C’è un aspetto centrale nella storia del capitalismo moderno, di cui forse non cogliamo appieno l’importanza nel senso comune. È il passaggio di testimone, al vertice delle grandi aziende mondiali, dalla vecchia figura dell’imprenditore a quella del manager. Lo abbiamo studiato in un testo di Alessandro Casiccia, già professore di sociologia all’Università di Torino: Il trionfo dell’élite manageriale. Oligarchia e democrazia nelle imprese.
È un libro dei primi anni Duemila, quando il tessuto industriale italiano iniziava a esplodere ingloriosamente per scandali finanziari abnormi (la Parmalat, la Cirio, la Fiat sull’orlo del fallimento). Sembra una vita fa, ma forse le cose non sono cambiate in modo così clamoroso da allora.
La transizione fra imprenditori e manager studiata da Casiccia è in realtà un fenomeno antico, analizzato già a partire dal primo Novecento, quando i manager erano chiamati “tecnici”.
Molta critica sociale, in particolare di matrice marxista, ha guardato con diffidenza a questi studi. Il manager e l’industriale non sarebbero troppo diversi: entrambi nemici di classe. Tuttavia, quello che propone Casiccia non è un giudizio di valore sulla preferibilità politica di manager o imprenditori. L’autore, piuttosto, registra analiticamente un cambio oggettivo di élite, che ha determinato in seno al capitalismo una mutazione sostanziale nello stile, nell’ideologia, nella gestione.
Le origini
Casiccia parte nella sua analisi dagli studi di Thorstein Veblen, sociologo ed economista statunitense. Già nei primi decenni del Novecento, Veblen rilevò il passaggio dalla guida dell’imprenditore a quella del tecnico qualificato, un organizzatore dei processi produttivi di formazione ingegneristica.
Erano gli anni in cui si affermava il taylorismo, e il capitalismo si ammantava di una razionalità algida, perfetta e calvinista, come quella analizzata da Max Weber. Il vecchio capitalismo dell’imprenditore era troppo istintivo, troppo affidato all’azione del momento, troppo sentimentale, poco pianificato. Insomma, troppo poco scientifico. Taylor aveva spiegato che la massimizzazione del profitto derivava da un’organizzazione scientifica del lavoro. Quindi, bastava affidarsi ad un tecnico che la sapesse organizzare, e il profitto al massimo grado era assicurato.
Per quanto questa visione possa richiamare alla nostra immaginazione lo stakanovismo coatto imposto ai lavoratori di Amazon, Veblen vedeva in questa organizzazione tecnocratica del lavoro un orizzonte perfino emancipatorio per gli operai. Lavorando meglio si sarebbe lavorato meno, liberando tempi nuovi di vita, socialità, creatività. In certi testi scriveva perfino del soviet dei tecnici.
Questa visione ottimistica dell’avvento di un’élite tecnocratica ai vertici delle aziende non ha tardato molto tempo ad essere smentita dalla realtà, anche se, in alcuni circoscritti casi, l’utopia vaticinata da Veblen è stata quantomeno sperimentata.
D’altra parte, è curioso notare come, nello stesso periodo di Veblen, due altri importanti economisti, Joseph Schumpeter e Werner Sombart, svolgessero analisi di segno completamente opposto.
Di fronte all’avvento della tecnocrazia organizzata, Schumpeter rimpiangeva la figura dell’imprenditore, dotato di creatività, propensione al rischio, leadership e attitudine alla decisione non calcolata. La figura dell’imprenditore nei testi di Schumpeter diventa quasi un archetipo, come l’Operaio in quelli di Ernst Junger - un misto di carisma weberiano e superomismo nicciano, l’eroe della nostra epoca privata di epica.
In Sombart, invece, vediamo una critica della piega presa dal razionalismo del capitalismo moderno. A suo giudizio, nella sua versione originaria ed embrionale, il capitalismo aveva un anelito alla libertà, all’emancipazione da vecchie regole, all’individualismo totalmente istintivo e perciò irrazionale, persino ancestrale. Sombart avrebbe poi rintracciato il ritorno della vitalità del capitalismo nelle origini nel nazismo, concludendo così la sua carriera in modo infausto e attestandosi su scritti senili retorici e mediocri.
In America il dibattito su questi temi era infuocato al punto che negli anni Trenta comparve un movimento di avanguardia intellettuale, chiamato Technocracy, che salutava nell’avvento degli ingegneri una classe elitaria di lavoratori. Essi avrebbero dovuto appropriarsi della gestione delle aziende, strappandole a imprenditori sempre più anacronistici e parassitari, per restituire la piena organizzazione ai lavoratori nella loro totalità, in una perfetta coincidenza di apogeo tecnico-organizzativo e emancipazione sociale. Il bersaglio polemico di questo movimento era la vecchia classe di imprenditori, affarista e corrotta, e i politici loro conniventi.
Casiccia nota che, nello stesso periodo, nacque in ambito agricolo un altro movimento antipolitico, di segno opposto, in cui la stessa critica alla politica corrotta e affarista si declinava però in un elogio della vecchia America rurale, contadina e pretecnologica. A chi scrive pare che questa contrapposizione tra due Americhe, irriducibili ma con in comune solo l’avversione per la politica istituzionale, racconti molto bene anche gli Stati Uniti di oggi.
La partecipazione come risposta
Anche in Europa gli anni Trenta furono un formidabile laboratorio di indagine su proposte sociali radicali. Schiacciati tra l’incubo del dirigismo sovietico e quello del capitalismo statunitense, che sembrava destinato a collassare dopo il ’29, i paesi europei formulano ipotesi di ricerca su nuove forme di organizzazione operaia, su un nuovo interventismo dello stato in economia (sulla scorta delle politiche keynesiane) e sulla partecipazione diretta degli operai nelle aziende.
Su tutte, quelle che troneggiano sono probabilmente le riflessioni di Karl Polanyi sulla “democrazia industriale”: un piano in cui i dirigenti d’azienda fossero votati dagli stessi operai, dopo discussioni libere sulle loro proposte di organizzazione industriale, gestione del lavoro e progetti di ricerca e sviluppo.
Queste proposte sono accomunate da una specificità preziosa, che poi si perderà nelle battaglie operaie del Dopoguerra. Le questioni sollevate da questi studiosi non erano (come saranno quelle dagli anni Cinquanta in poi) finalizzate a battaglie di resistenza (migliori condizioni di lavoro, contributi pensionistici, tetto del monte-ore, tutele sociali e assistenziali), bensì a battaglie di partecipazione. Quello che si rivendicava era una partecipazione al controllo della fabbrica da parte degli operai.
Questa è forse l’eredità più importante di quella stagione, quella che oggi andrebbe di nuovo indagata, battuta, esplorata. Purtroppo, molte suggestioni interessanti furono perdute. Anche perché di alcune di esse si appropriarono i totalitarismi, deviandole poi verso la soppressione della dialettica sindacale e l’assoluta sudditanza operaia al potere politico e industriale (come nel corporativismo fascista). Riprendere quel discorso nel dopoguerra, così, divenne ancora più complicato.
La prospettiva dell’autonomia
In ogni caso, Casiccia solleva un punto fondamentale quando fa notare che le battaglie degli anni Trenta sono ispiratrici perché, anziché imbastire un atteggiamento di resistenza, ne promossero uno di riconfigurazione industriale in senso non capitalistico. Ai marxisti più puri questo potrebbe certo apparire come un cedimento al riformismo più tiepido e un tradimento dell’ideale rivoluzionario. A chi scrive, però, pare una prospettiva più entusiasmante ed intrigante.
Per tutti gli anni del Dopoguerra le battaglie operaie svolte nel nome del comunismo contennero questo paradosso: si rivendicavano migliori condizioni sociali all’interno dell’ambito del capitalismo stesso, aspettando una rivoluzione che era come Godot, ogni anno più improbabile e, in fondo, indesiderata. Era l’escatologia, il messianismo applicato alla politica, il differimento costante come orizzonte della lotta.
A un certo punto, quando l’idea di rivoluzione sbiadì, le forze della sinistra si adeguarono al capitalismo, e dagli anni Ottanta arretrarono in tutto il mondo occidentale nelle conquiste degli anni precedenti. Tutto ciò che si fermava ad accarezzare l’idea della rivoluzione fu dato per sorpassato, Berlinguer e i sindacati furono spazzati via dalla marcia dei quarantamila.
Oggi, però, si può tornare a tessere la tela interrotta, evitando di bloccarsi in una strategia di mera resistenza. Pretendere una cogestione degli operai agli affari della fabbrica implicherebbe un’evoluzione del capitalismo in qualcosa d’altro, senza dover attendere passaggi storici messianici.
Un passo del genere potrebbe dare il là col tempo a cambiamenti più durevoli, radicali e profondi. Non c’è bisogno di cesure enfatiche. È una rivoluzione quotidiana che deve partire dalla situazione concreta. L’escatologia comunista (come la degenerazione del cristianesimo criticata da Nietzsche) aveva caricato tutto l’orizzonte di cambiamento nel futuro svuotando il presente di ogni possibilità riformista sostanziale. L’idea di democrazia industriale, invece, restituisce alle battaglie operaie il qui ed ora.
Le due anime del capitalismo
Proseguendo la sua disamina storica sulle forme di gestione aziendale, Casiccia osserva che dalla metà del Novecento in avanti i due modelli di capitalismo (quello imprenditoriale e quello tecnocratico-dirigista) non hanno avuto una netta prevalenza l’uno sull’altro. Al contrario, convivono e si ibridano in una forma meticcia. La giungla da una parte e la “burocratizzazione del mondo” dall’altra.
Da una parte, con gli anni Ottanta e la nuova ondata di liberismo, ritornano il laissez-faire, la mitologia dell’imprenditore e del mercato che si autoregola, l’utopia di un liberismo che rasenta il darwinismo sociale. Dall’altra sopravvive, anche in questo mondo, un’anima dirigista, tecnocratica e con pretese regolatorie dettate da leggi scientifiche. Una tendenza che vorrebbe irregimentare la mano invisibile e programmare l’evoluzione dell’economia evitando gli imprevisti, i sussulti e le sorprese anche scioccanti congenite alla natura stessa del capitalismo.
Queste due tendenze del capitalismo globale non solo si meticciano, ma si incardinano anche in élite economiche distinte. Due aree che collaborano e si influenzano per ciò che serve, ma che si guardano storto e si dibattono in fragorose battaglie sotterranee sul futuro dell’economia mondiale.
Questo basta a chiarire che le cose sono un po’ più complesse di quanto pretendono di far credere tanti teorici del complotto: una élite mondiale esiste, ma non è omogenea, unidirezionale e unanime. In seno ad essa esistono diverse correnti, e in questo tempo come in ogni epoca storica è questa guerra tra aristocrazie (tra visioni dell’uomo, del mondo e della vita) che determina gli sviluppi storici in un senso o nell’altro.
L’orizzonte della lotta
In questo processo, Casiccia sottolinea almeno tre cambiamenti strutturali dell’economia mondiale, che hanno implicato modifiche fondamentali all’orizzonte.
Innanzitutto, in questi decenni l’economia si è terziarizzata. I mercati preponderanti non sono più quelli di beni manifatturieri, ma di dati, di strumenti finanziari, di servizi.
Ancora, il capitalismo moderno si è deterritorializzato. Non solo le grandi aziende trascendono le giurisdizioni dei singoli stati, ma anche le singole sedi non sono più localizzate in un posto fisico circoscritto - la fabbrica. Dovunque ci sono esternalizzazioni, diversificazioni, appoggio ad altre strutture.
Come fare una battaglia se questa coinvolge la multinazionale produttrice, quella a cui essa si appoggia per la comunicazione, quella a cui si appoggia per la logistica? Qual è, insomma, l’interlocutore della battaglia sindacale? Una soluzione accenata da Casiccia in questo caso è di tornare alla nozione di Alfred Marshall dei dipartimenti industriali, che tanta importanza ha avuto anche nella tradizione degli economisti italiani.
Infine, e forse è questa la questione più importante, la terziarizzazione ha frammentato non solo la gestione, ma anche il lavoro. Il lavoro è disseminato, frammentato, disarticolato. Ad una stessa azienda contribuiscono autonomi, lavoratori esterni, lavoratori a contratto, collaboratori sporadici, con scarso senso di appartenenza ad una classe o ad una categoria. Il proletariato, come unità storica e sociale, è in via d’estinzione. Qual è, allora, il soggetto della battaglia sindacale?
Chi sta nella stanza dei bottoni?
Infine, il libro contiene una riflessione notevole sul comando delle aziende nel contesto del capitalismo globale. Da una parte, Casiccia ritiene che, realisticamente, anche una democrazia industriale dovrebbe tenere a mente la necessità del concetto di gerarchia decisionale. Le questioni odierne sono di una tale complessità che non si può pensare di mettere tutto a voto.
Tuttavia, l’autore è inflessibile nella sua critica ai grandi manager. Non a caso, il libro fu pubblicato in anni disseminati di crac finanziari, causati spesso dalle operazioni spregiudicate dei dirigenti. È come se alla fine i tecnici, lungi dall’introdurre la perfetta razionalità in economia, avessero portato con sé il peggio di ciò che attribuivano agli imprenditori storici: la volubilità, la scarsa premeditazione, l’istinto nella sua accezione deteriore, la decisione improvvisa e incosciente.
Ma Casiccia è ancora più sottile, e ammette che la complessità del capitalismo finanziario lascia un velo di indeterminatezza sulla reale responsabilità del singolo individuo. Il punto, in sostanza, è che il capitalismo finanziario non ha nulla di razionale. I casi dei manager citati da Casiccia sono di conclamata incompetenza e immoralità. Ma, per assurdo, anche un manager integerrimo e perfettamente razionale (ammesso poi possa esistere) potrebbe incorrere in un errore di valutazione investendo su qualcosa che è reputato sicuro e che invece, per ragioni imperscrutabili e irrazionali, produce un’enorme perdita, che si riversa a cascata anche sugli incolpevoli dipendenti.
Al di là dell’avventatezza dei singoli manager, alla radice del fallimento del capitalismo manageriale c’è la sua fallacia teorica iniziale, il suo assunto dogmatico di base: che si possa calcolare con l’esattezza di un meccanismo razionale perfetto il mercato, che in quanto luogo abitato da uomini è determinato anche da sentimenti, passioni, mode, paure, invaghimenti, scelte d’istinto e dinamiche di psicologia collettiva che non hanno nulla di razionale.
Il fallimento del capitalismo manageriale è il fallimento dell’utopia del razionalismo weberiano. Il mondo non sarà mai burocratico e perfettamente regolato, le passioni umane produrranno sempre qualcosa di eccedente rispetto a questo meccanismo. Con un esito solo apparentemente paradossale, Casiccia arriva a dire che un grande manager allora non è un esperto di pianificazione e organizzazione scientifica, ma al contrario chi sa prendere decisioni nuove di fronte a situazioni impreviste, stocastiche. Dio non gioca a dadi, ma il capitalismo probabilmente sì.
Proposte concrete
Casiccia alla fine individua tre soluzioni praticabili di partecipazione degli operai alla gestione in seno all’industria. La prima è quella, già molto diffusa, dell’acquisto da parte dei dipendenti di azioni dell’azienda. In realtà, questa soluzione è abbastanza debole: se la gestione dell’azienda continua ad essere verticistica, in caso di perdite in quel caso il dipendente paga due volte: come dipendente e come azionista… La seconda è una integrale gestione dell’impresa da parte dei dipendenti, come nel caso delle aziende cooperative nella loro vocazione originaria. La terza è quella dell’esperienza dell’employee buy-out, la soluzione per cui un’azienda viene rilevata dagli operai dopo il proprio fallimento.
Evidentemente, nessuna di queste soluzioni è sufficiente. Ogni studioso che abbia detto qualcosa in questo senso va riletto, meditato, analizzato. E queste nuove forme di organizzazione industriale, per avere una validità, dovrebbero anche rintracciare una cornice istituzionale, che quindi si integrerebbe con un nuovo protagonismo dello Stato nella gestione dell’economia.
I confini per ipotizzare una riforma - forse la più decisiva della nostra epoca - sono stretti e tortuosi. Ma i modelli del passato ci confermano che si tratta di una strada possibile. D’altra parte, questa è la sfida politica del nostro tempo: conferire un carattere sostanziale alla democrazia o vederla soccombere.