Il tema della peste ha ispirato poeti, romanzieri e drammaturghi fin dall’antica Grecia. Dall’Iliade a “La peste” di Albert Camus, la letteratura mondiale è costellata di epidemie o più circoscritti focolai di malattie contagiose. Non di rado si tratta di narrazioni che hanno fondamento storico. Accade, inoltre, che periodi segnati da epidemie e frangenti di crisi vengano a coincidere.
A variare sono le coordinate storico-culturali che ridefiniscono volta per volta l’ambientazione e la simbologia, dando una cornice alla vicenda: il morbo interpretato come punizione divina in Omero; la peste rappresentata come variabile inattesa e avversa agli Ateniesi, nella guerra contro Sparta, in Tucidide; la “Morte Nera” come presagio dell’Apocalisse nell’Alto Medioevo; la Fortuna che irrompe nelle microstorie dei personaggi del Boccaccio.
Ma un motivo sembra accomunare la maggior parte delle crisi passate, pandemiche e non, ed è l’urgenza di interrogarsi sulle implicazioni culturali dell’evento eccezionale e sulla qualità dei paradigmi di pensiero dati per irrinunciabili fino a quel frangente storico. In breve, quale morale trarre dalle disgrazie piombate sulle comunità umane e dalle conseguenti crisi?
Non può essere la mera logica emergenziale, quella dell’hic et nunc, a prevalere, poiché significherebbe limitare l’azione allo stretto necessario, ovvero a “metter qualche toppa”. Come Papa Francesco ha avvertito fin da marzo 2020, grave sarebbe sprecare l’occasione di ripensare modi di vedere, pensare e agire preesistenti, convinzioni comuni, presunte certezze inculcate dalla modernità delle “magnifiche sorti e progressive”.
Prima di riversare tutte le energie intellettuali nella formulazione di ricette e rimedi preconfezionati, è buona abitudine porsi le domande giuste, rivolte ai singoli individui e alle collettività, sulle ragioni culturali che hanno condotto alla crisi e su quelle che hanno aggravato gli effetti della congiuntura sfavorevole, se non addirittura ostacolato una pronta risposta.
A cosa è dovuto il diffondersi rapido e incontrollato di un virus su scala globale? Perché i governi dei Paesi democratici son dovuti ricorrere a restrizioni dure e compressioni dei diritti fondamentali per arginare le conseguenze del contagio? Perché mai il “nuovo clero” degli scienziati (così lo definì Auguste Comte) ha assunto un ruolo determinante nei processi decisionali degli esecutivi? Come i social media hanno contribuito alla diffusione di disinformazione e allarmismo?
E, ancora, come riorganizzare gli spazi urbani in una maniera tale da ridurre l’impatto di una pandemia sulle aree ad alta densità di popolazione? Come porre un freno alla frenesia di un consumismo che, oltre a non poter saziare il desiderio di felicità materiale dell’homo oeconomicus, dà l’impulso ai produttori a prosciugare le risorse del pianeta, a sventrare interi habitat naturali e a esigere livelli crescenti di produttività dai lavoratori pur di stillare un dollaro in più di profitto? Come invertire la rotta di un processo di atomizzazione della società che porta alla scomparsa dei mercati locali, luoghi di socialità e scambio culturale, e alla proliferazione dei super-, iper, mega-mercati che vendono prodotti provenienti dagli angoli più remoti della Terra?
Al centro della galassia delle questioni socio-politico-economico-culturali che si potrebbero sollevare, si collocano però i sistemi educativi, che includono le microreti dell’aula di scuola, il ruolo della famiglia, il rapporto dei giovani con gli ambienti virtuali e con i coetanei.
Dell’importanza di ristrutturare e rinnovare il tessuto sociale dal basso, quindi dall’educazione (dal latino “ex-ducere”, ben diverso da “in-struere” di “istruzione”), c’era piena consapevolezza nelle epoche passate: sul problema ragionarono i Romani dinanzi alle contaminazioni culturali dei “Graeculi”, tacitamente ammirati; la Chiesa cattolica rispose allo scisma protestante con l’istituzione della Compagnia di Gesù, dedita soprattutto all’attività educativa; persino la classe dirigente del regime fascista, critica verso il comune sentire della Belle Époque e del Decadentismo, insistette sulla centralità della riforma Gentile e, da allora, nessuno ha più messo mano all’ossatura portante della scuola italiana.
Per dare una risposta efficace alle sfide già esposte, nonché alle ulteriori questioni sorte con l’avvento della “rivoluzione tecnologica” (divenuta pervasiva e angosciosa per via della “didattica a distanza”) e con la terziarizzazione del mercato internazionale del lavoro, non si può più rinviare un ragionamento sull’adeguatezza del sistema educativo italiano. D’altronde, la grandezza di una nazione dovrebbe essere commisurata alla qualità dell’apparato scuola-università. Basti ricordare che, all’indomani della sconfitta subita contro la Prussia nel 1871, i francesi ritenevano di esser stati vinti dai professori prussiani, non dai loro generali.
Sia ben chiaro che questo non vuol dire cedere alla seduzione dei tanto osannati modelli anglosassoni (che, nel frattempo, stanno rivalutando il ruolo delle materie umanistiche e delle nuove invadenti tecnologie), ma ispirarsi a un principio di lungimiranza senza accantonare l’eredità culturale giunta fino ad oggi. E non è solo questione di miliardi stanziati per la pubblica istruzione.
Una proposta? Mantenere per i licei la centralità dell’umanesimo occidentale, con filosofia e logica, storia (economica, giuridica e politica), letteratura e arte a fare da capofila, potenziando parallelamente matematica e scienze, cosicché la specializzazione universitaria possa basarsi sul presupposto solido dell’autodisciplina intellettuale e dell’autonomia morale dei liceali. In tempi di crisi non v’è bisogno di yes-men, ma di leader pronti a governare il cambiamento verso un’idea di società più giusta e democratica.
[…] fortemente ad evidenziare ed accentuare l’enorme stato di sottofinanziamento del sistema di pubblica istruzione […]