L’inflazione è ai massimi storici dall’introduzione dell’euro. Il caro bollette inizia a pesare sulle famiglie e sulle imprese. In questo momento di instabilità, vari partiti stanno chiedendo con forza un nuovo scostamento di bilancio per supportare l’economia.
Fare uno scostamento di bilancio significa aumentare la spesa pubblica (corrente) in deficit, il che provocherebbe un aumento del debito pubblico. E proprio questo (l’aumento del debito pubblico) è l’argomento che molti usano per attaccare la proposta di uno scostamento di bilancio.
Nel racconto della politica, e spesso anche all’interno dell’accademia, c’è un luogo comune: il debito pubblico di oggi dovrà essere ripagato dalle generazioni future, e quindi ogni politica economica fatta in deficit è contraria agli interessi dei giovani. È interessante notare come questa concezione sia spesso presente anche a sinistra.
Questo concetto, tuttavia, è falso. Cerchiamo di capire il perché.
Come funziona il debito pubblico
Gli Stati sovrani emettono dei titoli di Stato (essenzialmente dei prestiti per finanziare la spesa pubblica) che sono acquistati dai cittadini, dalle banche commerciali e dalle banche centrali. Questi soggetti beneficeranno di un tasso di interesse fino alla scadenza del titolo, che verrà ripagato dallo Stato.
Osservando questo meccanismo, gli oppositori della spesa in deficit concludono che il debito pubblico è un peso, perché in futuro deve essere “ripagato”.
In realtà, però, le cose non funzionano proprio così. In primo luogo, infatti, non esiste un momento in cui lo Stato deve ripagare l’interezza del suo debito pubblico. Inoltre, ogni Stato normalmente ripaga il debito in scadenza emettendo nuovi titoli di Stato, e quindi senza dover davvero “restituire” tale somma.
Insomma, come spiega in un articolo molto chiaro l’economista Paul Sheard, già professore ad Harvard, “il debito pubblico non deve mai essere ripagato”. O meglio, il debito non si ripaga, ma si rinnova all’infinito (in gergo tecnico si dice roll over).
E in Italia?
Torniamo ora all’Italia. Dal 1995 al 2019 il governo italiano ha registrato quasi sempre (ad eccezione del 2009) avanzi primari di bilancio: in sostanza si è sempre cercato di ridurre il debito pubblico, ma senza riuscirci.
Il problema è che spesso si è provato a farlo riducendo la spesa pubblica. Le politiche di contenimento fiscale, però, tendono a deprimere il prodotto interno lordo di una nazione, e quindi fanno aumentare la disoccupazione e la povertà.
Inoltre, i vari interventi che servirebbero per migliorare il Paese, soprattutto per favorire le nuove generazioni in futuro (contrasto al cambiamento climatico, potenziamento dell’istruzione e della sanità, ricerca di nuove fonti di energia per essere indipendenti, ecc.) richiedono un notevole sforzo di spesa pubblica. Proprio per questo, vengono ritardate o abbandonate per paura di mettere a rischio la sostenibilità del debito.
Ma questo atteggiamento esacerba i problemi futuri delle nuove generazioni, che rischiano di trovarsi un Paese completamente inadeguato per le loro future vite. È seriamente questo ciò di cui hanno bisogno?
L'austerità si taglia le gambe da sola
Inoltre, è utile ricordare che le politiche restrittive di bilancio possono "paradossalmente" far aumentare il rapporto fra debito pubblico e Pil invece che ridurlo, mentre le politiche espansive possono produrre l’effetto contrario.
È un chiaro concetto matematico: se il tasso di crescita del denominatore (il Pil) è maggiore del tasso di crescita del numeratore (il debito), allora il rapporto debito/Pil tenderà a diminuire, e viceversa.
Dunque, anche se una politica restrittiva potrebbe ridurre il debito pubblico in valore assoluto, determinerebbe allo stesso tempo una riduzione del Pil, e se la caduta di quest’ultimo è molto forte si avrebbe un ulteriore deterioramento del rapporto debito/Pil1.
Chi controlla i tassi?
In realtà, la convenienza di aumentare il debito pubblico o no dipende molto dai tassi di interesse pagati sui titoli.
Secondo i critici della spesa in deficit, questa renderebbe il Paese meno credibile sui mercati internazionali. In questo modo, i tassi di interesse aumenterebbero e ci sarebbe una crisi simile a quella del 2011, che portò alla caduta del governo Berlusconi e alla nascita del governo tecnico guidato da Mario Monti.
Tuttavia, questa visione ignora un fatto importante: in generale la politica dei tassi di interesse è in mano alla banca centrale e la credibilità delle finanze di un Paese dipende “in ultima istanza” da quest’ultima. Se la banca centrale assolve al suo compito di essere prestatrice di ultima istanza del debito dello Stato, non può crearsi una sfiducia tale da mandare in default un Paese. E se anche la sfiducia fosse forte, la banca potrebbe intervenire per ridurre i tassi e calmare le acque dei mercati finanziari.
È proprio quello che è accaduto all’inizio della pandemia, quando la Banca centrale europea ha attuato un intervento straordinario (il cosiddetto PEPP) al fine di ridurre i tassi di interesse sul debito dei vari Stati europei (che erano schizzati per le preoccupazioni dovute al Covid-19). Grazie all’intervento della Bce, l’Italia ha potuto pagare il tasso di interesse minimo dall’unione del 1861, nonostante avesse al contempo uno dei più alti rapporti tra debito pubblico e Pil.
Si potrebbe obiettare che si trattava di un intervento di emergenza, che non può essere reso strutturale. Ma proprio per questo esistono varie proposte per una gestione europea dei titoli di Stato nazionali e per ridurre la volatilità dei tassi di interesse. Una delle più interessanti è quella di Massimo Amato e coautori, che propongono la creazione di un’agenzia europea del debito pubblico.
Per concludere
Una politica che tiene davvero alle nuove generazioni dovrebbe abbandonare la visione conservatrice dell’economia, oggi ancora dominante. Al contempo, i giovani dovrebbero cercare di comprendere che chi promette la riduzione del debito tramite politiche restrittive non sta cercando di migliorare il loro futuro, ma piuttosto lascerà un’Italia peggiore di quella di oggi.