Sta facendo discutere in questi giorni la richiesta da parte di Fiat, o meglio FCA, di un prestito con garanzia pubblica per un totale di 6,5 miliardi di euro. Sia il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri hanno subito preso le difese con la solita e stantia retorica del “proteggono la nostra occupazione”.
Gualtieri, in un post su Facebook – si noti la qualità delle comunicazioni relative ad un tema assai importante – ha tenuto a chiarire che con FCA ci sono state delle consultazioni informali nelle quali si sono aggiunti criteri e condizioni aggiuntive rispetto a quelle già previste dal Decreto Liquidità. Nello specifico il ministro riferisce che si chiede: la conferma e il potenziamento del piano di investimenti anche nelle nuove condizioni determinate dal coronavirus, l'impegno a non delocalizzare la produzione, la conferma dei livelli occupazionali, la puntuale rendicontazione degli investimenti concordati.
È singolare come con una multinazionale il governo si limiti ad accordi informali in cui si negoziano le condizioni di garanzia, senza una reale discussione formale e soprattutto aperta alle principali parti sociali coinvolte.
Questo, del resto, dimostra il totale sbilanciamento dei poteri in gioco, con un governo sempre più succube del potere delle multinazionali, nella speranza che queste ultime possano fare qualche investimento in Italia assorbendo un po’ della nostra disoccupazione. Come sempre, non importano le condizioni di investimento, di occupazione e di salari.
Sbilanciamento che è favorito ovviamente dalla concorrenza fiscale che, per attrarre i capitali in libera circolazione, tende ad abbattere la tassazione su fattori pienamente mobili per spostarla su fattori meno mobili, quali il lavoro.
Entrando nel merito della questione, FCA chiede un prestito garantito di 6,5 miliardi. Questo praticamente equivale all’utile netto del gruppo registrato al 31/12/2019. Interessante è inoltre il prospetto sulla liquidità reso disponibile da parte del gruppo: 15,5 miliardi di liquidità e 7,5 di linee di credito “committed”. Se la “necessità” di FCA è staccare un dividendo di 5,5 miliardi per la fusione con PSA, questo sarebbe largamente coperto dalla disponibilità liquida già in cassa. Sorge quantomeno spontaneo il dubbio che FCA stia tentando di preservare intatta la liquidità in vista degli effetti negativi del Covid-19 coprendo lo stacco del dividendo con un prestito pubblico garantito.
Non è possibile quantificare “quante imposte paga FCA in Italia” senza i rapporti country-by-country. È tuttavia presente l’ammontare totale di imposte pagate dal gruppo nell’anno, pari a 1,321 miliardi (profitti lordi pari a 4,021 miliardi, un tasso d’imposta pari a circa il 33%), di cui 6 milioni di IRAP.
Inoltre, nel rapporto annuale si fa riferimento anche al contenzioso tra le autorità fiscali italiane e FCA nato nel 2017 e concluso proprio a dicembre 2019 in merito alla fusione del 2014. Infatti, per il fisco italiano l’allora FIAT avrebbe sottostimato gli asset di Chrysler per una somma di 5 miliardi, che avrebbero dovuto generare 1,3 miliardi di entrate fiscali. Nel rapporto annuale 2019 FCA riporta le condizioni dell’accordo raggiunto con il fisco: rivalutazione degli asset ad una cifra pari a 2,1 miliardi (2,5 a cui vengono sottratti 400 milioni di riporti delle perdite - loss-carryforward) su cui vengono effettivamente pagati 504 milioni per il 2019. Ecco, insomma, un altro elemento che dimostra la debolezza di un paese di fronte ad una multinazionale.
“Ma difende la nostra occupazione” è la principale risposta da parte di chi sostiene la necessità di garantire un prestito pubblico di una tale portata. Certo, FCA impiega 66mila dipendenti direttamente in Italia, ma torniamo nuovamente al punto per cui per i teorici dell’occupazione moderna qualsiasi forma che preveda l’assorbimento di forza lavoro – e che venga quindi statisticamente rilevato come occupato – è ben accetta. È la giustificazione teorica per cui abbiamo liberalizzato il mercato del lavoro con l’obiettivo di massimizzare il numero di occupati, non importa a quali salari e quali condizioni. Paradossalmente anche uno schiavo dell’era romana verrebbe considerato una buona misura per garantire la massimizzazione dell’occupazione e miglioramenti materiali.
Se per la teoria economica il salario corrisponde alla produttività marginale, come ci spieghiamo una retribuzione totale dell’intera dirigenza di 23 milioni di euro? Il rapporto tra retribuzione del CEO in relazione alla retribuzione media di tutti i dipendenti è di 232. Questo significa che rispetto al salario base dell’operaio il rapporto è decisamente più alto. Inoltre, la componente variabile della retribuzione di CEO e CFO è decisamente maggioritaria e, senza sorpresa, negli incentivi di breve periodo rientrano l’EBIT (earnings before interests and taxes), il profitto netto ed il flusso di cassa disponibile. Questo dimostra il naturale short-termism che caratterizza il capitalismo e che comporta notevoli guadagni – decisamente slegati dalla produttività come anche dimostrato da Piketty nel suo "Capitale nel XXI secolo" – per i CEO e come questi siano una delle principali fonti di aumento delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi.
Inoltre, sempre nel rapporto annuale, viene menzionato il nuovo accordo con le parti sindacali firmato nel marzo 2019 per il periodo 2019-2022 con l’aumento delle retribuzioni nel contratto collettivo nazionale speciale pari al 2%. Nel mentre, le compensazioni di CEO e top-management passano da 18,830 milioni nel 2018 a 23,050 nel 2019, un aumento del 22%.
In questo senso, la richiesta di 6,5 miliardi di prestito garantito sembra più la richiesta di un capitalismo accattone e straccione, piuttosto che di un’impresa in reale stato di difficoltà e con scarsa liquidità a seguito del blocco della catena del valore.
[…] Il capitalismo italiano, che si è affermato dal dopoguerra in poi, si è innestato su una società fortemente legata alla famiglia. Non è infatti un caso che l’Italia abbia legalizzato il divorzio solo in tempi recenti rispetto a paesi come la Francia. […]