Da due mesi continua inarrestabile l’offensiva di Confindustria che non ha trovato limiti nemmeno davanti alle oltre 29mila vittime del Covid-19. Il 30 aprile, appena prima della giornata internazionale del lavoro, Matteo Renzi che non parla coi morti, non è un medium, ma media e rappresenta le posizioni di Confindustria all’interno delle Istituzioni democratiche, ha indegnamente espresso la posizione della confederazione padronale.
È dall’inizio della diffusione del contagio in Italia che i rappresentanti delle imprese non si vogliono fermare. A inizio marzo il presidente di Confindustria Lombardia Bonometti ottenne dalla regione la non imposizione di altre zone rosse nella Lombardia, specie nella Bergamasca e nel Bresciano. Decisione che ha avuto lo scopo di anteporre il profitto alla tutela della salute pubblica e del lavoro, viste poi le drammatiche conseguenza nella Bergamasca.
Infatti, come riporta anche Lavoce.info, utilizzando come base i sistemi locali del lavoro, il rischio contagio è maggiore nelle regioni del Nord, in particolare concentrato tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, e il blocco totale delle attività non essenziali attuato con il Decreto del 25 marzo ha difatti contribuito al rallentamento del contagio.
Chiusura che, in realtà, è soltanto parziale. Da un lato abbiamo 192 mila autocertificazioni di apertura in deroga da parte delle imprese, di cui 55% nelle tre regioni più colpite: Lombardia Veneto ed Emilia-Romagna. In un sistema produttivo che considera la sicurezza come mero costo da minimizzare e che genera in media 3 morti sul lavoro al giorno in tempi normali, una mancata gestione e pianificazione del controllo delle attività aperte, ha permesso (teoricamente) a qualsiasi impresa di continuare ad operare, specie in contesti di aziende non sindacalizzate dove è più difficile una denuncia di mancato rispetto dei protocolli di sicurezza.
Dall’altro lato l’analisi sui microdati Istat (rilevazione della forza lavoro – MFR) condotta dai Consulenti del Lavoro dimostra come sulla base del decreto e la lista dei codici ATECO, solo il 30,4% dei lavoratori è rimasto effettivamente a casa dal lavoro mentre il restante 69,6% risultava ancora attivo.
Inoltre, considerando l’attività di influenza da parte di Confindustria sul Decreto, sono stati inseriti tra gli “essenziali” anche altri codici ATECO in precedenza esclusi. Sulla base delle matrici input-output, Matteo Gaddi e Nadia Garbellini hanno stimato che solo il 15.5% delle attività essenziali (codici ATECO del Dm 25/3) sono a servizio dei settori fondamentali.
Insomma, è evidente come fino ad ora Confindustria stia chiaramente vincendo la partita e sta continuando a giocare in attacco. Non contenta infatti di aver garantito continuità alle attività produttive, ora cerca di ottenere anche liquidità sempre più incondizionata: non sono sufficienti i prestiti garantiti per un totale di 400 miliardi previsti dal decreto liquidità.
Garanzie che, per altro, non pongono chissà quali restrizioni, se non il divieto di distribuire dividendi e acquistare azioni proprie per il solo 2020, quando il periodo del prestito garantito è di 6 anni, e di gestire i livelli occupazionali di concerto con i sindacati, cui potere contrattuale è decisamente ridimensionato, specie in contesto di crisi. Confindustria pretende un aiuto in autentico “libero mercato”, ovvero con trasferimenti monetari a fondo perduto. Insomma, considerano il libero mercato come un socialismo dei ricchi, dove appunto i capitalisti ottengono risorse pubbliche a fondo perduto socializzando i rischi d’impresa e le perdite e privatizzando i profitti.
Ultima solo per ordine cronologico è la richiesta da parte di Bonomi di derogare ai contratti collettivi nazionali in tema di definizione dei turni ed orari di lavoro. Questo non significa ovviamente spostare il livello di conflitto da nazionale ad aziendale facendo quindi perdere potere contrattuale alle rappresentanze dei lavoratori, ma significa chiedere espressamente di non badare ad ore-lavorate, turni e riposi settimanali. Significa, insomma, chiedere direttamente di aumentare il plusvalore assoluto attraverso l’estensione dell’orario di lavoro.
Se da un lato Confindustria vince, dall’altro non perdono solo i lavoratori, ma anche i piccoli proprietari, commercianti, piccoli-capitalisti che soffrono la chiusura e vedono il rischio della proletarizzazione. Da un lato, infatti, come in ogni grande crisi, i piccoli-capitalisti saranno le vittime dell’accentramento del capitale che le ingloberà al suo interno rafforzando le dinamiche di oligopolio e monopolio, mentre i piccoli commercianti ed artigiani, vedono concreto il rischio di dover chiudere definitivamente e proletarizzarsi nel senso di un passaggio da possesso dei propri mezzi di produzione a dipendenza salariale.
È la cosiddetta “classe media” – che in realtà è un agglomerato eterogeneo che dovrebbe costringerci a parlare di “classi medie” – come la rappresentava Paolo Sylos Labini nel suo “Saggio sulle classi sociali”. All’interno del saggio veniva ben illustrata i diversi interessi contrapposti all’interno delle classi medie, più o meno vicine alla classe degli operai e/o dei capitalisti.
Durante ogni processo di crisi capitalistica che favorisce ed accentua la proletarizzazione degli strati più bassi delle classi medie – piccoli commercianti, artigiani, piccoli autonomi – dovrebbe essere più che mai favorita un’alleanza politica con i lavoratori per difendersi dagli attacchi del capitale che tenta di preservare la propria posizione scaricando i costi sociali ed economici sulle classi più deboli. Ad esempio, la lotta per il reddito universale di base dovrebbe essere condivisa non solo tra lavoratori, ma anche tra piccoli commercianti e (finti) autonomi così da riunificare il fronte del lavoro ed aumentarne il potere contrattuale di fronte agli attacchi sempre più duri del capitale.