“La sanità del Sud non può reggere” è una frase che, nelle sue tante sfaccettature, abbiamo sentito e detto tutti in tempo di pandemia, dall’analista della domenica, ai politici di rilievo del Meridione, agli organi competenti della sanità nazionale.
È chiaro a tutti, insomma, che il Meridione non possa in alcun modo sostenere pressioni mediche straordinarie e che si trovi anzi in difficoltà anche con le loro controparti ordinarie. Lo è ad un livello quasi ontologico: nella coscienza comune è a tutti gli effetti un “fatto della vita” quanto il colore del cielo o la seconda legge della termodinamica.
Quando ci si sente però un pochino pugnaci, e l’ammissione del fatto viene accompagnata da una reale ricerca di una causa e, eventualmente, di una soluzione, ci si imbatte sempre nella stessa parolina magica: “inefficienza”. Una parolina ben conosciuta da chi si interessa di questione meridionale ed economia, spesso fraintesa ed utilizzata per portare avanti le politiche economiche più disastrose degli ultimi decenni.
Il sistema sanitario del Sud è di certo considerabile relativamente “inefficiente”. Anche se la sua spesa medica pro capite è, almeno secondo la Corte dei Conti, generalmente inferiore rispetto alle aree del Centro e del Nord, la qualità dei suoi servizi lo è senza dubbio di più. Ma allora perché i tagli continui (ricordiamolo, sempre fatti nel nome dell’efficienza e della riduzione degli sprechi) dagli anni ’90 ad oggi, che, ricordiamo, non sono di certo stati geograficamente agnostici, non hanno magicamente risolto, o quantomeno non peggiorato, la situazione sanitaria?
Innanzitutto, soprattutto quando si parla di medicina, il primo passo da compiere è districarsi tra i titoli sensazionalistici delle testate giornalistiche, dai preconcetti che, lungi da essere appannaggio esclusivo dei “nordici”, vedono l’associazione del Sud con alcuni idiomi spesso non ben definiti anche nelle teste meridionali, e distinguere i problemi di efficienza dai problemi di efficacia.
Un esempio, i letti per la terapia intensiva: a cosa si interessano giornali, politici e tecnici, al costo per letto o alla quantità effettiva degli stessi letti? La provincia autonoma di Bolzano è la suddivisione amministrativa che spende di più pro capite in sanità della penisola, ma a chi si occupa di sistemi sanitari, specialmente in pandemia, questo interessa quando è anche quella più, insomma, “funzionante”?
I tagli possono sicuramente incrementare l’efficienza (con enfasi sulla differenza tra “possono incrementare” e “incrementano”), ma da soli servono solo a ridurre i posti letto. Al massimo a ridurli in modo meno che proporzionale al risparmio, ma infine sempre con meno posti letto ci si ritrova. Appare evidente quindi che, efficienza o meno, sia imperativo investire maggiormente nella sanità generale ma soprattutto del Sud.
Supponiamo però, di contro, che gli italiani, per un motivo o per l’altro non vogliano spendere di più per una sanità più efficiente per i meridionali, che fare?
Per capirlo, penso sia cruciale ricordare il ruolo di un altro fattore spesso mal definito, il Pil pro capite. L’entità della differenza in ricchezza effettiva del Sud nei confronti del Centro-Nord è tale (il Sud in PPP è sotto del 35% rispetto alla media nazionale) che anche quando la spesa medica per abitante si trova nello stesso ordine di grandezza per via di uno stato centrale unificato, altre logiche devono essere prese in considerazione, in gran parte riportate già nel famoso report annuale di Demoskopika.
La prima è l’incidenza delle mancate cure per motivazioni economiche, che oscilla tra il 9 e il 15% delle famiglie al Sud contro il 2-3% del Centro-Nord. Come ogni sistema sanitario virtuoso in Paesi relativamente poveri (l’esempio di Cuba viene a mente) ci insegna, l’efficienza della sanità dipende in larga parte dalla sua abilità di prevenzione, prevenzione che significa, tra le altre cose, trattare le malattie lievi prima che diventino gravi e che la regione debba, di conseguenza, prendersi l’onere di finanziare operazioni ben più costose.
La seconda, che si lega a doppio filo alla prima, è la quantità di migrazione sanitaria interna alla nazione e le sue conseguenze fiscali in regime di federalismo sanitario. Decine di migliaia di pazienti meridionali si spostano al Nord (in particolare verso Lombardia ed Emilia-Romagna) per le cure mediche, e il conto per queste onerose visite e interventi finisce direttamente nel bilancio della regione di appartenenza, meccanismo che non solo svuota le casse della sanità meridionale ed impone una forte pressione fiscale sulla sua popolazione, ma che, in un meccanismo anti-proporzionale, va a rimpinguare i fondi settentrionali. Si crea così un circolo vizioso di ospedali che chiudono al Sud che causano sempre più “viaggiatori sanitari” che causano la chiusura di altri ospedali al Sud. Questo è chiaramente dovuto non solo alla reale inefficacia della sanità meridionale, ma anche all’esagerazione di tale inefficacia nel pensare comune, esagerazione che però le grandi disuguaglianze economiche stesse rendono comprensibile.
Aggraviamo il tutto con le altre conseguenze di un’economia limitata ed abbandonata, come l’alimentazione meno sana, la mancanza di reti di collegamento sanitarie e non e decine di altre, e il quadro appare abbastanza chiaro. Potremo dichiararci fiduciosi delle capacità del Sud di gestire un’emergenza medica solo quando si sarà investito a sufficienza nelle sue infrastrutture e nella sua economia. Prima di allora ogni giorno sarà ordinaria emergenza ed ogni emergenza sarà ordinaria catastrofe.
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