In questi giorni i salotti televisivi italiani pullulano di intellettuali che tessono le lodi del MES, descrivendolo come una grande opportunità per il nostro paese e adducendo a supporto di questa tesi l’eventualità di un modesto risparmio (alcune centinaia di milioni di euro l’anno), dovuto ai più bassi interessi passivi sul debito rispetto agli ordinari titoli italiani.
In questo discorso apparentemente lineare i più dimenticano di citare un elemento fondamentale, ovvero che, come sottolineato da alcuni, il privilegio creditizio del prestatore MES (stabilito dai trattati) porrebbe in essere una pericolosa dinamica di “juniorizzazione” dei nostri titoli di debito nazionali, polverizzando sostanzialmente il suddetto risparmio. Difatti se il debito che contraiamo con il MES è sovraordinato rispetto agli altri, cioè gode di priorità di risarcimento in una eventuale situazione di crisi, è ragionevole pensare che chi sottoscriverà i nostri titoli di debito (ad esempio i Btp) potrebbe chiedere un tasso d’interesse maggiorato a “indennizzo” della sua posizione meno favorevole.
Ciò che però dovrebbe realmente sorprendere del corrente dibattito, al di là delle argomentazioni tecniche, è la totale assenza di ogni riferimento a logiche politiche nella valutazione di un possibile ricorso al MES. Nessuno sottolinea l’evidente antitesi ideologica che sussiste tra il suddetto strumento e il Recovery Fund, tanto voluto dal presidente Conte.
Il Meccanismo Europeo di Stabilità è il retaggio simbolico di una impostazione europea che questo governo finalmente dopo anni si è deciso a combattere, è un braccio della filosofia economica rigorista tanto cara ai cugini tedeschi, pensato per soccorrere a colpi di lacrime e austerità i paesi con avanzate problematicità finanziarie. Rappresenta una concezione di Europa come un collettivo di paesi distanti tra loro, uniti da uno schema neoliberista di limitazione delle competenze statali e severo rigore dei bilanci pubblici, che punisce coloro i quali si trovano in difficoltà. Il Recovery Fund ha un significato simbolico diametralmente opposto: la collocazione dei titoli di debito comuni garantiti dal bilancio UE con il quale è parzialmente finanziato rappresenta infatti un significativo salto in avanti nella giusta direzione nel processo di integrazione europea.
Entrati nella dimensione politica della nostra valutazione, non possiamo esimerci dall’analizzare più approfonditamente il dogmatismo dei molti attori che popolano il fronte pro-MES, dunque ciò che li spinge a sostenere con tale determinazione questo strumento. Sembrerebbero essere guidati da una subconscia convinzione che ha condizionato le scelte politico-economiche italiane in ambito europeo negli ultimi decenni: ciò che potrebbe essere definito un “complesso d’inferiorità italiano”, un lungo filo che connette vari punti della nostra storia, tutti caratterizzati da un sentimento di imbarazzata inadeguatezza nei confronti dei paesi rigoristi del nord, con in testa la Germania.
Esso si sviluppa a partire dalle crisi petrolifere del ’73 e del ’79 e dal conseguente divario inflazionistico italo-tedesco (nel 1980 rispettivamente 19.5% contro 5.5%), e passa certamente per la condanna delle nostre svalutazioni competitive, così scorrette per i cugini settentrionali. Si estende a toccare il Sistema Monetario Europeo (1979), con la connessa resa ad un tasso di cambio fisso per il vecchio continente a sostanziale guida tedesca.
Passa attraverso la privazione della possibilità per la Banca d’Italia di agire da prestatore di ultima istanza, per i Trattati di Maastricht (1992), il Patto di Stabilità e Crescita (1997), fino ad arrivare ai giorni nostri. Un lungo filo caratterizzato da una visione ben precisa del nostro paese: “vizioso” e con un’endemica incapacità di gestione delle finanze pubbliche. La sensazione è che la posizione di molti soggetti favorevoli ad un prestito del MES sia da collocare esattamente in questo quadro, nella taciuta convinzione che il nostro sia un Paese ontologicamente inferiore, che non può permettersi di rifiutare un caritatevole aiuto proveniente dall’alto.
Proprio da questa malsana idea derivano le critiche rivolte ad alcune parti della maggioranza, colpevoli di combattere il MES per “inutili ragioni ideologiche”: un Paese come il nostro non può permettersi ragionamenti politici, ma deve essere guidato dalla ricerca di una supposta convenienza economica. Economia e politica però sono inscindibili e, se si sostiene che l’opposizione ideologica ad uno strumento economico sia insensata, tanto vale riformare l’ordinamento del paese e affidarne la guida ad un collettivo tecnocratico di monetaristi.
In conclusione, l’auspicio è che coloro i quali ad oggi si dichiarano contrari al MES nelle file del governo, in primis il presidente Conte, possano rivendicare con forza la natura politica (oltre che tecnica) e possano mettere a nudo il diffuso sentimento di diffidenza verso il nostro Paese nutrito da tanti opinionisti. Il Recovery Fund deve essere l’unico obiettivo da perseguire, dobbiamo tutti remare in quella direzione, poiché oggi si scrive la storia dell’Unione Europea e non possiamo mancare la nostra opportunità di cambiarne il corso.
[…] Il Mes e il complesso di inferiorità italiano – di Lorenzo Di Russo […]