"Parlando di Napoli si corre il rischio di finire nel luogo comune, che è poi quello dove molti s'incontrano. Parlando di Maradona, idem. Raramente, credo, il nostro calcio ha mostrato un'adesione così immediata fra l'anima di una città e quella di un uomo (non di una squadra, o almeno non direi, ancora). Anche la lingua aiuta: guappo, guapo, lo capiscono anche a Baires, tango e tammurriata hanno le stesse cadenze. Maradona, artefice magico, estrae dal cilindro del suo piede miracoli a gettone. Meglio non credere più ai miracoli, Maradonapoli è oro; è ora, forse"
(Gianni Mura, "Maradonapoli", Repubblica, 5 novembre 1985 )
Nel caso della morte di Diego Armando Maradona, ogni parola potrebbe rivelarsi superflua, sovrabbondante, addirittura retorica. Potrebbe essere più utile, forse addirittura più giusto, lasciar parlare le immagini, le cronache dell’estro di un campione irreale che tra America Latina, Spagna e Italia ha costruito una leggenda contemporanea.
La leggenda di un campione controcorrente, vincitore contro tutto e contro tutti, simbolo del riscatto di una città, Napoli, che nel pallone ha trovato la forma di rivalsa verso il Nord industriale, della rivalsa dell’Argentina, uscita a pezzi nell’orgoglio e nelle condizioni materiali dalla tragica avventura della guerra delle Falkland e dalla fine del regime militare, sull’Inghilterra ai Mondiali del 1986, di un’America Latina che, nella fase di maggiore impeto del socialismo del XXI secolo ha visto in lui, parola di Hugo Chavez, il “macchinista del treno dell’Alba”, la nuova America sovrana e socialista sognata dai leader di Cuba, Bolivia, Venezuela a inizio secolo.
Maradona, icona senza tempo
Maradona è stato irrazionalità e genio. Rivoluzione e reazione. Campione e dannato. Ostinatamente, romanticamente e ingenuamente sempre pronto a dividere il mondo in bianco e nero. “Castro è un Dio, Bush un assassino”, diceva nel 2005 alla Tv cubana. “
"Che si fottano i Lloyd di Londra! Questa partita si deve fare per quel bambino”, aveva detto vent’anni prima, accettando di pagare la penale di un’assicurazione contro gli infortuni pur di giocare, in un fangoso campetto ad Acerra, un’amichevole in favore di un padre che, disperato, si era rivolto al Napoli per organizzare una partita e una raccolta fondi per pagare un’urgente operazione chirurgica al figlio malato.
“Sincero fino all’autolesionismo”, lo ha definito Gianni Minà, campione del giornalismo italiano che meglio di tutti lo ha conosciuto. E in una generazione che ha prodotto una delle più fertili messe di campioni della storia del gioco (Platini, van Basten, Zico per fare solo tre nomi) Maradona ha spiccato per la sua grande identificazione tra l’uomo e il campione. Maradona è stato un collante identitario: “Ho visto Maradona” è per genitori e nonni della generazione più giovane un fattore di legittimazione dell’amore per “il gioco” per eccellenza.
Maradona, come gli ussari alati alle porte di Vienna, appariva e colpiva. Trasformando ogni partita in una narrazione a sé. Elevando a protagonisti della storia del gioco i difensori e i portieri vittima del suo estro. “Sono dentro a un’opera d’arte grazie a Diego”, rivendica l’ex portiere della Juventus Stefano Tacconi, che da lui subì uno dei gol che hanno reso celebre il Pibe.
A Brescia ancora ci si ricorda di una di quelle che Gianni Mura ha definito vere e proprie "epifanie" del profeta del calcio. Brescia ha visto Maradona una volta sola, il 14 settembre 1986, quando la sfida tra le "rondinelle" padrone di casa e il Napoli del Pibe inaugurò una stagione che sarebbe finita in maniera estremamente divergente: campioni, per la prima volta nella storia, i partenopei, terz'ultimo e mestamente retrocesso il Brescia. Quello slalom tra la difesa del Brescia concluso con un diagonale che decise la sfida è ancora ricordato tra i tifosi bresciani. Anche nel Nord Italia industriale e produttivo si sono creati leggende e miti legati al Pibe.
Il gol del secolo e la Bank of England
Lo slalom di Brescia avvenne poche settimane dopo il gol del secolo, segnato a poca distanza dalla celebre "mano di Dio" contro l'Inghilterra nei Mondiali messicani che avevano visto l'Argentina vincitrice.
A quello slalom avrebbe fatto riferimento, nel 2005 Mervyn King, governatore della Bank of England, azzardando un paragone tra il ruolo del banchiere centrale e la corsa di Maradona nella difesa inglese, utilizzandolo come paragone per il ruolo del "potere delle aspettative nella moderna teoria dei tassi d'interesse":
"Maradona di fatto corse su una linea retta. Come puoi battere cinque avversari correndo su una linea retta? La realtà è che i difensori inglesi reagirono a quello che si aspettavano Maradona avrebbe fatto. Dato che si aspettavano sarebbe andato a destra e sinistra, [Maradona] potè andare avanti dritto".
Il "teorema di Maradona", lo ha definito il Financial Times. L'idolo delle periferie di Buenos Aires e Napoli preso ad esempio dal vertice della più antica banca centrale del mondo come fattore di legittimazione. Con un sottotesto: il Maradona del racconto di King è il banchiere centrale. Capace di guidare con saggezza e decisione la banca centrale verso l'obiettivo del controllo dei tassi utilizzando il "talento" della sua autorevolezza. Cronache di una finanza pre-2007 (in cui l'Italia ha espresso il "Maradona dei Maradona", Guido Carli), ma anche dell'irresistibile fascino del mito di Maradona.
A fine Anni Ottanta, ha raccontato Romano Prodi al South China Morning Post, anche Deng Xiaoping, prevedendo il ruolo del calcio come fenomeno globale, tentò di mettere la bandiera del Napoli al centro del futuro asse economico Italia-Cina. Deng, racconta Prodi, nel 1987 volle addirittura provare a negoziare l'organizzazione di una partita del campione argentino nella Repubblica Popolare durante una visita dell'allora presidente dell'Iri in Cina.
Maradona e l'Argentina: tra sogno e riscatto
Il mondo ha cercato Maradona più volte, ma lui è sempre voluto rimanere, fino al midollo, fedele alla sua identità, che era quella di un vero e proprio "sovranista" latinoamericano (celebre fu la sua amicizia con Fidel Castro e Hugo Chavez) ma soprattutto di un genuino argentino.
Non si può ridurre la radicale "argentinità" di Diego Armando Maradona al suo ruolo di icona calcistica. Nella sua figura convivono i tratti profondi della complessa storia di un Paese e di un continente in perenne ricerca di riscatto. E nulla esemplifica il legame identitario tra Maradona e l'Argentina meglio del ricordo che gli ha tributato il River Plate, storico rivale del club in cui è esploso calcisticamente, il Boca Juniors.
Hasta siempre, Diego. Diego per sempre. Non è retorica, è realtà. Maradona entra definitivamente nel Pantheon nazionale, di cui ha incarnato sogni e speranze, pregi e contraddizioni, presente e passato.
L'Argentina è una terra malinconica, in perenne attesa del riscatto. Ha un rapporto ambivalente con la storia, che tra fine Ottocento e inizio Novecento ha visssuto in primo piano, come uno dei centri principali dell'economia e dei commerci, per poi incamminarsi su un lungo viale del tramonto a cui si è affiancata, più volte, il barlume e la speranza del riscatto.
Il calcio è l'epica dei popoli latinoamericani e l'essenza profonda della loro condizione. Estetica sportiva, folklore, fattore identitario. L'Argentina è Paese sospeso tra la speranza del ritorno a un'Arcadia posta in un passato indefinito e un presente complesso.
La sua essenza è stata la terza via. Quella terza via che incarnarono Juan Domingo ed Evita Peron, gli eroi dei descamisados, i tramite tra il popolo e il potere che costruirono un articolato e contraddittorio processo politico sul tema del riscatto. "De Gaulle y Peron, Tercera posicion!", gridavano i cittadini argentini acclamando il presidente francese giunto in visita nel 1964, considerato un alleato nella ricerca di un equilibrio tra socialismo e blocco occidentale.
Il peronista Maradona incarnava nel campo e nella visione del mondo il suo Paese. Parlando di filosofia del calcio, Maradona era la terza via tra il "dribbling game" e il "passing game", scontro teorico e pratico sull'essenza del gioco. Nella storia dello sport più popolare al mondo è stato la terza via tra il calcio-business e quello popolare, fondato sull'emozione.
Vivendo completamente assuefatto nel secondo, ha mobilitato globalmente l'industria dello sport. "A Napoli l'industria è il pubblico del San Paolo, che non basta a tenerlo tutto: 60 mila abbonati", notava nel 1985 Gianni Mura. Ma l'essenza di Maradona è la partita di Acerra: il riscatto dei dimenticati e l'ascesa dalla miseria non sono stati per lui meri orizzonti ideali ma obiettivi concreti la cui possibilità il campione nativo di Lanus ha per tutto la vita perorato portando l'esempio della sua stessa esperienza personale.
Insomma, se può esistere un "capitalismo alla Messi", non sarebbe mai potuto esistere un capitalismo alla Maradona.
Con la morte di Maradona, resta all'Argentina un solo, grande peronista di rilevanza globale: siede sul trono di Pietro in Vaticano, il suo nome è Jorge Mario Bergoglio e la sua "terza via" è quella della dottrina sociale della Chiesa e del bivio tra la continuità di un'istituzione millenaria e le sfide della globalizzazione. Argentino verace, Francesco anche da capo della cristianità non ha mai dimenticato il suo legame con la religione civile del suo Paese, il calcio. Tifoso di quel San Lorenzo de Almagro che negli scorsi anni ha provato, senza successo, ad ingaggiare Diego Armando Maradona come allenatore.
Peròn, Bergoglio, Maradona: la storia argentina ha già pronto un posto speciale per tutte e tre queste figure. El Pibe si inserisce con continuità nella storia del suo Paese, un Paese che plasma gli uomini in conformità o in antitesi alla sua identità. Anche il quarto grande nome dell'Argentina contemporanea, Jorge Luis Borges, il genio letterario così radicalmente diverso, nel suo spirito elitista, nella sua impronta reazionaria e nel suo feroce antiperonismo, a suo modo ha vissuto sul solco della "Terza via", destino perenne dell'Argentina. Che cos'è il "realismo magico", in fin dei conti, se non un bilanciato equilibrio tra opposti, un meraviglioso ossimoro come la nazione di origine del suo autore?
Borges scrisse la celebre frase secondo cui "ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio". E la storia di un Paese, l'Argentina, che nel più grande calciatore di sempre ha potuto vedere se stessa, riparte ogni volta che ciò avviene nelle periferie dove, magari nel silenzio, ogni bambino sogna quel numero 10 che ora, nei campi di tutto il mondo, sarà orfano. Avendo perso il suo legittimo proprietario.
Maradona sarà sempre associato all'idea di sogno e riscatto, a cavallo tra realtà e fantasia. In lui, nei tempi a venire, si identificherà il Paese di cui è diventato icona proprio perchè ne era il più classico dei figli. Hasta siempre, Diego.
Mah, avevo appena letto “Capitalismo alla Messi”, un articolo ben centrato, intelligente, acuto, poi m’imbatto in questo peana e mi cascano le braccia. Da chi evidentemente studia la materia mi sarei aspettato decisamente di più. Conosco molto bene la biografia di Maradona, un finto socialista mediaticamente a sinistra con il portafoglio ben ancorato a destra. Non è stato solo un uomo per tutte le stagioni, capitalista, liberista, vicino ai camorristi, ai narcotrafficanti, agli sceicchi, quanto è stato socialista, vicino ai leaders anticapitalisti, ma soprattutto è stato un uomo immagine delle multinazionali affamapopoli, come la Coca Cola per esempio, e con i soldi nei paradisi fiscali, come sta emergendo inevitabilmente.
Che poi si voglia chiudere un occhio sulla sua contraddittorietà, si faccia pure, ma si sappia anche che non si sta facendo un buon servizio alla causa del socialismo, oggi purtroppo in crisi ovunque.
[…] Nord del Mondo facendosi veicolo dei valori, dei desideri e delle frustrazioni dei popoli oppressi. Peronista, amico di Fidel Castro, anti-imperialista, con la partita del “gol del secolo” e della “Mano di Dio” nel 1986 […]