È probabilmente banale affermare che questo virus cambierà non solo le nostre abitudini sanitarie e sociali, ma le fondamenta del nostro assetto economico. Da chi dice che verremo forzatamente proiettati nell’era dello smart working, a chi dice che assisteremo alla nascita dell’Europa unita, le voci di molti sedicenti profeti si fanno sentire. Com’è giusto che sia: il nostro gusto per il dramma e lo spettacolo diventa insaziabile in momenti di crisi. Non è mio interesse stabilire qui il valore di verità di queste affermazioni. Però mi aggiungo con gusto alla schiera dei profeti perché il dramma e lo spettacolo piacciono anche a me.
La mia profezia è che vivremo in un mondo diverso. Illuminante, direte voi. Aspettate. Vivremo nel mondo… della Modern Monetary Theory (MMT). Già negli Stati Uniti si parla di questo sviluppo nella concezione della relazione tra moneta e debito pubblico ma spiegherò perché questo è il caso anche dell’Italia.
Innanzitutto, un’introduzione: che cos’è la MMT? Per essere brevi, è una teoria che cerca di spiegare come funziona il sistema della finanze pubbliche nelle economie moderne. Essa sostiene che, se un Paese ha pieno controllo sull’emissione della valuta (il che, più o meno, succede negli Stati Uniti), allora “non può diventare insolvente nella sua valuta; può sempre fare tutti i pagamenti quando giungono a scadenza nella sua valuta” (Wray, 2015). Nei fatti quindi il debito pubblico in rapporto al PIL diventerebbe solo un numero, di scarsa rilevanza. Probabilmente vi sarà venuto in mente un Paese asiatico che inizia con “G” e sì, in quel caso si potrebbe parlare di un’applicazione empirica di questa teoria.
Qui sorge però il garbuglio, che andiamo subito ad azzeccare: l’assetto monetario europeo, perlomeno nella sua formulazione originaria, è l’anti-MMT. I vincoli di mandato della Bce e l’assenza di un’autorità fiscale comune fanno sì che i membri dell’eurozona siano di fatto considerabili come agenti economici privati, che necessitano di incassare prima di spendere, o di indebitarsi a tasso di mercato qualora le entrate non coprano le uscite. Non giudicherò se questo sistema sia buono o cattivo; ci basti per ora tenere a mente che è una scelta possibile tra le tante.
Una prima picconata a questa peculiare conformazione istituzionale (innovativa nell’ambito delle economie avanzate post Bretton Woods) venne con la crisi dei debiti sovrani nel 2011-12. A fronte di tassi di mercato schizzati alle stelle per i Paesi periferici dell’area Euro, la Bce (con qualche malumore teutonico) decise di abbandonare l’equiparazione tra Stati e debitori privati, elevando i primi al rango di too big to fail. Un default italiano o spagnolo, con conseguente esplosione dell’area euro, era considerata dalle autorità monetarie un’eventualità troppo catastrofica, che fu scongiurata dal soffio divino del banchere centrale: il whatever it takes salvò l’eurozona, il mondo e l’umanità stessa. O perlomeno l’eurozona.
Per quanto fosse possibile argomentare in senso opposto, cioè che gli Stati del sud Europa andassero lasciati fallire in virtù (o in vizio) della loro passata irresponsabilità fiscale, si scelse di sacrificare la disciplina di mercato per evitare una catena di insolvenze pubbliche e private potenzialmente, diciamo, spiacevoli. Ripeto, non voglio giudicare questa scelta. Politicamente parlando, sarebbero state legittime entrambe le opzioni. Ma la seconda sarebbe stata, sempre politicamente parlando, difficilmente sostenibile di fronte all’opinione pubblica.
Passando dai contagi finanziari ai contagi veri e propri, nell’Anno Domini 2020 (o forse nel 2021) la situazione potrebbe essere simile a quella del 2012: le maggiori spese pubbliche per fronteggiare il virus, unite alle minori entrate per via del blocco dell’attività economica, faranno esplodere i debiti pubblici in Europa. Di quanto nessuno lo sa, visto che bisogna ancora inquadrare bene l’emergenza; si può supporre però che il debito italiano salga almeno fino al 160% del PIL.
Per ora non è un problema, perché la Bce ha garantito liquidità quasi illimitata; il soffio divino del whatever it takes ancora aleggia. Ma questo soffio potrebbe essere spento? Potrebbe la Bce decidere di rispolverare il principio della disciplina di mercato, nel futuro prossimo? La risposta è… no. Non lo potrebbe mai fare. Questa volta, non sarebbe politicamente né giustificabile (la colpa del coronavirus non è di nessuno; sicuramente di nessun Paese europeo) né accettabile dall’opinione pubblica: se la Bce dovesse indurre una nuova crisi dei debiti sovrani probabilmente Bagnai straccerebbe Cottarelli nella classifica degli economisti più amati dagli italiani. E così pure in altri Paesi ad alto debito pubblico (ammettendo che esistano i corrispettivi spagnoli di Bagnai e Cottarelli).
Quindi, la Bce non potrà fare altro che continuare a garantire i debiti pubblici nazionali. Anche molto dopo che la crisi sarà finita: ogniqualvolta proverà a smettere, basterà che qualcuno dica “questi debiti sono frutto della pandemia, non puoi sottoporli alla disciplina di mercato” per farla tornare sui suoi passi.
Si dirà: ma non tutto il debito pubblico è frutto della pandemia. La maggior parte, anzi, deriva da irresponsabilità fiscale (la storia è un po’ più controversa, ma ancora una volta, non voglio dare giudizi). Ok, possiamo accettare quest’interpretazione. Ma come si fa a distinguere? Il debito è un aggregato, non può andarne in crisi, sotto forma di difficoltà di fare rollover, solo una parte. Quindi la dottrina della disciplina di mercato è del tutto inapplicabile, da qui a chissà quanti anni a venire. Paradossalmente, sarebbe risultata applicabile se ad indebitarsi fosse stata l’Europa, attraverso i coronabonds, invece che i singoli Stati! I debiti “non peccaminosi” sarebbero stati contratti tutti dall’organismo europeo scelto per lo scopo, mentre agli Stati sarebbero rimasti i debiti “peccaminosi” per cui essere sottoposti al giudizio, giusto o sbagliato che sia, dei mercati finanziari.
Quindi stiamo per entrare in un’era, perlomeno in Europa, dove la nozione di “sostenibilità del debito pubblico”, su cui ci siamo scervellati per anni, sta per perdere ogni significato. Questo apre spazi di policy insperati: potremmo rifinanziare la nostra sanità, o il nostro sistema scolastico, senza preoccuparci di aumenti dello spread (e probabilmente neanche del Patto di Stabilità, che dubito tornerà presto in azione). Perlomeno fino all’aumento dell’inflazione, che però in una condizione di disoccupazione e bassa crescita cronica non pare il primo dei problemi.
L’alternativa, qualora la Germania e gli altri Paesi del Nord decidessero di porre un veto al supporto monetario, oltre che a quello fiscale, è molto probabilmente una dissoluzione, formale o sostanziale, dell’eurozona. È facile immaginare come i governi nazionali potrebbero mettere in piedi sistemi di moneta parallela (i minibot, per intenderci). Ma a quel punto, recuperata la sovranità monetaria, la sfrutterebbero a fondo, ed è poco plausibile che decidano a breve di porsi limiti e vincoli sulla falsariga di quelli europei.
Insomma, una volta uscito dalla lampada, il genio non ci rientra più. Resta da capire come sfruttare al meglio i tre desideri.