Nell'anno del Signore 2020, con una decisione che per un Paese civile dovrebbe risultare assolutamente scontata, la Corte Suprema degli Stati Uniti, concepita una pronuncia che ha necessitato la redazione di oltre centosettanta pagine, ha espresso un principio in materia di diritti civili e di diritto del lavoro: è discriminatorio licenziare una persona per il proprio orientamento o identità sessuale.
La Corte ha esaminato il caso di tre licenziamenti: un istruttore di paracadutismo licenziato in quanto omosessuale; un coordinatore di servizi di assistenza all’infanzia licenziato per lo stesso motivo; un direttore di agenzia di pompe funebri licenziato per via del suo cambio di sesso.
Oltre alla corposità della sentenza, appare davvero singolare il fatto che la pronuncia non sia il frutto di un accordo unanime: tre giudici su nove erano contrari al riconoscimento della natura discriminatoria del licenziamento, nel caso in cui esso sia legato all’orientamento sessuale del lavoratore.
Altro elemento significativo è rappresentato dal fatto che sia stato Neil Gorsuch a scrivere le motivazioni della posizione di maggioranza: parliamo di un giudice di estrazione ultraconservatrice e scelto proprio da Donald Trump.
La Corte ha ritenuto in definitiva discriminatori i licenziamenti in oggetto, ai sensi di quanto prescritto dal Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, col quale si vietano licenziamenti discriminatori dovuti al sesso della lavoratrice o del lavoratore:
an employer who fires an individual for being homosexual or transgender fires that person for traits or actions it would not have questioned in members of a different sex. Sex plays a necessary and undistinguishable role in the decision, exactly what Title VII (of the Civil Rights Act of 1964) forbids.
In parole povere le tesi contrapposte erano due: la maggioranza, sposando la tesi “evoluzionista”, ha inteso interpretare estensivamente il termine “sesso”, dal momento che l’orientamento sessuale è in qualche modo riconducibile alla medesima sfera; la minoranza si è asserragliata dietro l’approccio “originalista” e ha concluso che la sentenza scalza il Congresso, unica istituzione legittima e legittimata a decidere in merito al tema, dall’esclusività del potere legislativo.
Al di là di quanto possa accanire la disquisizione giuridica, che da alcuni può comprensibilmente essere considerata onanismo intellettuale, qui rileva enormemente il fatto che non sia stata pacifica la condanna di un licenziamento discriminatorio per orientamento sessuale: colpisce enormemente come i giudici della Corte Suprema americana si dimostrino divisi su circostanze che dovrebbero essere invece risolte in poche battute e in scioltezza, pur tenendo in considerazione il fatto che negli USA si adotti il modello common law (dove le sentenze e i precedenti giuridici hanno un’importanza maggiore rispetto alla codificazione scritta).
Malamente mascherata da argomentazioni di chiave giuridica, si consuma una battaglia avvitata attorno a diverse visioni dei diritti civili e, soprattutto, del diritto del lavoro: non è un caso che la minoranza indichi in un soggetto politico, il Congresso appunto, il luogo entro cui sciogliere il dissidio, quasi che la discriminazione legata all’orientamento sessuale possa essere compatibile con i principi generali dello Stato.
La verità è che in America il Congresso non è tuttora in grado di affermare quanto sancito all’articolo 15 del nostro Statuto dei Lavoratori, laddove si prescrive che “è nullo qualsiasi patto od atto diretto (…) licenziare un lavoratore, discriminarlo (…) [per] causa (…) politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
L’articolo 15, che ha visto l’introduzione esplicita della discriminazione legata all’orientamento sessuale con una modifica del 2003, è posto nel Titolo II dello Statuto, intitolato Della Libertà Sindacale: ulteriore prova di come certi diritti, per quanto individuali e personali, costituiscano la necessaria e irrinunciabile premessa alla partecipazione democratica di ogni cittadino alla vita dell’Italia.
La restaurazione, il consolidamento e l’estensione dei diritti del lavoro rappresentano la via da intraprendere e percorrere per meglio servire la vocazione democratica del nostro Paese, viva più che mai nelle parole incise nella nostra Costituzione.