Sopprimere i soggetti mediatori tra il potere politico-istituzionale e i cittadini è un’idea allettante, che ha dilagato nelle democrazie occidentali almeno dal primo decennio del XXI secolo. Un’idea le cui motivazioni possono sfuggire ai più se non viene inquadrata nel più ampio contesto di crisi dei regimi democratici.
Rappresentanza, corpi intermedi, democrazia diretta, disintermediazione. Sono questi alcuni dei concetti fondamentali attorno a cui si sviluppa l’analisi dedicata da Antonio Campati, ricercatore di Filosofia politica all’Università Cattolica, alle meccaniche essenziali per il buon funzionamento della vita democratica. Lo abbiamo intervistato sul legame tra gli effetti socioeconomici della crisi finanziaria globale e il deconsolidamento della democrazia, letti attraverso la lente del suo ultimo libro La distanza democratica. Corpi intermedi e rappresentanza politica (Vita e Pensiero, 2022).
D: Crisi della democrazia e democrazia alla prova della policrisi. Dal suo volume emerge un dibattito variegato e acceso sulla qualità della democrazia e sui suoi ingranaggi essenziali: dai corpi intermedi alla rappresentanza, dalle caratteristiche delle diverse declinazioni di “democrazia” alla sfida populista. Si può affermare, a suo avviso, che il rinnovato interesse per questo dibattito risalga alla crisi finanziaria globale del 2008-2009, con la disillusione che ne derivò nelle opinioni pubbliche e i grandi fenomeni di protesta che ne trassero le mosse?
R: Sì, sicuramente la crisi finanziaria globale ha accentuato la fase di trasformazione della democrazia rappresentativa anche perché ha accelerato una serie di cambiamenti in atto. Si pensi, per esempio, al fortunato libro di Colin Crouch sulla postdemocrazia, che era già stato pubblicato da qualche anno e, in un certo senso, ha anticipato lucidamente alcune tendenze, le quali, nel corso degli anni fino ad oggi, si sono accentuate.
Un tema su tutti è quello della "commercializzazione della cittadinanza". In linea generale, è ormai evidente che il rapporto tra sistema politico e sistema economico è uno degli aspetti ineludibili per comprendere come cambia la società e, quindi, come cambia la democrazia liberale. Le logiche che governano i mercati, l’economia e il mondo della finanza influenzano in maniera costante i meccanismi della rappresentanza politica e spesso sono talmente pervasive che spesso siamo indotti a considerarle irreversibili. In larga parte è vero, basti pensare a come le dinamiche di marketing influenzano le campagne elettorali e il dibattito politico quotidiano.
Però, dobbiamo utilizzare una certa cautela nel considerare il funzionamento della democrazia esclusivamente attraverso la logica economica, o addirittura economicista; il rischio è quello di farsi ammaliare dal meccanismo del risparmio a tutti i costi, che potrebbe minacciare seriamente l’impianto del sistema rappresentativo.
In altre parole, la democrazia ha dei costi fissi che non possono essere ridotti e men che meno cancellati. È un assunto importante, che spesso viene trascurato.
D: Di quella stagione di contestazioni e manifestazioni di piazza contro il cosiddetto establishment sono rimaste formazioni politiche e linguaggi riconducibili alla categoria, spesso abusata, di “populismo”. Se si volesse identificare una riforma emblematica dello spirito di quella stagione, si potrebbe prendere in considerazione la legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari1Legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1.. Ritiene che, nel contesto italiano, l’onda lunga di quella contestazione così radicale si sia esaurita?
R: Ciò a cui mi riferivo in chiusura della precedente domanda è proprio la tendenza – populista? – che ha determinato la riduzione del numero dei parlamentari italiani soprattutto sull’onda della richiesta di riduzione dei costi della politica. Per molti versi, la legge costituzionale dell’ottobre 2020 è un punto di arrivo degli effetti innescati dalla crisi economica 2008-2009. Alla disaffezione nei confronti della politica, che aveva raggiunto livelli molto alti, si è aggiunta la difficoltà economica di molte famiglie e imprese: questa congiuntura si è tradotta in una richiesta sempre più pressante di ridurre i costi della politica, di tagliare – se non azzerare del tutto – gli stipendi dei parlamentari, di cancellare il finanziamento dei partiti e così via.
Per quanto riguarda il contesto italiano, il successo del Movimento 5 Stelle è legato al fatto di aver saputo interpretare (ed estremizzare) queste richieste. Sicuramente l’onda populista, se così vogliamo chiamarla, si è oggi un po’ affievolita rispetto ai livelli di un quindicennio fa, ma certamente non si è ricucito il rapporto tra cittadini e politica (l’astensione alle elezioni è un segnale preoccupante). Anzi, al contrario, l’aver continuamente tentato di delegittimare il ceto politico, i meccanismi della rappresentanza e le stesse istituzioni politiche ha indebolito ulteriormente il rapporto tra elettori ed eletti.
Bisogna tuttavia chiarire un punto di fondo: le classi politiche al governo non hanno sempre manifestato lungimiranza e gestione oculata e, pertanto, in molti casi, le richieste dei cittadini sono state (e sono) più che legittime. È importante sempre trovare un punto di equilibrio: da un lato, le richieste dei cittadini, dall’altro, la necessità che l’azione dei parlamenti e dei governi non sia influenzata dagli umori dell’opinione pubblica.
È il punto di equilibrio della democrazia, che prevede la mediazione tra diversi interessi e diverse prospettive, all’interno della dimensione spazio-temporale. Su quest’ultimo aspetto, nel suo ultimo libro, Jan Zielonka offre interpretazioni e analisi interessanti in "Democrazia miope. Il tempo, lo spazio e la crisi della politica" (Laterza, 2023).
D: L’argomento della riduzione del numero dei parlamentari ci conduce a uno dei temi portanti del volume: il tema della disintermediazione. Quali lezioni si possono trarre dalla retorica politica dell’“agire in prima persona” e dell’“uno vale uno” e dalle reazioni che hanno suscitato nel dibattito pubblico italiano?
R: Come scrivo nel libro, la disintermediazione è affascinante perché ci illude di poter fare a meno dei mediatori (costosi): grazie a internet, è possibile comprare un biglietto aereo o del treno con pochi clic e in pochissimi minuti senza dover pagare i costi all’agenzia. Semplificando al massimo, è la stessa logica che ha mosso alcuni fautori della politica immediata: perché pagare lo stipendio ai parlamentari, se posso decidere io, attraverso una sofisticata piattaforma online, quale proposta deve diventare legge e quale no?
La realtà è chiaramente un’altra. La fascinazione per la disintermediazione, nell’ambito politico, ha prodotto l’illusione di poter agire in prima persona e di poter fare politica anche senza particolari competenze o qualità. Negli ultimi anni, si è diffusa maggiore consapevolezza sul tema.
Basti pensare a due esempi: è maggiormente riconosciuta l’importanza del fatto che è impossibile pensare una democrazia rappresentativa senza rappresentanti che possano mediare (l’"agorà virtuale" per quanto possa essere ampia non raccoglie tutti i cittadini), così come ci si è resi conto che anche le piattaforme virtuali sono enti mediatori e chi le governa (essendone spesso anche il proprietario) decide quali temi devono essere affrontati e chi può partecipare alla discussione. Si tocca qui un tema molto delicato, quello del pluralismo, che può essere minacciato dai meccanismi che sottendono il funzionamento della bubble democracy.
D: Volgendo l’attenzione su un altro tema, vorrei estendere la riflessione anche alle vicende tormentate del contesto politico francese degli ultimi mesi. In Francia ha destato grande interesse l’espressione fabrique de la défiance, ovvero “fabbrica della sfiducia”. Quanto sono interconnesse le questioni della sfiducia e della domanda di disintermediazione nelle dinamiche di deconsolidamento dei regimi democratici occidentali?
R: Il legame è stretto perché proprio la sfiducia nelle istituzioni e nella politica ha indotto non pochi cittadini a condividere le prospettive di immediatezza politica che prima ricordavo. Per la tenuta della democrazia, è necessario che la sfiducia venga incanalata dentro i canali istituzionali o comunque assorbita nelle dinamiche proprie della rappresentanza: ciò non con l’intento di annullarne la spontaneità, ma nella prospettiva di renderla davvero influente nei confronti delle dinamiche decisionali.
Da questo punto di vista, anche i nuovi intermediari, soprattutto quelli digitali, sono importanti attori del sistema democratico. Spesso vengono messi in evidenza i loro limiti, ma a ben vedere sono anche i mezzi attraverso i quali vengono espresse le richieste dell’opinione pubblica. Un determinato tasso di sfiducia è sempre presente nei regimi politici, specialmente nelle democrazie, dove è indispensabile perché spesso è appannaggio delle minoranze e delle opposizioni: affinché non resti solo l’espressione di una insoddisfazione, è necessario che venga elaborato, discusso, condiviso e, per fare ciò, credo che siano importanti le strutture e le istituzioni di mediazione.
D: Come spiegherebbe il concetto di distanza democratica, tema presente già nel titolo del volume? E perché è benefica per la qualità della democrazia?
R: Con il mio libro ho voluto porre l’attenzione sulla distanza democratica, intesa come l’area intermedia tra rappresentanti e rappresentati all’interno del governo rappresentativo. È lo spazio dove agiscono i corpi intermedi e dove si crea, per così dire, la rappresentanza.
È davvero difficile pensare di poterla cancellare, a meno che non si voglia modificare radicalmente il funzionamento della democrazia liberale. Tale distanza, infatti, per un verso, delimita lo spazio nel quale i cittadini possono partecipare alla vita politica, sociale ed economica e, per l’altro, fissa una distinzione tra chi rappresenta e chi è rappresentato in modo tale che il primo percepisca la responsabilità che deriva dal ricoprire un ruolo così impegnativo.
Cade, in altri termini, la suggestione dell’“uno vale uno” perché il rappresentante non è affatto uguale al rappresentato, in quanto ha specifiche responsabilità e specifici doveri. In tal senso, l’intento di fondo del libro è stato certamente quello di rimettere l’accento sulla dimensione verticale della democrazia, che naturalmente non deve prevalere sulla dimensione orizzontale, ma entrambe devono equilibrarsi.