Dall’insediamento del governo Meloni, a ottobre dello scorso anno, la maggioranza ha lanciato una dura battaglia contro il Reddito di cittadinanza, fino al recente Decreto Lavoro, che ne ha decretato la sostanziale abolizione.
Si era cominciato con la prima legge di bilancio a firma Giorgetti, approvata a fine dicembre 2022. Per chi era considerato occupabile (cioè gli under 60 abili al lavoro e senza disabili, minorenni o over 60 a carico) i mesi di beneficio massimi erano stati ridotti a sette. Ai minori di 30 anni che non avessero completato gli studi e non fossero iscritti a un percorso di formazione l’erogazione del Reddito era stata direttamente sospesa.
Con il Decreto Lavoro, convertito dalle Camere nei giorni scorsi e promulgato il 3 luglio in Gazzetta Ufficiale, il governo ha voluto mettere la pietra tombale sulla misura. Al suo posto arrivano due nuovi strumenti: "Assegno di inclusione" e "Supporto per la formazione e il lavoro" (Sfl). Il raddoppiamento e il cambio di nome non sono solo cosmesi, ma indicano un approccio radicalmente diverso dell’esecutivo. Di nuovo, la distinzione è tra chi è occupabile e chi non, secondo i criteri che abbiamo visto sopra.
Agli occupabili è destinato il Supporto. Per accedervi serve un ISEE inferiore a 6mila euro, contro i poco più di 9mila richiesti per Reddito di cittadinanza e Assegno di inclusione. L’importo erogato con questa misura scende a 350 euro al mese, per una durata massima di un anno. Questi tagli porteranno lo Stato a spendere, nel 2024, circa un miliardo e mezzo per il Supporto. A questi si aggiungono i 5 miliardi e mezzo per l’Assegno.
Sommando, la cifra si assesta poco sotto i 7 miliardi: 800 milioni in meno di quanto stanziato nel 2023 per il reddito di cittadinanza, a sua volta un miliardo in meno della spesa per la stessa misura nel 2022. In totale, quindi, queste norme permettono allo stato di risparmiare circa due miliardi, togliendo soldi a una constituency che evidentemente Meloni considera più vicina ad altri partiti, come il Movimento 5 Stelle.
Per una fascia di elettorato che viene punita, un’altra viene premiata
Se il Reddito di cittadinanza permetteva, in via almeno teorica, di rifiutare un lavoro in nero o sottopagato, con il Supporto questa possibilità sparisce: pensare di vivere con 350 euro al mese, se non si ha un sostegno da parte della famiglia, è praticamente impossibile. A questo si aggiunge l’obbligo di accettare la prima offerta di lavoro a tempo indeterminato e pieno, indipendentemente dalla distanza dal luogo di residenza, pena la decadenza dal sussidio. Una norma espunta dal testo della legge di bilancio ma rientrata dalla finestra nel decreto di maggio.
Questi interventi inevitabilmente favoriranno quei datori di lavoro che offrono stipendi da fame e non dovranno più preoccuparsi di competere col Reddito dal punto di vista salariale. Loro sì, una constituency a cui la maggioranza tiene particolarmente.
Da questo punto di vista, il taglio del Reddito si inserisce in un disegno più vasto: la liberalizzazione dei voucher, il tentato affievolimento della lotta alla piccola evasione, le norme che favoriscono la partita Iva piuttosto che l’assunzione. Tutte misure a vantaggio delle microimprese scarsamente produttive, che spesso sopravvivono sul mercato grazie al nero e al basso costo del lavoro.
Dietro le scelte politiche, una certa idea di disuguaglianza
C’è poi un’altra motivazione a spingere le azioni della maggioranza: quella politica. Secondo Norberto Bobbio, a distinguere destra e sinistra c’è un’idea differente di cosa causi la disuguaglianza. La sinistra crede che la maggior parte delle diseguaglianze sia sociale e, quindi, eliminabile; la destra, invece, ritiene che sia ascrivibile alle qualità del singolo, e dunque non eliminabile (o almeno non dalla politica).
Tenendo in mente questa idea, non stupirà più di tanto che il nuovo governo – il più a destra della storia repubblicana - si sia lanciato contro il Reddito di cittadinanza: se la povertà di una persona dipende solo dal suo atteggiamento, una misura di sostegno economico è immeritata o addirittura controproducente, perché priva quella persona di un pungolo che la sproni al miglioramento personale. Da qui le continue invettive contro i percettori del Reddito, dipinti come nullafacenti addormentati sui divani di casa. Anche da questo punto di vista, la scelta di sostituire il Reddito con il Supporto si inserisce in un contesto più vasto: basti pensare all’avversione alla progressività fiscale o l’enfasi sul merito nel nuovo nome del Ministero dell’istruzione.
Poco importa se sempre più studi confermano come la disuguaglianza economica non dipenda da un’ipotetica volontà di mettersi in gioco dei singoli individui. Un paper molto citato dell’Ocse1, ad esempio, spiega che la relazione tra lo status socioeconomico dei genitori e quello dei figli è forte in praticamente tutti i paesi per cui l’evidenza è disponibile. Tradotto: se sei ricco, quasi sempre è perché i tuoi genitori lo erano.
Insomma, l’ascensore sociale da solo non funziona: va piuttosto aiutato con interventi mirati. Non a caso, i paesi con un generoso Stato sociale sono anche quelli dove la disuguaglianza intergenerazionale è più bassa: ironicamente, è più facile vivere il sogno americano in Danimarca che negli Stati Uniti. E se l’ascensore deve essere accompagnato, parlare di merito senza fare niente in tal senso significa prospettare uno scenario in cui solo chi parte già avvantaggiato arriva (o meglio, rimane) in alto. Insomma, credere che la disuguaglianza sia una questione in fondo individuale significa ignorare la realtà dei fatti.
Ma il Reddito di cittadinanza funzionava?
Rimanendo nella metafora, più che aiutare a salire, il Reddito di cittadinanza era stato pensato per aiutare le persone a non scendere troppo in basso. Funzionava? Se la sua introduzione ha abbassato l’indice di Gini (la misura principale della diseguaglianza reddituale), il Reddito da solo non era sufficiente né tantomeno perfetto.
Secondo un report della Caritas, ad esempio, il 56% delle persone che nel 2021 si trovavano in condizioni di povertà assoluta in Italia non aveva comunque accesso alla misura. Tra i motivi, i requisiti estremamente stringenti richiesti agli extracomunitari per farne domanda. Su questo il governo è intervenuto nel decreto di maggio, abbassando gli anni di residenza minimi necessari da 10 a 5: decisione non spinta da un improvviso afflato di bontà, ma dal fatto che su questa soglia pesassero le scuri della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Purtroppo non si può dire l’esecutivo sia stato altrettanto efficiente nell’agire sulle altre ragioni individuate dalla Caritas per spiegare la copertura relativamente scarsa del Reddito. Rimane, ad esempio, uno stringente requisito patrimoniale per beneficiare dell’Assegno di inclusione, che addirittura diventa ancora più severo quando si tratta del Supporto. Non solo non se ne capisce il senso, ma questa soglia priverà molti di un sostegno necessario: non sempre, infatti, povertà di reddito e povertà di capitale coincidono.

Un discorso simile vale per la scala di equivalenza. Già col Reddito di cittadinanza si era detto che la scala adottata sfavoriva le famiglie numerose, cioè che all’aumentare del numero dei membri della famiglia l’assegno saliva meno di quanto sarebbe stato necessario. Il problema non viene risolto con le nuove misure del governo: la scala diventa più generosa in presenza di disabili, ma meno per maggiorenni e figli minori. Una scelta discutibile, considerando che questi nuclei famigliari sono particolarmente a rischio povertà.
Che effetti avrà l'abolizione del Reddito?
Non solo il governo non interviene su queste criticità, ma, secondo Repubblica, il decreto di maggio finirà per privare 200mila famiglie di sostegno economico: una direzione contraria a quanto indica da tempo l’Europa. Dal 1992 in poi, infatti, le istituzioni dell’Unione si sono espresse tre volte per spingere gli Stati membri ad approvare un reddito minimo. Il nostro Paese è stato uno degli ultimi a farlo, e ora sembra tornare indietro sui suoi passi. Le ultime raccomandazioni proposte dalla Commissione, infatti, mirano a sottolineare l’importanza di un reddito minimo stabilito con una metodologia trasparente, che sostenga adeguatamente il percettore e aiuti categorie a rischio come i giovani. Nessuna di queste sembra essere stata recepita nel disegnare il Supporto.
È anche facile prevedere che l’idea del governo di spingere le persone al lavoro con un supporto meno generoso difficilmente funzionerà. Gli ex percettori del Reddito sono spesso persone ai margini. Dagli ultimi dati ANPAL disponibili (giugno 2022), il 72% dei percettori del Reddito di cittadinanza era soggetto alla sottoscrizione del Patto per il lavoro. Di questi, circa il 70% non superava come titolo di studio la licenza media, e solo poco più del 20% aveva lavorato più di 12 mesi nei tre anni precedenti.

Come nota Cristiano Gori, ordinario di politiche sociali a Trento, “gli utenti vengono definiti […] senza alcuna attinenza con le loro competenze e la loro storia lavorativa. Nessun paese adotta una definizione di occupabilità priva di qualunque riferimento alle caratteristiche dei soggetti interessati”. Di fronte a una tale platea, la soluzione del governo è stata semplicemente legare la percezione del Supporto all’iscrizione su una piattaforma di ricerca lavoro.
Ma per Maurizio Del Conte, ex presidente ANPAL, siamo di fronte a una resa delle politiche attive del lavoro. Spiega Del Conte: “Si lascia la persona fondamentalmente da sola a iscriversi alla piattaforma e poi a consultarla per trovare un percorso. Qui parliamo di persone molto fragili, non consapevoli del loro skill gap, non in grado di orientarsi nel mercato della formazione, di scegliersi gli enti e di autoattivarsi. Questo percorso sembra immaginato per un giovane brillante che sa come muoversi sulle piattaforme e i vari provider di lavoro. Non è questo il caso purtroppo”.
Più che da primo maggio il decreto lavoro del governo sembra da 8 settembre. La resa delle politiche attive è servita.
Ne ho parlato con @valconte su A&F @repubblica di oggi. pic.twitter.com/9TJCKj1r2D— maurizio del conte (@maudelconte) May 1, 2023
Un altro professore, l’economista Luigino Bruni, definisce “disoccupati cronici” questi percettori marginalizzati del Reddito. Bruni sottolinea come la deprivazione economica sia solo una delle facce della povertà:
"Chi è povero lo è per una mancanza cronica di capitali educativi, sociali, professionali, famigliari, sanitari, emotivi, relazionali, e questa mancanza di capitali (di stock) si manifesta in una mancanza di flussi (reddito, denaro)".
Pensare la povertà
Gli economisti riassumono questa teoria spiegando che la povertà è multidimensionale. I suoi effetti arrivano anche al nostro cervello: lo stress generato dalla povertà può causare ansia e depressione e addirittura offuscare le funzioni cognitive allo stesso modo di una notte insonne.
Bisogna stare attenti a non invertire il nesso causale: la povertà non è una colpa. Le persone non sono povere perché incapaci di fare le scelte corrette o di lavorare duro, come vorrebbe una certa vulgata. È però vero il contrario. Eldar Shafir è uno scienziato comportamentale che studia la scarsità e i processi decisionali. In uno dei suoi lavori, riassume così la questione: in situazioni normali, le inclinazioni personali sono rilevanti nel condizionare il modo in cui pensiamo, ma, mano a mano che il contesto diventa più difficile, le differenze individuali si fanno meno rilevanti.
In povertà, le persone devolvono una parte sostanziale delle loro risorse mentali pensando a come gestire quelle fisiche, che sono insufficienti. In una tale situazione, continua Shafir, si perde visione a lungo termine, è più facile distrarsi e scoraggiarsi. La povertà è insomma una trappola prima di tutto psicologica: un sostegno al reddito non è solo una questione di compassione, ma anche il primo passo per aiutare le persone a stare meglio e prendere decisioni migliori.
Questo è un aspetto spesso ignorato nel dibattito pubblico, eppure confermato dagli studi e dati, anche nel nostro Paese. Un’indagine dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche ha rilevato che il Reddito di cittadinanza ha portato importanti benefici di carattere psicologico ai suoi fruitori: il 64% dichiara di avere maggior fiducia nelle istituzioni, il 63% di aver avuto più tempo per la cura dei figli, il 61% di aver migliorato la sua condizione economica e il 54% percepisce un miglioramento della sua salute psico-fisica.
Il governo segue una retorica dura a morire
Nonostante la scienza aiuti a comprendere i meccanismi alla base della povertà, la retorica sulla questione pare rimasta ferma a due secoli fa. I commentatori televisivi per cui chi prende il Reddito di cittadinanza non si impegna abbastanza non sono troppo dissimili dagli intellettuali inglesi dell’‘800. Anche loro davano la colpa della deprivazione economica a fattori caratteriali, in quel caso l’inclinazione a bere o la mancanza di religiosità. E anche la soluzione adottata sembra non essere cambiata di troppo.
Nel 1834, il Regno Unito adottò le nuove Poor Laws, leggi di assistenza agli indigenti molto più severe di quelle che le precedevano. Come spiega lo storico Donald Sassoon:
La norma “costrinse i poveri ad accettare di essere impiegati nei workhouse, ricoveri di mendicità le cui condizioni erano tali da rendere accettabile anche il lavoro in fabbrica. Allora come oggi, condannare i poveri a una miseria ancora più nera se non avessero accettato un lavoro qualsiasi era considerato un modo per ridurre la povertà” 2.
Ma, di fronte ai dati che abbiamo analizzato, sembra evidente che un simile approccio sia destinato a fallire. Non si può dire che il governo non avesse alternative: il precedente esecutivo aveva incaricato una commissione di sette esperti, guidati dalla sociologa Chiara Saraceno, di fornire delle linee guida in tal senso. Solo alcune delle proposte di Saraceno sono state accolte. La maggioranza è rimasta lettera morta, o addirittura si è intervenuti in senso contrario a quanto consigliato.
Ancora una volta, la politica ha scelto di andare avanti con un intervento miope, accompagnato da una retorica mortificante e smentita dai fatti. Un modo di fare cassa facilmente strizzando l’occhio al proprio elettorato, ma che con ulteriori difficoltà economiche alle porte rischia di ritorcersi velocemente contro la maggioranza.