostamenti di "populismo" o attentato alla mitica "meritocrazia". 

La realtà di fondo è che il capitalismo alla Messi è quello della concorrenza tra centri di attrazione dei capitali, il capitalismo dell’1% che non risulterà mai perdente nelle crisi. Il “decreto crescita” è la risposta all’amatriciana delle normative fiscali predatorie portate avanti da Paesi come Irlanda e Olanda sul fronte corporate: un tentativo tardivo di inserirsi nella corsa alla concessione di vantaggi e privilegi ai redditi e ai detentori di capitali più pregiati. Ben consci che una parte di tale massa è destinata inevitabilmente a prendere la strada di società offshore, scatole cinesi ed elusioni di vario tenore. Il calcio non è solo un gioco: insegna molto del mondo contemporaneo, in maniera diretta e tutt’altro che ipocrita. E già in partenza il caso Messi ce lo conferma.

Data
28 Agosto 2020
Articolo di
Andrea Muratore

Andrea Muratore

TAG
capitalismo, messi

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Andrea Muratore

Andrea Muratore

Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha…

Commenti

  1. Maradona fra socialismo e Bank of England 26 Novembre 2020 alle 19.00

    […] se può esistere un “capitalismo alla Messi“, non sarebbe mai potuto esistere un capitalismo alla […]

    Rispondi

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