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Informare il coronavirus: il giornalismo dell'emergenza

Informare il coronavirus: questa è stata la prima necessità dei media durante l’emergenza. Con l’inizio della pandemia l’informazione ha dovuto scavalcare il suo ruolo attuale di trasmissione delle notizie per ritornare al suo significato originario, a un “dare forma” più che mai necessario vista la minaccia di disordine (emotivo ancor prima che conoscitivo) rappresentata da un virus inedito.

La strategia adottata è stata quella di accerchiare il Covid con sempre più dati, in modo da privarlo via via della sua spaventosa “velatezza”. Queste conoscenze sono state prima di tutto di carattere sanitario e hanno richiesto la presenza di esperti come i virologi per poter essere illustrate. Tuttavia, ben presto ci si è resi conto che il coronavirus non riguarda solo la salute, ma è un vero e proprio evento in grado di plasmare il tempo in cui accade.

I giornalisti hanno quindi iniziato a concentrarsi sulle possibili conseguenze economiche e sociali della pandemia. Tuttavia, ad un certo punto la comunicazione (soprattutto televisiva) è scivolata dall’analisi verso l’accumulo di notizie: si è quindi passati a informare sul coronavirus, reso materia di dibattiti più o meno scientifici e sempre più esposto alle opinioni.

C’è comunque un fatto da esaminare che potrebbe rendere comprensibile questo cambiamento. Durante l’epidemia la diffusione delle informazioni scientifiche e prescrittive spetta al bollettino della Protezione civile e alle conferenze stampa di Conte. Oltre al compito immediato di riportare quanto detto in queste occasioni, ai giornalisti resta soprattutto il ruolo del commento, da cercare ancora una volta tra i medici, ma anche tra i politici e la gente comune.

Questa messa in discussione della fonte primaria dell’informazione si pone nel solco di una crisi che negli ultimi anni ha già visto i giornali venire sorpassati dalle notizie online, la cui fruizione critica rischia di risentire dei ritmi accelerati del web, e dai social.

Finora ho cercato di cogliere l’attuale tendenza (problematica) del giornalismo, ma c’è ancora da chiedersi: a quali pericoli va incontro l’informazione post-Covid? I rischi possono essere divisi in due categorie: quelli riguardanti la professione e quelli che colpiscono la qualità della notizia.

Nel primo ambito si potrebbe considerare che l’emergenza fa riflettere sul pericolo di un giornalismo sempre più in balia del libero mercato, in cui si rischia di confondere il pluralismo con il canto a solo dei vari attori politici e imprenditoriali. L’informazione in quanto servizio pubblico potrebbe essere maggiormente protetta e garantita dallo Stato, rendendo fattivo quel riconoscimento di “attività essenziale” ottenuto dal Ggverno.

La polarizzazione politica ed economica danneggia anche l’espressione delle opinioni: capita che l’editoriale diventi un fortino di idee e di affermazioni e che alla buona critica, che demolisce con cura per poi ricostruire in una dialettica costante, si preferisca l’attacco urlato, secondo il canone ormai inconscio dei talk show. Non è un problema di modi, ma di professionalità, dato che la tuttologia e il sentimento politico non dovrebbero intaccare un’informazione veritiera e indipendente. Basta fare l’esempio del dibattito mediatico sul Mes e ricordare quei giornalisti arroccati sul mito del finanziamento senza condizioni per cogliere questa tendenza.

Per quanto riguarda i contenuti, il giornalismo diventa permeabile alla politica nella misura in cui si fa emotivo. Fin dal momento in cui si è parlato di non mettere i numeri della pandemia “in prima pagina” per il loro potenziale impatto psicologico si è aperta una crepa nella comunicazione.

Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, rispondendo a questa idea ha ribadito che “informare è necessario” e “altrettanto necessario è farlo con oggettività”, perché scampando all’emotività si rischia proprio di cadere nello stesso errore.

Un giornale che mette da parte i dati rischia di diventare cassa di risonanza per la “retorica della confusione” delle destre, che sfrutta le incertezze dell’opinione pubblica. E forse anche questa consapevolezza ha portato il New York Times a mettere in prima pagina, il 24 maggio, i nomi di 100.000 vittime del coronavirus.

C’è infine un problema di lessico che può incidere direttamente sul modo in cui pensiamo la crisi: comparare l’attuale situazione alla guerra vuol dire introdurre degli schemi impliciti di disciplina in contrasto con la minaccia di disordine portata dall’epidemia.

Può sembrare eccessivo, ma introdurre nella comunicazione quotidiana parole come “assedio”, “armi” o “nemico” non solo elegge il Covid a capro espiatorio assoluto, ma aumenta anche la sensibilità dei cittadini a un certo tipo di discorsi politici intessuti di violenza. Inoltre, il lessico bellico carica di sensazionalismo la notizia, rendendola sicuramente più appetibile ma danneggiando gravemente la sua veridicità.

Epidemia, infodemia. L’eccesso non ha riguardato solo le parole della comunicazione, ma anche le immagini divulgate dai media, seguendo quello che può sembrare un desiderio di dire (non necessariamente di sapere) sempre di più, di vedere di più. Si delinea quindi uno scenario di surmodernità, termine dell’antropologo francese Marc Augè: il tempo in cui accadono i fatti, che sembra essere stato frenato dal lockdown, è in realtà spazzato da una continua narrazione sovrabbondante, a volte ripetitiva, in cui tutto viene rivisto alla luce del Covid.

L’emergenza sanitaria può essere un’occasione di riflessione per il giornalismo, che dovrebbe appunto abbandonare la tendenza (a cui ci hanno abituato i social) di dare notizie sulle notizie, per ritornare a un’informazione che di nuovo si occupi di “dar forma” al fatto, di studiarlo e approfondirlo e che impari l’arte di essere essenziale senza omettere nulla.

Fonti:

  • V. R., Coronavirus, informazione: tutti gli errori e tutti i cambiamenti da fare, www.professionereporter.eu, 31/03/2020
  • M. Cianca, Il giornalismo al tempo del coronavirus, www.ildiariodellavoro.it, 03/03/2020
  • R. Gobbo, “Assedi”, “trincee”, “task force”… Il linguaggio militare del Covid segno di impoverimento del lessico, www.articolo21.org, 21/05/2020
  • Le parole del coronavirus: infodemia, www.treccani.it
  • M. Augè, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 2009
Data
27 Giugno 2020
Articolo di
Sara Nocent

Sara Nocent

TAG
Coronavirus, giornalismo

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Sara Nocent

Sara Nocent

Studio Lettere moderne. Mi interesso di sociologia e filosofia e sono alla ricerca di un linguaggio più vicino alle cose.

Commenti

  1. Etica, linguaggio e politica. Intervista a Erri De Luca 17 Novembre 2020 alle 09.17

    […] vuoto del “non si capisce” dilaga anche in certi giornali che lo trattano con un linguaggio emotivo buono anche per far “tuonare” i titoli (sono due esempi “Conte è un bluff” […]

    Rispondi

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