L'Europa seguirà l'America di Biden nel cambiamento di politica economica? Qualche riflessione sulla risposta alla crisi.
Il virus e la crisi
La diffusione del SarsCoV2, nel gennaio del 2020, ha fatto ripiombare il mondo in recessione. Il nostro paese ha avuto un calo del Pil del 8.8% su base annuale, il rapporto debito/Pil ha superato il precedente record raggiunto nel 1919.
Secondo le ultime stime, con un miglioramento della situazione epidemiologica, dovrebbe esserci un effetto rimbalzo con una crescita stimata intorno al 3%. Ci vorranno anni, però, affinché il Pil ritorni ai livelli pre-crisi.
La crisi di ieri: austerità e stimoli
La crisi causata dal SarsCoV2 ha riportato alla mente la crisi finanziaria del decennio precedente, di cui oggi si può avere una visione più globale.
Nel 2007 esplose il mercato immobiliare americano. Un ammasso di titoli spazzatura che fece andare gambe all’aria le Too Big to Fail, quelle banche americane che, grazie alle politiche di deregolamentazione dei precedenti trent’anni, sembravano destinate a non fallire mai. Presto anche l’Europa si contagiò. Paesi come la Spagna, che nel corso degli anni a una crescita sostenuta ma con molti scheletri nell’armadio, furono tra le più colpite proprio a causa del tracollo del mercato immobiliare.
Da una crisi dei debiti privati si passò ben presto a una crisi dei debiti sovrani. L’Italia, il cui rapporto debito/Pil era secondo solo alla Grecia nell’Eurozona, si trovò costretta a scegliere tra politiche fiscali espansive per sostentare la domanda o il consolidamento dei conti pubblici per rassicurare i mercati finanziari.
La tesi dell’austerità espansiva, all’epoca molto diffusa, sosteneva che solo attraverso una riduzione del peso dello stato e riforme strutturali per flessibilizzare il mondo del lavoro l’economia sarebbe tornata a crescere. La spesa pubblica avrebbe sterilizzato gli investimenti privati, un fenomeno conosciuto come crowding out. Questa tesi era supportata, tra le altre cose, da uno studio di Reinhart e Rogoff, poi criticato per errori metodologici e di calcolo. Secondo l’autore e l’autrice, un rapporto debito/Pil superiore al 90% avrebbe avuto effetti negativi sulla crescita. Lo studio andava a consolidare l’idea “moralistica” del debito. Gli Stati del Nord – gli stessi chiamati oggi “frugali” - consideravano scellerate le politiche di spesa dei paesi mediterranei. Questo pregiudizio, tuttavia, non andava a colpire il vero problema di paesi come il nostro. Il problema italiano non è la spesa pubblica in sé, ma la sua efficacia nello stimolare la crescita.
Proprio su questo punto l’idea dell’austerità espansiva è crollata. In studi successivi, Olivier Blanchard mostrò come i suoi sostenitori avevano sottostimato il valore dei moltiplicatori fiscali. Così facendo, avevano bloccato quelle politiche fiscali espansive in grado di attenuare la recessione.
Al contrario, quella delle politiche fiscali espansive fu la strada percorsa dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Obama. La crisi si innescò durante l’amministrazione Bush, restia a intervenire in maniera decisa. Con la sconfitta dei repubblicani alle elezioni presidenziali del 2008 e l’elezione di Barack Obama, il presidente democratico varò l’American Recovery and Reinvestment Act of 2009. Si trattava di uno stimulus da 800 miliardi che, secondo una platea di economisti, ha mitigato gli effetti della crisi.
A distanza di anni le politiche statunitensi si sono rivelate più efficaci nello stimolare l’economia. Già verso la fine della presidenza Obama, gli indicatori macroeconomici mostravano una situazione ben più rosea rispetto all’Europa, dove invece la crescita era anemica.
L’Europa ha imparato, o quasi
Questa volta l’Europa sembra aver imparato dai proprio errori, almeno in parte. Non appena si è compresa l’entità della crisi, il patto di stabilità che vincola gli stati al consolidamento dei conti pubblici è stato sospeso. Ciò ha permesso anche agli Stati più compromessi dal punto di vista finanziario di fare deficit per sostenere il sistema produttivo e la popolazione colpiti dalla pandemia.
Per far fronte non solo alla crisi pandemica ma alle sfide che ci attendono subito dopo, la commissione europea ha approvato il Recovery Fund. Composto sia da prestiti sia da soldi a fondo perduto, l’erogazione dei fondi sarà vincolata alla presentazione di un piano che affronti tematiche come la crisi ambientale e la transizione digitale.
Vi sono due aspetti positivi del Recovery Fund.
In primo luogo, si tratta di un passo in avanti verso una maggior integrazione europea.
In secondo luogo, vi è un aspetto che si lega al primo: l’attenzione verso una crescita sostenibile, smart, inclusiva. Il Recovery Fund, di fatto, sposa l’idea che non si possa tornare al business as usual. Questo potrebbe avere effetti positivi proprio sull’integrazione europea: in questi anni l’elettorato ha visto nell’Europa un organismo burocratico macchinoso. Se, attraverso i fondi europei del Recovery Fund, l’Europa dovesse rimettersi sulla strada della crescita- una crescita sostenibile, inclusiva e smart– l’opinione nei confronti dell’Europa ne uscirebbe rafforzata.
Un altro strumento fondamentale - almeno per il nostro paese - è stato il SURE, un programma d’aiuto comunitario per sostenere i paesi costretti a fare debito per preservare l’occupazione. Il nostro paese risulta esserne il maggior beneficiario come mostra il grafico sotto riportato.
Anche dal punto di vista monetario l’Europa è stata fondamentale. Dopo l’esitazione iniziale, la Banca Centrale Europea ha portato avanti una politica monetaria non convenzionale con un piano di acquisti da 1,850 miliardi: il Pandemic Emergency Purchase Programme.
Le critiche, a ogni modo, non si sono fatte mancare. Le misure europee sembrano essere troppo timide rispetto alla gravità della situazione. Il Recovery Fund, ad esempio, non sarebbe quel silver bullet che si crede.
Uno studio di Rosa Canelli, Giuseppe Fontana, Riccardo Realfonzo e Marco Veronese Passarella illustra come i fondi del Recovery, spalmati su sei anni, avranno un effetto modesto sulla crescita, totalmente insufficiente a far ripartire il paese dopo la crisi. Per questo, secondo vari economisti tra cui lo stesso Realfonzo, Piketty, Keen, la BCE non può più limitarsi a fare da ombrello agli stati: deve cancellare il debito che detiene.
Questa proposta, tuttavia, non è contemplata dai trattati, come ha ribadito Lagarde. Inoltre, potrebbe far sì che la banca centrale finisca per avere un capitale negativo, possibilità tradizionalmente osteggiata dai banchieri centrali.
Dall’altra parte dell’Oceano*
(*questo paragrafo è stato pubblicato, con modifiche, nella Newsletter Jefferson-Lettere sull'America)
Negli Usa, archiviata la patetica avventura dell’amministrazione Trump, il presidente Biden si è trovato a fronteggiare da una parte una situazione epidemiologica preoccupante, dall’altra una crisi economica che si innesta su problemi con cui il paese convive da decenni.
Nonostante la sua carriera politica nell’ala più centrista dei Democratici, la sua presidenza, per quel poco che si è visto fino a ora, sembra aver sposato una linea decisamente più di sinistra in materia economica. Questo era intuibile fin dalla nomina del Segretario al Tesoro: Janet Yellen. Capo della FED durante l’amministrazione Obama e Trump, Yellen è stata allieva di Tobin e di Stiglitz, entrambi premi Nobel per l’Economia. A livello economico sposa una visione keynesiana: bassi tassi di interesse da parte della Banca Centrale, regolamentazione più stringente, attenzione più alla disoccupazione che ai rischi di inflazione.
A marzo il Congresso ha approvato, non in toto, un mastodontico stimulus da 1900 miliardi (l'American Rescue Plan). Questo pacchetto è stato seguito da un nuovo piano per le infrastrutture (American Jobs Plan) e da uno per le famiglie (American Families Plan) che, diversamente dallo stimulus, saranno finanziati attraverso un aumento delle tasse che andranno a colpire i ceti più abbienti.
Quella che Biden si avvia a portare a compimento è una rivoluzione gentile. Si tratta infatti del primo attacco frontale alla dottrina di Reagan.
Dopo la presidenza Carter, la politica economica degli Stati Uniti, anche durante le amministrazioni democratiche, è stata caratterizzata dai dogmi del neoliberismo e della supply side economics. Per sostenere la crescita economica la ricetta era una sola: ridurre le tasse, deregulation tanto del settore reale quanto di quello finanziario, meno Stato nell’economia. Tra gli assunti fondamentali di questa teoria vi era l’arcinota curva di Laffer: studiando la relazione tra livello di tassazione e le entrate dello Stato, si trova uno e un solo punto di massimo. Stiglitz la descrisse come “una teoria scarabocchiata su un foglio di carta”.
Ormai da anni, però, la teoria economica è scossa dalle fondamenta. L’Economist ha recentemente parlato di una vera e propria rivoluzione nel campo della macroeconomia, in parte dovuta alla crisi del 2008 e ancora di più alla crisi innescata dalla diffusione del SarsCoV2. Proprio il virus ha riportato gli Stati al centro della scena: l’era del “Big Government is Over” è finita. Il piano di Biden ridà centralità non solo allo Stato, ma anche al sostegno alla domanda aggregata: un tema centrale nell’economia keynesiana.
Allo stesso tempo però non cede nemmeno alla corrente più radicale, quella legata a Alexandria Ocasio Cortez. Da anni ormai l’ambiente della sinistra americana flirta con quello della Modern Monetary Theory, che è salita alle luci della ribalta negli ultimi mesi grazie alla pubblicazione di The Deficit Myth di Stephanie Kelton. La teoria si basa su alcuni assunti, fra i quali il seguente: “Uno Stato con valuta sovrana non può mai essere costretta a fare default nei debiti denominati nella sua valuta”. Nonostante alcune idee accattivanti, mutuate dalla tradizione post-keynesiana, la teoria è, secondo economisti come Krugman, ancora debole e priva di fondamento empirico.
La strada imboccata da Biden, quindi, è una rivisitazione moderna e attenta alla crisi climatica della tradizione keynesiana.
Lezioni per l’Europa, la sinistra e tutti noi
L’Europa è qualcosa di sostanzialmente diverso dagli Stati Uniti d’America. L’equilibrio più precario: la larga maggioranza al Parlamento Europeo e in Commissione, gli interessi dei paesi membri rappresentano un ostacolo alla costruzione di un’Europa politica sul modello statunitense. Implementare politiche come quelle di Biden quindi è, stantibus sic rebus, impossibile.
Ma è la sinistra europea - quella afferente al PSE, ai Verdi, al GUE e all’ala sinistra dei liberali - che deve raccogliere la sfida lanciata da Biden. In un’epoca di disuguaglianze, il ripensamento del paradigma economico rappresenta una sfida cruciale per evitare un’egemonia del fronte sovranista reazionario.
I tempi che verranno saranno tempi radicali. In Francia, per citare un esempio, il partito di estrema destra di Marine Le Pen è in testa ai sondaggi del voto giovanile.
Non ci si può illudere che il cambiamento - ad esempio un maggior intervento dello Stato nell’economia - vada a favorire i movimenti progressisti. Come fa notare Gerbaudo, si tratta di un tema che troverà varie declinazioni, compresa quella sovranista reazionaria.
Allo stesso tempo questi mutamenti di politica economica non saranno indolori. Un maggior interventismo statale porta con sé il rischio di istituzioni estrattive: come la Cina o l’Unione Sovietica degli anni ’80.
Allo stesso modo, politiche macroeconomiche come quelle citate prima potrebbero portare a un aumento dell’inflazione. In USA, per esempio, il piano di Biden ha stimolato un dibattito sul ritorno dell’inflazione tra due fronti contrapposti, da una parte Krugman e dall’altra Blanchard.
Il rischio, infatti, è quello di una spirale non solo inflazionistica ma addirittura di stagflazione, come avverte Roubini.
In questo contesto, quindi, la sinistra ha ampi spazi di manovra. Il mondo post-covid richiede di ripensare con radicalità schemi che davamo per assodati. Un cambiamento però che rimane incerto. Per questo le politiche da implementare dovranno tener conto dei rischi che più volte nella storia hanno azzoppato la sinistra.
Ottima analisi di quel che sta accadendo in Economia in epoca post-Covid, manca solo una cosa in questa analisi, certamente non secondaria, che Biden ha intenzione di fare con il supporto di Janel Hallen: aumentare le tasse sulle fasce più abbienti (negli Usa coloro che guadagnano sopra i 400.000 dollari) e sulle multinazionali (global minimum tax al 21%).