Le società occidentali di mercato si autoproclamano da lungo tempo libere, democratiche, in forza anche della cosiddetta “stampa indipendente”, la quale non esisterebbe invece nei paesi autoritari e monopartitici. Ma Noam Chomsky ed Edward S. Herman ne La fabbrica del consenso (Il Saggiatore) lanciano una sfida aperta a questo assunto, sostenendo invece che i media occidentali, lungi dal non interessarsi a influenzare le coscienze dei cittadini, svolgano una vera e propria “funzione di propaganda”.
La guida per svolgere al meglio tale funzione “è fornita dal governo, dai leader del mondo produttivo, dai proprietari e dai dirigenti dei media più importanti”[1]. Certo, è evidente come nelle nostre società esista una pluralità di media, talvolta con opinioni contrastanti, o persino in conflitto fra loro. Ma la tesi degli autori è che tali conflitti siano in ultima istanza il riflesso dei disaccordi già interni alle élite economiche e politiche; e proprio per questo da tali contrasti verranno sistematicamente escluse quelle opinioni che “mettono in discussione le premesse fondamentali”[2] dei poteri in carica.
Tali processi di controllo dei media, di esclusione delle opinioni critiche, di manipolazione delle informazioni per presentarle nell’interesse dei gruppi di potere, sono svolti in assoluta “spontaneità”, ed anzi, secondo gli autori, la realizzazione risulta “molto più credibile ed efficace di un sistema con censura ufficiale”[3].
Chomsky (clicca qui per approfondire la sua figura) descrive “cinque filtri” che svolgono questa funzione, ossia di “comunicare messaggi e simboli alla popolazione”, con il preciso compito di “divertire, intrattenere e informare, ma nel contempo di inculcare negli individui valori, credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte”[4].
Il primo fra tutti concerne la presenza apertamente riconosciuta dei sistemi massmediatici nel mercato. Di conseguenza, il loro obiettivo principale diventa il raggiungimento del profitto e l’accumulazione. La dipendenza da banche e investitori spinge non raramente i gruppi di informazione a sacrificare il giornalismo critico al fine di perseguire il profitto tramite lobbying e strategie di marketing ben precise.
I giornali che vogliono ottenere un’audience più ampia, e garantire prezzi di vendita più bassi, devono fare affidamento sugli inserzionisti. Questo è il secondo filtro. Da un certo momento della storia, le testate giornalistiche hanno smesso di coprire le proprie spese soltanto con le vendite di copie, per fare affidamento sulla vendita di spazi pubblicitari.
Ciò ha svantaggiato particolarmente i giornali rivolti alle classi lavoratrici, perché gli inserzionisti acquistano spazi pubblicitari dove sanno di poter stimolare il desiderio di consumo, nella speranza di far comprare i propri prodotti; essendo la capacità di acquisto delle classi lavoratrici inevitabilmente limitata, i giornali rivolti a tale audience venivano conseguentemente svantaggiati e lasciati fuori dal mercato. Questo vale, ovviamente, anche per la televisione.
Anche qui “gli inserzionisti preferiranno evitare programmi che contengano problematiche molto complesse o che evochino controversie suscettibili di interferire con uno stato d’animo di propensione all’acquisto”[5]. Insomma, gli inserzionisti sono dotati di un vero e proprio potere simile a quello del governo che concede le licenze ai programmi o alle testate più gradite:
Una società importante che intenda acquistare spazi pubblicitari alla televisione difficilmente sponsorizzerà programmi che critichino seriamente il mondo produttivo, denunciando, per esempio, la degradazione dell’ambiente, l’asservimento dell’industria a obiettivi militari o il sostegno interessato delle imprese ai regimi tirannici del Terzo Mondo[6].
Il primo ed il secondo filtro ci hanno già mostrato quanto i mass media nel mondo occidentale siano legati alle élite nazionali, economiche e politiche. Con il terzo filtro la questione si fa ancora più evidente. Per soddisfare la consistente domanda di informazione, i media hanno bisogno di rifornirsi da fonti considerate affidabili e dotate di un certo prestigio. Tali sono, ovviamente, le istituzioni pubbliche o gli agglomerati dei settori produttivi. Rifornirsi di informazioni da terze parti richiederebbe costi di investigazione più elevati, nonché un impiego di tempo maggiore. Ma quello che risulta di notevole rilevanza nell’analisi di Chomsky è come siano le stesse agenzie governative e i poteri economici a rifornire di informazioni i media nazionali. Ad esempio la Camera di Commercio federale negli Stati Uniti “nel 1983 aveva destinato alla ricerca, alle comunicazioni e alle attività politiche un budget di 65 milioni di dollari”[7]. Oppure, sempre negli Usa, “le spese pubblicitarie e le pubblicazioni per la tutela dell’immagine delle associazioni industriali e commerciali sono passate dai 305 milioni di dollari nel 1975 ai 650 milioni di dollari nel 1980”[8].
Secondo questi dati, le istituzioni e i poteri economici sono le fonti essenziali da cui dipende l’intera produzione di informazione: essi si rendono indispensabili, aiutano i media in svariati modi, forniscono loro video, materiale già predisposto per la pubblicazione, comunicati stampa.
Di fatto le nutrite burocrazie dei potenti alimentano i mass media e si guadagnano un accesso speciale ad essi contribuendo alla riduzione dei costi per l’acquisizione del materiale informativo per l’elaborazione delle notizie. Le grosse organizzazioni che forniscono questi materiali diventano fonti abituali di notizie e hanno un accesso privilegiato alle porte dei media. Le fonti non abituali, al contrario, per potervi entrare devono ingaggiare vere e proprie battaglie e possono essere arbitrariamente ignorate.[9]
Essendo tali fonti indispensabili, è ovvio che sia i governi che le organizzazioni industriali possono sfruttare la propria posizione con ricatti e richieste. In questo modo le posizioni critiche vengono sostanzialmente escluse dal dibattito pubblico, ed anzi “le fonti più potenti approfittano regolarmente della routine e della dipendenza dei media per ‘dirigerli’, ossia per indurli ad adottare una scala di priorità e un punto di vista particolari”[10].
Nel caso in cui i media non siano abbastanza in linea con le posizioni delle élite nazionali e internazionali, entra in gioco il quarto filtro, quello che Chomsky individua come la strategia degli “attacchi polemici”, con l’intenzione di mettere in riga giornali e televisioni con posizioni troppo critiche. Questi attacchi possono manifestarsi sottoforma di “lettere, telegrammi, telefonate, petizioni, veri e propri processi, presentazione di proposte di legge al congresso; ma a volte si presentano anche come proteste, minacce e azioni punitive”[11].
Le manifestazioni di dissenso arrivano sia dal governo che dal mondo produttivo, il quale non di rado finanzia campagne per “rimettere in riga” l’informazione. Questi attacchi polemici possono influenzare pesantemente la condotta dei media, i quali cercheranno di “non irritare gruppi e ceti capaci di innescare manifestazioni di dissenso”[12].
Adesso manca l’ultimo filtro, non ultimo per importanza. Si tratta di ciò che Chomsky, al tempo della stesura del libro, definiva come una vera e propria “religione dell’Occidente”, e cioè “ossessione di coloro che detengono il potere economico. […] Lo spettro che minaccia la ragione stessa del loro privilegio di classe e del loro status superiore”[13]. Si tratta dell’anticomunismo, ovvero di un sistema di controllo che ha giustificato colpi di stato, attentati, violenze militari, guerre: “Se il trionfo del comunismo costituisce il peggiore dei mali, la scelta di sostenere all’estero governi fascisti è giustificata in quanto male minore”[14].
Ma il fatto che il mondo comunista sia crollato ormai da decenni non ha implicato che la strategia di fondo qui analizzata venisse meno, ossia quella che Chomsky definisce “dicotomizzazione” delle società. Si tratta di una strategia adottata per indirizzare la popolazione verso le posizioni governative o dei gruppi industriali, e consiste nel “sospendere il giudizio critico e lo zelo investigativo” dividendo le posizioni tra “noi” e “loro”, in cui il “loro” possono essere i comunisti, ma anche i terroristi, i drogati, i migranti.
Quando si tratta di noi stessi o dei nostri amici, accettiamo acriticamente premesse (per esempio che il nostro stato e i nostri leader politici vogliono la pace, amano la democrazia, si oppongono al terrorismo e dicono la verità) che rifiutiamo quando si tratta di stati nemici. In un caso e nell’altro si adottano criteri di valutazione diversi: ciò che è grave crimine se perpetrato dagli stati nemici diviene fatto secondario quando è commesso da noi stessi o da paesi amici[15].
[1] N. Chomsky, E. S. Herman, La fabbrica del consenso, il Saggiatore, Milano 2014, p. 10.
[2] Ivi, p. 11.
[3] Ivi, p. 13.
[4] Ivi, p. 16.
[5] Ivi, p. 36.
[6] Ivi, p. 35.
[7] Ivi, p. 40.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 41.
[10] Ivi, p. 42.
[11] Ivi, p. 45.
[12] Ivi, p. 46.
[13] Ivi, p. 49
[14] Ivi, p. 50.
[15] Ivi, p. 56