Qualche giorno fa mi è stato chiesto se, viste le recenti “aperture” franco-tedesche nei confronti dell’Italia, abbia ancora senso parlare di una presunta solitudine degli italiani, come ho fatto nel mio ultimo lavoro I senza patria [i]. Ho risposto decisamente di sì.
Non soltanto perché le pretese aperture (vedremo, a saldo, il poco che ne resterà) non modificano la mission dell’Unione europea, che è quella di favorire la centralizzazione dei capitali nelle zone forti del continente, una mission facilitata dal Covid che ha fatto crescere a dismisura il nostro debito e diminuire in proporzione il nostro potere negoziale. Ma anche perché a questa continuità sostanziale si accompagna un mutamento formale non irrilevante (si passa dall’austerità assoluta alla spesa selettiva e pro-tempore, dal divieto di mutualizzazione a forme pur velatissime di condivisione o di “generosità”) che se consente all’Italia di non affogare, la espone però, quasi disarmata, ad un classico ricatto comunitario: più l’Unione sembrerà meno arcigna e “unita”, più chiederà in cambio.
E più avremo bisogno di capire, quindi, quello che non vogliamo capire: che l’Unione non è votata al superamento della nazione ma alla costruzione di patti tra nazioni a vantaggio di quelle più forti. E che perciò dobbiamo scalare l’ostacolo costituito dai decenni (o forse secoli) di storia che ci impediscono di definire con certezza un interesse nazionale: non per imporlo agli altri, ma per meglio orientarci nelle mediazioni.
A questo punto una parte dei lettori sarà certamente tentata di passare ad altro: la parte di “sinistra”. Mossa da una equiparazione del tutto infondata tra nazione e fascismo (e quindi immemore del rapporto tra nazione e Resistenza) e completamente votata alla libera circolazione dei capitali, la sinistra ha delegato la questione dell’interesse nazionale ad altri, ossia alle destre che peraltro tendono ad identificarlo con una adesione ancor più stretta alle peggiori strategie statunitensi.
Oggi però l’interesse nazionale, se bene inteso, può sposarsi con l’interesse delle classi subalterne. Ed anzi l’agire come nazione può e deve diventare una delle forme politiche dell’azione di quelle classi. Infatti, di cosa ha bisogno l’Italia se vuole arrestare il suo declino?
Di ricostruire uno stato ormai sfiancato da liberismo e regionalismo. Di rilanciare un intervento pubblico nell’economia fatto non di sovvenzioni ai privati, ma di azione pubblica diretta nei settori in cui siamo maggiormente dipendenti da altri (tecnologie ecc.). Di rafforzare il mercato interno per ridurre la dipendenza dall’export in un mondo sempre più instabile. Di costruire uno spazio internazionale votato al controllo del movimento dei capitali per evitare fughe di ricchezza italiana e investimenti predatori dall’estero.
Orbene tutto ciò è coerente con l’interesse dei lavoratori, o può facilmente diventarlo: l’ampliamento del settore pubblico e l’economia mista favoriscono infatti la piena occupazione che è condizione primaria dell’aumento della forza del lavoro. La crescita del mercato interno e la regolazione dei movimenti del capitale rendono possibile la crescita del salario diretto e indiretto (welfare). La generale levitazione dell’attività economica e dell’occupazione aumenta il potere negoziale dello stesso lavoro parasubordinato e di tutte le analoghe figure miste o intermedie.
Insomma: il perseguimento di un interesse nazionale ben declinato è veicolo e condizione di possibilità di una svolta antiliberista e tendenzialmente socialista. E difatti è difficile, ed incontra ostacoli enormi, tanto quanto la costruzione di una strategia socialista. Perché?
Perché in Italia il dominio sulle classi subalterne si è esercitato e tuttora si esercita proprio grazie alla denazionalizzazione dei processi decisionali e della stessa cultura del paese. Perché il ricorso al vincolo esterno (ricorso che è espressione di un vincolo interno costituito dagli interessi della borghesia italiana) ha consentito di domare definitivamente il più importante conflitto di classe postbellico, quello degli anni Settanta [ii].
Perché il momento più alto della denazionalizzazione del paese (Maastricht) coincide col momento più basso dell’autonomia sindacale e politica dei lavoratori (i patti di concertazione patrocinati da Ciampi). E perché, infine, tutto ciò impone alle classi dirigenti italiane non soltanto di non perseguire l’interesse nazionale (che avrebbe, ad esempio, richiesto di mantenere forme di connessione europee meno vincolanti, come pur fatto da altri paesi), ma anche di non definirlo: perché se si definisce con chiarezza tale interesse si rischia poi di mostrare che non si è davvero in grado di perseguirlo.
Soltanto pochi esponenti delle suddette classi cercano quantomeno di porre il problema: è il caso della rivista Limes, che da anni si misura con queste tematiche e che recentemente ha accentuato le proprie critiche all’eurozona, chiedendo che si tenga finalmente conto non solo delle cogenze esterne a cui ogni paese deve sottostare, ma anche di un nostro vincolo interno, fatto dalle esigenze e dalle capacità dell’Italia [iii].
Posizione interessante, radicata in alcuni attori economici e in alcuni apparati di stato, che potrebbe essere attivata in situazioni di scontro con Bruxelles, ma che sconta due limiti. Il primo è che l’interesse al rafforzamento dello stato non sembra estendersi con la dovuta nettezza fino alla richiesta di un deciso ritorno all’economia mista. Il secondo è che nella nozione di interesse nazionale viene immediatamente incorporato il mantenimento e rafforzamento del rapporto con gli Usa. Ora: un conto è definire in autonomia i propri interessi per poi mediarli ragionevolmente con la realtà (una realtà che, ad esempio, suggerisce di non aprire contemporaneamente due fronti, uno con l’Unione e uno con Washington). Altro è dire che i propri interessi si identificano con la subordinazione agli Usa, e dirlo proprio quando questi vanno elaborando una strategia di duro conflitto con una parte di mondo che costituisce per l’Italia un partner decisivo.
Ciononostante la proposta di Limes resta un rarissimo esempio di indipendenza di giudizio se raffrontata a quanto il ceto politico-mediatico del paese va facendo e teorizzando. La guerra di Libia del 2011, che ha liquidato contemporaneamente una fonte certa di approvvigionamento energetico ed un’esperienza importante di relazione fra stati, è la cartina al tornasole della degenerazione della politica estera italiana, e quindi della nostra politica tout court. Imposta da Inghilterra e Francia, avallata dagli Usa, patrocinata da Napolitano e alla fine accettata anche da Berlusconi (e dai “sovranisti” ante litteram presenti nel suo governo), questa guerra segna il crollo dell’estremo residuo di un’autonoma politica estera dell’Italia.
Dall’altra parte, le frange esterne al blocco bellicista, presenti sia nella Lega che nella sinistra radicale, passando per buona parte del mondo cattolico, hanno fatto sentire molto meno di un tempo l’afflato del pacifismo, della “libertà dei popoli” (per non parlare dell’antiimperialismo), faticando a contenere le pulsioni a condannare il “dittatore” in nome del famoso “mondo libero”. Non del tutto a caso, proprio nello stesso anno la servitù del paese e la subordinazione dei lavoratori venivano ribadite dal governo Monti: anch’esso restato senza uno straccio di decente opposizione.
Insomma: autonomia dei lavoratori, interesse nazionale, politica estera si tengono in un insieme inestricabile. All’estinzione della lotta dei lavoratori corrisponde l’estinzione della sovranità del paese e della sua pur relativa autonomia politica sulla scena internazionale, e non sembra emergere nessun serio progetto capace di ovviare all’una e all’altra cosa. I gruppi dirigenti del paese hanno lasciato soli gli italiani di fronte alle altre nazioni, perché alla nazione hanno voluto rinunciare. Forse soltanto una dura ripresa della lotta di classe (nelle forme inevitabilmente tortuose imposte dalla complicazione della società, dal caos ideale, dall’assenza di riferimenti) potrebbe costringere quel poco che resta dell’intelligenza politica italiana a tentare il riscatto di se stessa e del proprio paese.
[i] M. Porcaro, I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni, Meltemi, Milano, 2020.
[ii] Tesi non nuova, e da poco efficacemente confermata da un importante collaboratore di Carli, cfr. P. Peluffo, “Un vincolo interno per il vincolo esterno”, in Limes, n. 4, aprile 2020.
[iii] Si veda l’intero numero appena citato della rivista, e in particolare l’editoriale e l’articolo di J. Florio, “Scacco matto all’Eurozona”.