Il tessuto urbano di Skopje è confuso, frammentato. L’eredità jugoslava, con i grandiosi edifici in stile brutalista progettati per la ricostruzione della città dal visionario architetto giapponese Kenzo Tange e da Janko Konstantinov dopo il disastroso terremoto del 1963, sta frettolosamente scomparendo sotto pietosi strati di cartongesso che scimmiottano una confusa idea di neoclassicismo dal gusto kitsch, con palazzi governativi che somigliano a templi e pietose copie di galeoni ormeggiati sulle rive del Vardar ad ospitare ristoranti.
Quello che non fece il sisma, insomma, ha fatto in pochi anni il governo macedone, e la distruzione è forse ben più profonda di quella operata dalla natura, poiché colpisce l’identità di un popolo e l’idea stessa di spazio pubblico. La sensazione, camminando per le strade, è quella di trovarsi in un gigantesco e grottesco parco giochi ad uso di un turismo consumista, in spazi totalmente disinteressati ad un’idea di funzione pubblica, senza un reale progetto architettonico o urbanistico.
Sulle strade che tagliano il paese sono ancora ben visibili i cartelloni elettorali per la recente tornata, avvenuta a luglio, in piena pandemia. Il faccione di Zoran Zaev, leader dei socialdemocratici eletto premier, campeggia sopra l’obamiano “можеме!”, “possiamo!”, in un goffo tentativo di rendere di reale interesse collettivo l’unico concreto obiettivo che il partito si pone, l’ingresso nell’Unione Europea.
L’Unione socialdemocratica ha comunque ottenuto il 36% dei voti, di poco sopra i conservatori di VMRO-DPMNEdi Hristijan Mickoski, fermi al 34,5%. In un paese che conta una minoranza albanese al 25% della popolazione, stanziati maggiormente nell’Ovest del paese, l’appoggio dei partiti albanesi per formare un governo è essenziale.
Ed è ciò che è successo anche questa volta con il DUI, l’Unione democratica per l’integrazione, in una riedizione del governo che portò il paese, nel giugno 2018, a siglare gli accordi di Prespa con la Grecia al fine di ottenere il via libera finale all’ingresso nell’UE e nella NATO, su cui pesava il veto ellenico per via della vexata qaestio sul nome, con la Macedonia costretta a cambiarsi in “Macedonia del Nord” in ragione di una disputa antica sulla definizione geografica di Macedonia che nasconde in realtà, nemmeno troppo bene, velleità scioviniste di Atene e timori di rivendicazioni territoriali sulla strategica zona di Salonicco.
Ma la vera sorpresa alla Sobranje è stata la crescita di Levica, letteralmente “la Sinistra”, al 4,17%, eleggendo due parlamentari. Levica è un partito giovane, nato nel 2015 nella temperie della cosiddetta “rivoluzione colorata”, imponenti sollevazioni popolari contro il corrotto ed autoritario governo di Nikola Gruevski dell’VRMO, vero e proprio padre-padrone – ora in asilo politico da Orbàn – della vita politica macedone per oltre un decennio e colpevole, tra le altre cose, del saccheggio estetico ed economico di Skopje con il suo folle ed autocelebrativo progetto di “Skopje2014”.
L’exploit di un partito come Levica, che ha come capisaldi la giustizia sociale, la redistribuzione, l’internazionalismo e soprattutto l’antimperialismo, è un dato importantissimo nel 2020, anno in cui la Macedonia, ora ufficialmente Macedonia del Nord, è l’ultimo paese ad aderire alla NATO, ed in un momento politico in cui un sostanziale bipolarismo, solo puntellato dalle rivendicazioni settarie albanesi, ha appiattito il dibattito su posizioni dogmaticamente filoatlantiste ed europieste.
Leader del partito è Dimitar Apasiev, giovane professore di diritto romano all’Università Goce Delčev di Stip, che ho incontrato nella cittadina balneare di Ohrid, sull’omonimo, splendido lago.
“Nonostante l’alto numero di irregolarità e l’inquietante attacco informatico ai server della Commissione elettorale di stato, e malgrado una legge iniqua, siamo più che soddisfatti dei risultati ottenuti alle elezioni e della crescita giorno dopo giorno dei consensi per Levica”, spiega Apasiev. Il recente ingresso nella NATO è visto come una minaccia alla già precaria stabilità del paese e soprattutto al diritto del popolo macedone alla propria autodeterminazione.
“La NATO”, continua infatti Apasiev, “non è solo un cartello militare che funge da estensione dell’imperialismo americano, bensì è anche un apparato di propaganda per la diffusione dell’ideologia neoliberale".
L’immediato inglobamento nella sfera d’influenza americana della neonata Repubblica di Macedonia agli inizi degli anni ‘90, infatti, con l’ingresso del paese nel programma “Partnership for Peace” risalente già al 1995, ha comportato un’adesione pressoché incondizionata ai dettami del neoliberismo da parte di entrambi i partiti che hanno guidato il paese, con una corruzione dilagante, una deindustrializzazione massiccia e delle privatizzazioni selvagge che hanno avuto come conseguenza una disoccupazione al 30% con punte del 40% agli inizi degli anni 2000 [1].
Lo smembramento della Jugoslavia ad opera delle bombe NATO nella regione, con la distruzione del cervello della Federazione in Serbia e la creazione del protettorato-Kosovo al confine settentrionale, è stato seguito da crescente miseria sociale. Dall'indipendenza fino ad oggi, nel cosiddetto processo di transizione si è verificata la privatizzazione del capitale sociale. In questo processo di saccheggio della proprietà pubblica da parte delle élite politiche, si è compiuta la svendita di parti del sistema economico che sono vitali per la stabilità, la prosperità e la forza di ogni stato, con il vicino capitalista greco a fare la parte del leone – Stopanska Banka, la più grande banca nazionale, è stata acquisita dalla National Bank of Greece, così come le grandi raffinerie OKTA comprate dalla Hellenic Petroleum e le cave di marmo di Prilep dalla FHL Kiriakidis – seguito da pesanti acquisizioni tedesche nell’ambito delle telecomunicazioni, con la Makedonski Telekom acquisita da una sussidiaria ungherese della Deutsche Telekom, e austriache in quello dell’elettricità, controllando la società di distribuzione elettrica nazionale EVN.
Sullo sfondo, un tasso di disoccupzione giovanile oltre il 40% [2] negli ultimi anni e un incremento, nel periodo di crisi tra il 2008 e il 2012, del divario tra lo stipendio netto più alto e quello medio che è aumentato di 69 volte; nello stesso periodo, il numero di famiglie che ricevono sussidi sociali è diminuito del 40 percento. Il sottosviluppo economico convive, invece, con un’ elevata redditività delle banche.
Di fronte alla nuova, pacchiana sede del governo a Skopje, la bandiera macedone sventola, significativamente, tra quella della NATO e quella europea. Proprio l’integrazione nella comunità europea non sarebbe osteggiata da Levica se l’Unione Europea non fosse solamente un consorzio bancario a favore di pochi:
“Levica è per la cooperazione tra le tutte le nazioni europee, e inoltre per la completa cooperazione internazionale, ma basata sul rispetto reciproco, sul vantaggio reciproco e sulla fiducia. Purtroppo abbiamo visto nel processo di cambio del nome macedone che la burocrazia europea non si basa su questi principi”.
L’Unione Europea è strutturata in una divisione classista tra “centro” e “periferia”, e la Macedonia, al momento, si trova qui, all’estrema periferia: un bacino di manodopera a basso costo alle porte d’Europa, dove il salario minimo si ferma a poco più di 200 euro [3] e dove le grandi marche dell’industria tessile sfruttano una manodopera sommersa con salari da fame che oscillano tra i 100 e 150 euro mensili [4], cifre inferiori a quelle cinesi, favoriti anche da una deregolamentazione e da un abuso strutturale del lavoro di genere, contando che il 90% del settore è di sesso femminile.
“Non c’è dubbio che non esista nemmeno una politica estera sovrana in Macedonia, dal momento che è dettata interamente dall’ambasciata USA a Skopje. Levica è estremamente contraria all’ingresso della Macedonia nella NATO, che in quanto entità sovranazionale ha esercitato fortissime pressioni sia sulla nostra politica domestica sia sulla burocrazia europea per accelerare il processo di assimilazione e le sciovinistiche richieste greche sul cambio incostituzionale del nome del paese”.
Quello della NATO per la regione macedone è un interesse totalmente geopolitico e strategico, dal momento che a livello di cooperazione militare il paese ha da offrire all’alleanza ben poco: la spesa militare per il 2019 è stata dell’appena 1,2% del PIL, pari a “soli” 150 milioni di dollari [5], mentre a livello di infrastrutture c’è solo la base di Krivolak già ampiamente utilizzata dalla NATO durante la missione in Kosovo. Ciò che fa gola è la posizione geografica della Macedonia, vero e proprio “nodo gordiano” dei Balcani sin dalla disgregazione dell’Impero Ottomano nel XIX secolo, che vide l’inizio di una continua partita a scacchi tra le potenze imperialiste europee per il controllo della regione, che hanno fomentato i nazionalismi in un divide et impera funzionale al controllo straniero.
Dopo l’esperienza unitaria e federativa della Jugoslavia socialista, gli scontri tra le borghesie nazionali delle repubbliche federali nel corso degli anni Novanta hanno portato alla sanguinosa frammentazione della Federazione jugoslava in una serie di Stati nella maggior parte dei casi privi di reale sovranità, di reale indipendenza politico-economica e, in alcuni casi, anche di reale identità.
L’assenza di unità risponde alle necessità egemoniche nordatlantiche di controllo di una zona intermedia tra il Vicino Oriente, il Mar Nero ed il Mar Adriatico, terminale naturale per il trasferimento di risorse energetiche dall’Asia centrale e dal Medio Oriente fino alle porte dei consumatori europei. Gran parte del conflitto è stato recentemente combattuto sul terreno della costruzione dei gasdotti, con il ruolo fondamentale del progetto TAP (Trans-Adriatic Pipeline), parte finale del “Southern Gas Corridor”, che ricalca incredibilmente l’antica via romana Egnatia dei commerci, per il trasporto del gas naturale dall’Azerbaijan all’Europa Meridionale, sostenuto dagli USA per bypassare il quasi monopolio russo sul gas europeo, che si posiziona in contrapposizione al Turkish Stream progettato proprio dalla Russia. Un classico esempio di scontro interimperialistico che stritola i popoli dei paesi con l’esplosione delle sue contraddizioni.
Quella di Levica è una battaglia per la giustizia sociale in un paese economicamente smembrato e tenuto in uno stato di sottosviluppo artificiale, che assume importantissimi risvolti geopolitici nel momento in cui la democratizzazione della vita sociale di cui il partito si fa portavoce si traduce in un rifiuto delle ingerenze straniere che da sempre hanno come mira la “balcanizzazione” (imperativo geostrategico degli USA secondo Brzezinski) della regione al fine di controllarla.
“La posizione di Levica”, conclude Apasiev, “sulla collocazione geopolitica della Macedonia è basta interamente sul principio dell’antimperialismo”. Qualche giorno prima della stesura finale di questo articolo, l’8 settembre, ricorreva la festa per l’indipendenza della Repubblica macedone. Un’indipendenza, purtroppo, più formale che sostanziale,privata del diritto all’autodeterminazione del popolo macedone, con una classe lavoratrice divisa costantemente da faglie etniche, sociali, politiche, linguistiche e una classe dominante predatrice e corrotta che smantella servizi per svendere il paese e fomenta, a proprio uso e consumo, un nazionalismo divisorio.
“Il nazionalismo borghese aggressivo, che offusca, inganna e divide i lavoratori in modo che la borghesia li possa condurre per la cavezza: questo è il fatto fondamentale di oggi” [6], diceva Lenin nel 1913 e purtroppo diciamo noi oggi, nel 2020.
[1] https://www.macrotrends.net/countries/MKD/north-macedonia/unemployment-rate
[2] https://www.theglobaleconomy.com/Macedonia/youth_unemployment/
[4] https://www.retaildetail.eu/en/news/fashion/exploitation-textile-workers-macedonia
[5] https://knoema.com/atlas/North-Macedonia/Military-expenditure-as-a-share-of-GDP
[6] V. Lenin, “Osservazioni critiche sulla questione nazionale”, 1913