Negli anni ‘70 la situazione a Londra era semplicemente disastrosa. Nonostante la stagflazione affliggesse tutto il mondo, la capitale del fu Impero Britannico versava in una situazione che poco si conciliava con il suo status. D’altronde proprio il Regno Unito nell’estate del ‘40, in solitaria, aveva frenato l’ascesa di Hitler, ponendosi come il baluardo della democrazia e della libertà; appena poco tempo prima l’Impero Britannico sembrava destinato a durare per sempre. Poi una serie di politiche oltremodo errate portarono il paese sull’orlo del fallimento.
Nel 1976, il governo laburista che stava da tempo cercando di combattere contro un’inflazione attanagliante si vide costretto a chiedere l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale. La nazione che per secoli aveva dominato il mondo si ritrovava in una situazione simile a quella della Grecia negli anni ‘10 del nostro millennio. Da queste macerie emerse Margareth Thatcher: prima donna a guidare i conservatori. Si racconta che una volta, entrando nel centro studio del partito, abbia gettato sul tavolo il libro "La Società Libera" di Von Hayek affermando che “questo è quello in cui crediamo”.
Dall’altra parte dell’oceano, la presidenza Carter, piegata anche dalla crisi degli ostaggi in Iran, venne massacrata dalla rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan. Fu proprio Reagan a pronunciare le parole, pesanti come un macigno, che segnarono la politica economica dei decenni a venire “Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema”. Il mantra era chiaro: più libero mercato, deregulation, meno Stato e più finanza. Nonostante il neoliberismo più puro, nella sua forma puramente economica, non abbia mai attecchito nel continente, anche la politica economica di paesi come Germania e Italia cambiò drasticamente. L’IRI, una tra le più grandi aziende del mondo, venne presto smantellata. Si affacciarono sul mercato le televisioni private di imprenditori come Silvio Berlusconi che da lì a poco avrebbe travolto come uno tsunami la politica italiana, già in stato comatoso per via di Tangentopoli.
La sfiducia nei confronti dello Stato emerse con ancora più impeto durante la crisi finanziaria del decennio appena trascorso, quando le potenze europee vennero trascinate in un vortice di austerità, a seguito degli studi di Giavazzi e Alesina sulla buona austerità. Il deficit divenne l’incubo delle cancellerie di tutta europa. I bilanci disastrosi di paesi come Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo dovevano essere riparati. Solo ora, alla luce di una crisi che sembrerà durare per l’intero decennio, il ruolo dello Stato comincia a essere ripreso in considerazione non solo nella sua formulazione debole, come regolatore del mercato (in caso di Market Failure) o costruttore di infrastrutture necessarie, ma come ente economico più centrale, come suggeriscono gli articoli di Stiglitz e di Mazzucato.
Questa riscoperta dello Stato ha sicuramente dei lati positivi. Bisogna infatti sbarazzarci di una visione che troppo spesso si è vista come dominata: l’idea di Stato contro il mercato. Un confronto manicheo, dialettico, che non corrisponde pienamente alla realtà. Come fa notare infatti Hobsbawm nel suo "Il secolo breve", durante l’epoca d’egemonia del liberismo più sfrenato, cioè quella dell’800 e dell’inizio del novecento, quando spesso mancava addirittura la legislazione circa le condizioni dei lavoratori, tanto che nonostante i sindacati esistessero la loro forza era estremamente limitata, il rapporto tra Stato e privato fu estremamente stretto. Mai prima si era vista un’intromissione dello Stato tale, ad esempio, nella costruzione delle infrastrutture necessaria per fronteggiare la rivoluzione industriale in corso.
Non è un caso che questa compenetrazione sia avvenuta proprio durante la rivoluzione industriale, un’epoca di grandi scoperte tecnologiche. Studiosi di economia dell’innovazione come ad esempio Giovanni Dosi, infatti, hanno ormai abbandonato altresì la teoria neoclassica tradizionale, approcciandosi a modelli evolutivi. Questi modelli, tra l’altro, cercano di studiare in che modo istituzioni e Stati influenzino l’innovazione, abbandonando una teoria della domanda che ha mostrato tutti i suoi limiti.
Ciò è abbastanza evidente a uno studio più approfondito. Se prendiamo gli Stati Uniti d’America, uno tra i paesi più attenti alle libertà economiche, un ruolo importante, che sostenta e ha sostentato anche colossi del digitale come Apple, è svolto dall’agenzia pubblica Darpa, dedita alla ricerca in ambito militare. Lo stesso World Wide Web non è frutto di aziende private quanto di un progetto realizzato al CERN di Ginevra. Che lo Stato abbia un ruolo significativo nell’innovazione è appurato. Questo non deve portare a una visione errata: lo Stato non svolge questo suo ruolo nell’innovazione in solitudine, è proprio grazie all’ecosistema e al rapporto che ha con le aziende private che questo è possibile.
L’idea qui discussa si sta facendo largo anche nel mondo accademico e politico: si parla infatti di Mission Oriented Project. L’esempio classico di Mission Oriented Project è lo Sbarco Sulla Luna. In quel caso, il privato e il pubblico hanno collaborato al fine di raggiungere un goal che richiedeva non soltanto fondi ma anche innovazione dal punto di vista del calcolo, dell’ingegneria e in altri settori. La svolta verso una presenza maggiore dello Stato nell’economia si rende necessaria, infatti, per via di problemi cruciali che fino ad oggi il mercato lasciato a se stesso non è riuscito a risolvere. Se pensiamo al cambiamento climatico o allo sfruttamento dell’Africa, tanto per fare due esempi, il cobalto che serve come metallo pesante nella costruzione delle batterie delle auto elettriche o il fenomeno del land grabbing legato alla coltivazione di mangime per animali da carne, poi consumati dal mondo Occidentale, nulla è stato fatto in questa direzione.
D’altronde, i problemi che ci troviamo ad affrontare non hanno una soluzione certa. Abbiamo alcune linee di azione, ma nessuna bacchetta magica. Affinché si possano concretizzare tecnologie per risolvere questi problemi c’è bisogno di più ricerca, sia di base sia applicata, di una maggior sostentamento da parte dello Stato nei confronti di start up o aziende sulla frontiera tecnologica. Quello che tuttavia viene da chiedersi, alla fine di questa carrellata di esempi su come lo Stato abbia un ruolo decisivo nell’economia, è il seguente: perché allora il modello di sviluppo che ha caratterizzato i Trent’anni Gloriosi si è inceppato? Perché a un certo punto i governi del mondo occidentale hanno svoltato verso una politica mento interventista?
Una risposta esaustiva a questa domanda è, ovviamente, impresa titanica. Si è fatta strada, di tanto in tanto, una di tipo complottista che vede il cambiamento di politiche economiche come il risultato di pressioni da parte di think tank finanziati da grandi industriali e miliardari. Questa tesi, che tuttavia coglie il problema centrale della politica soprattutto economica di questi anni cioè l’egemonia discorsiva, non tiene conto di un dato di fatto: la stagflazione degli anni ‘70. La stagnazione unita all’inflazione non era contemplabile nella teoria keynesiana classica.
Un abbozzo di risposta tuttavia si può dare, pur con il rischio di spiegare solo parzialmente il fenomeno. Per cercare di spiegare il mio punto, vorrei richiamare la teoria delle tre forme di governo, comunemente attribuita ad Aristotele nonostante possa essere riscontrata anche nelle storie di Erodoto. Secondo Aristotele, influenzato dalla cultura greca del tempo, le tre forme di governo - monarchia, aristocrazia, democrazia - andrebbero naturalmente verso una loro degenerazione - la tirannide, l’oligocrazia e l’oclocrazia - un fenomeno chiamato Anaciclosi.
Allo stesso modo, si può trovare una formulazione debole ma altrettanto interessante riguardante la politica economica degli Stati. Se il neoliberismo tende all’accentramento dei capitali e sostanzialmente a un sistema di oligopolio, fagocitando le premesse filosofiche del merito e della concorrenza (su cui esso si basa), allo stesso modo un controllo dell'economia da parte dello Stato - ben diverso rispetto a quello sovietico - ha portato a una forma di corporativismo dalle tinte populiste. Attraverso il controllo dello Stato si sono tenute in piedi aziende cotte e stracotte, si sono distribuite mancette elettorali come le baby pensioni istituite dal governo Rumor e via discorrendo.
Ma, così come i sistemi di libero mercato hanno adottato strumenti di controllo, allo stesso modo devono fare coloro che sostengono la tesi sopra esposta. Non si possono chiudere gli occhi e non constatare che la Pubblica Amministrazione oggi non è affatto efficiente, come ha dimostrato l’emergenza coronavirus. Per rilanciare l’idea di uno Stato nell’economia c’è il bisogno di non sprofondare in una visione tinteggiata di nostalgia e conservatorismo: è necessario portare al centro del dibattito la mancanza, oggi, di skills e di capacità dinamiche da parte dei policy maker e degli amministratori pubblici.
[…] La valorizzazione dello Stato come decisore fondamentale delle priorità economiche è anche un chiaro marchio di fabbrica dello sviluppo cinese, a cui molte nazioni guardano con interesse. Spunto di riflessione per l’Europa, che deve necessariamente ripensare al proprio modello economico alla luce delle nuove opportunità e sfide, non dimenticando la propria vocazione democratica. Da questo punto di vista, i valori di multilateralismo dell’iniziativa lascerebbero spazio ad un ordine mondiale più multipolare, che permetterebbe l’esistenza di nuove vie di sviluppo alternative a quelle affermatesi negli ultimi trent’anni. […]
Ho sbagliato a digitare il numero delle leggi in Francia: volevo scrivere, meno di 10.000, non meno di 1000, naturalmente!
Condivido l’impostazione generale dell’articolo, faccio due sole osservazioni a margine. A me risulta (sulla base delle mie letture, naturalmente) che la stagflazione degli anni 70′ non è tutta attribuibile alle politiche keynesiane. Mi pare sia ormai acclarato nella storiografia Economica che il pensiero Keynesiano è stato spesso tradotto male, mal applicato e forzato dai policymakers che lo hanno messo in atto. Poi, l’inflazione degli anni 70’/80 è stata anche cagionata dai due shock petroliferi degli anni 70′( il primo nel 73,l’altro nel 79) che hanno fatto impennare sia il costo del petrolio, sia,per effetto di trascinamento, i prezzi di tutte le altre commodities (inflazione da costi). Sulla inefficienza della P.A concordo, ma, sicuramente sei troppo preparato per ritenere, populisticamente (Pietro Ichino e Brunetta docet!) che la inefficienza della P.A dipenda unicamente e soprattutto dai dipendenti pubblici fannulloni! Come sempre, le cose sono molto più complesse di come appaiono alla vulgata dominante! Il primo problema, mai risolto, della scarsa efficienza, è l’ipertrofia legislativa (sono Laureato in Legge, qualcosa ne so) abbiamo più di centomila leggi (le leggi censite in Germania sono circa 20.000, in Francia meno di 1000, in Uk ancora meno) e scritte anche malissimo, con i piedi! Le fonti normative sono sparpagliate ed ingarbugliate,i pochi testi unici esistenti sono scritti e concepiti male! La legge è la stella polare della pubblica amministrazione, il pubblico impiegato non puo’ fare altro che applicare la legge: se le norme, ingarbugliate, ripeto, prevedono che per iniziare un’attività occorrono 20 permessi tra nulla osta e autorizzazioni, il funzionario pubblico, che è l’ultimo anello della catena, non può fare altro che applicarle! Occorrerebbe un processo di snellimento e revisione normativa attraverso testi unici abrogativi (con la possibilità non solo di raccogliere le norme sparse in leggi e leggine varie, ma anche di abrogarle integrarle e emendarle!) in tutti i settori:fiscale,ambientale, appalti pubblici, previdenziale, edilizio,trasporti,sanitario,codice civile,penale e procedurale,etc,etc. E’ un processo che richiederebbe anni,ma almeno bisognerebbe iniziarlo! L’altro grande problema è che in Italia abbiamo la P.A più vecchia d’Europa,e forse del mondo:i blocchi delle assunzioni hanno fatto aumentare l’età media, ormai, a 54 anni d’età! Persino Economisti liberisti hanno ammesso che nella P.A occorrerebbe una infornata di assunzioni di giovani Laureati per svecchiare e rivitalizzare la P.A,anche per digitalizzarla. Una delle cause della lentezza delle procedure di appalto è di esecuzione dei lavori pubblici, deriva da fatto che ci sono Comuni che negli uffici tecnici non assumono da 25 anni (blocchi del turn over) e si ritrovano con geometri 60enni, vicini alla pensione, che non sanno maneggiare i complessi programmi informatici (Cad e derivati) per gestire i progetti esecutivi delle opere pubbliche! Poi,naturalmente, ci sono altre concause, ma mi fermo qui, credo di aver dato l’idea.
Guardi, sono d’accordo sul fatto che la stagflazione degli anni ’70 abbia avuto origine dallo shock petrolifero tra le altre cose. Sui ritardi della PA: sono d’accordo con lei e infatti non do la colpa a dei presunti fannulloni. Credo, come dice lei, giochi un ruolo importante la mancanza di nuovi talenti