Oggi tutti sono pazzi per Draghi: il tecnico per eccellenza, l’uomo dal curriculum che tutti vorremmo avere, pronto a mettersi al servizio del Paese per salvarlo dalla catastrofe economica. Questa almeno è l’immagine che ci presentano le maggiori testate nazionali che lo sostengono, ma poniamoci una prima domanda: quando Draghi parla di “salvare il Paese”, intende salvare tutti gli italiani indiscriminatamente? O intende invece “tutti i lavoratori”, o magari “tutte le imprese”? Nessuna delle tre, e a dircelo è lui stesso nel suo discorso al Senato:
“Uscire dalla pandemia non sarà come accendere la luce [...] sarebbe un errore proteggere tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi”.
Parafrasiamo: il carrozzone economico del Sud inefficiente e non competitivo dovrà cambiare, fare sacrifici, piegarsi alle leggi spietate del mercato, oppure fallire. Al contrario, il settore produttivo del settentrione, ben rappresentato dai 18 ministri del Nord di questo esecutivo, sarà sostenuto e incentivato.
Nonostante la chiara collocazione di classe del nostro nuovo premier, la stampa beatifica l’ascesa del governo tecnico, ma va ricordato che i nostri politici - a differenza dei tecnici - vengono eletti per rappresentarci e dunque godono di legittimazione democratica. Questa considerazione è del tutto irrilevante per un bel pezzo del nostro establishment economico e mediatico che elogia con troppa disinvoltura il deus ex machina Draghi.
Si è infatti diffusa l’idea, dannosa e fuorviante, secondo cui un “tecnico” dell’economia sia una sorta di oracolo che all’occasione dispensi verità per affrontare i problemi del Paese. E in Italia questa narrazione viene costruita ad arte, per far sembrare che alle grandi sfide del nostro tempo esista una risposta giusta e una risposta sbagliata, per tutti indiscriminatamente.
Ma è grazie alle narrazioni retoriche che la tecnica ha fatto da mantello pregiato dietro cui sono state nascoste, nel nostro paese, le misure di cosiddetta macelleria sociale (come la Legge Fornero, i tagli ai servizi di cui specialmente oggi soffriamo, le privatizzazioni) guidate anche dal governo Monti (il tecnico per eccellenza) e che, per lungo tempo, sono state avallate dall’austerity europea.
Queste politiche che hanno trasformato l’Italia in una nazione deindustrializzata, con un settore pubblico a pezzi e con una precarietà e una disoccupazione che fanno quasi invidia all’Arabia Saudita, sono state fatte passare come le uniche misure possibili in momenti di crisi. Come se la politica non sia sempre questione di scelte tra punti di vista diversi fra loro.
Per rendere più chiara l’identità di Draghi forse è bene tenere a mente che la Goldman Sachs, prima del suo arrivo, lo aveva definito il “prestatore di ultima istanza”. Il che significa che se non fosse stato nominato premier, l’Italia avrebbe subito una fuga di capitali e di investitori istituzionali verso l’estero. Se poi pensiamo al grande supporto di cui Draghi gode da parte del capitale finanziario e industriale del Nord ed alla composizione del governo, è facile intuire a chi l’esecutivo rivolgerà le sue più solerti attenzioni.
Di fronte a queste influenze, è necessario chiarire che la contrapposizione tecnico-politico è veramente labile. Come ci spiega Luciano Gallino nelle prime pagine del suo Finanzcapitalismo, sono ormai decenni che politici di professione accedono al mondo finanziario, bancario e industriale; mentre viceversa figure di spicco dell’economia e del capitale entrano nel mondo della politica. Draghi non è certo il primo di questa lunga serie.
A una prima analisi, la differenza tra il tecnico e il politico potrebbe essere notata solo al livello della narrazione: riguarderebbe quindi un “non-detto” (un evitare di accedere alle discussioni politiche tra partiti) e un “ipse dixit” (la competenza tecnica) degli esperti al governo cui non si può replicare.
Questa modalità di porsi nei confronti del sapere esclude gli spazi di confronto: è ciò che di più dogmatico ci possa essere, annuncia, asserisce. E l’idea che un governo tecnico sia il pharmakon (etimologicamente, cura e veleno) che bisogna bere in casi di emergenza e crisi (anche e soprattutto politica) non può essere giusta, perché è proprio in questi momenti che bisognerebbe fondarsi su un dialogo con i cittadini. Una volta assunto il suddetto pharmakon, i partiti vanno in letargo: manca una proposta chiara da parte di ciascuno schieramento che, oltre a differenziare inequivocabilmente le linee politiche, sappia rispondere concretamente ai bisogni della comunità. In questo contesto la “cura” del governo tecnico diventa per i partiti e le nostre democrazie un veleno.
Se la “gabbia d’acciaio della razionalità”, per citare il politologo Castellani, è la principale caratteristica mentale del tecnico da cui trae origine la sua autorevolezza, si può osservare che il mito illuministico della ragione come strumento infallibile non si adatta alla complessità umana e sociale della crisi. La (presunta) capacità degli esperti di non essere sensibili alle influenze politiche, oltre a essere falsa, tradisce un’impermeabilità ben più grave nei confronti del reale. Per dirla con Adorno e Horkheimer, insomma, “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”(1).
Alla luce di queste considerazioni è lecito chiedersi, a un livello più profondo, se l’economia stessa sia una scienza razionale, o meglio, per evitare questa tautologia, se sia una scienza dura.
Il professor Emiliano Brancaccio, che assieme a Giacomo Bracci ha scritto il libro Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica (Il Saggiatore), sembra non avere dubbi sul fatto che l’economia sia una scienza come tutte le altre, a differenza di quanti, come l’economista Gunnar Myrdal, la ritengono più una “scienza molle”, ovvero incapace di arrivare a soluzioni oggettivamente valide.
Ci sembra interessante riportare a tal proposito un passaggio dell’intervista per Linkiesta:
“D: Sono in molti a pensare come Myrdal che l’economia non possa essere una scienza paragonabile alla fisica o alla chimica.
Brancaccio: Non sono d’accordo. L’economia è una scienza a tutti gli effetti, e distinguerla dalle cosiddette scienze “dure” è più difficile di quanto si immagini, come spieghiamo nel libro. Anche la fisica è stata condizionata dall’influenza dei giudizi di valore e dagli interessi politici.”
Se è vero che l’economia non è meno dura della fisica, come dice Brancaccio, è anche vero, però, che neppure quest’ultima è immune a giudizi di valore e influenze politiche. Quindi, a ben guardare, nessuna scienza è propriamente “dura”. Il mito della razionalità infallibile, della tecnica che opera dall’alto del suo iperuranio conoscitivo, anche se può sembrare allettante e consolatorio in un contesto storico in cui la tecnologia può tutto, è lontano dal vero. Per quanto riguarda l’economia, sono due i motivi per cui l’expertise non è sinonimo di imparzialità.
Il primo riguarda il potere. Brancaccio continua l’intervista dicendo che ciò che differenzia veramente l’economia dalle altre scienze è la sua capacità di creare “il discorso del potere”, ovvero il linguaggio che viene adottato nelle decisioni politiche e che la rende “influenzabile dagli assetti di potere vigenti e dai loro meccanismi di riproduzione”. Quindi i tecnici al governo si fanno portatori di una sorta di doppio potere: quello dello Stato e quello del discorso, conformista ma anche conformante.
Il secondo motivo rientra nella critica dei fondamenti della meritocrazia. Draghi ha un’esperienza alle spalle che lo rende “affidabile” agli occhi di tutti i principali attori politici. Tuttavia, l’expertise ha sempre qualcosa di ambiguo: difficilmente un esperto, che non abbia un approccio critico prima di tutto nei confronti delle proprie convinzioni, sarà portato a confrontarsi e ad ammettere teorie non conformi alle sue e al mainstream. Il governo tecnico è, in realtà, la formula mistificatoria che l’establishment ha definito per legittimare (o meglio, santificare) le politiche che gioveranno esclusivamente ai propri interessi.
Ancora una volta, chi trova soluzioni alternative al neoliberismo è bandito dalla stanza dei bottoni.
(1) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 2010. Merita la citazione più ampia: [...] la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura, gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’Illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini [...].