La legge 185/90 fu una innovazione civile che tutt’ora preserva aspetti profetici. Alcuni vorrebbero cambiarla, perchè ritenuta superata, ma è prima necessario risolvere alcune contraddizioni che non permettono alla legge di esprimere tutto il suo potenziale per lo sviluppo del nostro Paese.
Trent'anni fa, proprio in questi giorni, avvenne un evento storico segno di progresso civile del nostro Paese, il quale aveva maturato una coscienza collettiva capace di farsi carico dei drammi legati alle guerre che accadevano in tutto il mondo. Il fatto, accaduto il 9 luglio 1990, è l’approvazione della legge 185 sul traffico di armamenti, voluta da una classe politica e da una società civile più forte degli interessi di pochi, molto pochi, che lucravano sulle forniture di armi richieste da governi tutt’altro che democratici.
Molti sostengono che la legge sia stata depotenziata a seguito delle modifiche che si sono succedute negli anni e in effetti le forniture all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti, alla Turchia di Erdogan e all'Egitto (la cui feroce repressione dei diritti umani l’abbiamo vista da vicino con l’uccisione di Giulio Regeni), sono esempi eclatanti che il filtro sul traffico di armi è fallace. Allo stesso modo non sembra aver effetto reale neppure il trattato internazionale delle Nazioni Unite, ratificato dal nostro Paese nel 2014, sul commercio di armamenti. Tuttavia, il dubbio è che non sia un problema di leggi quanto la "mancanza di organi della società civile capaci di promuovere non solo una coscientizzazione, ma anche un'azione proattiva di denuncia presso la magistratura e la Corte Costituzionale", come ha affermato Sandro Calvani, tra i massimi esperti in cooperazione internazionale.
La legge, nata con l’intento di bloccare le armi italiane che uccidono in tutto il mondo, investe il Governo della responsabilità di predisporre le misure idonee ad una graduale riconversione a fini civili dell’industria bellica con l’obiettivo di slegare lo sviluppo del Paese dal business sconveniente delle armi. Non conviene produrre armamenti perché viviamo in un mondo dalle risorse limitate ed è intelligente ed economico investire le limitatissime risorse pubbliche nei settori che garantiscano il più alto ritorno in termini di utilità pubblica.
La spesa in armi innesca processi deflativi nei confronti del PIL, l’innovazione che produce è caratterizzata da un tale livello di segretezza e specializzazione che la diffusione nell'economia civile è ritardata nel tempo e necessita ingenti costi per l'applicazione nei settori civili.
Disinvestire in armi è controverso perché il luogo comune crede che significhi far perdere posti di lavoro, in realtà maggiori investimenti nel settore sanitario o nella transizione ecologica farebbero aumentare i posti di lavoro
Così ha affermato l'economista Suor Alessandra Smerilli, coordinatrice della task force voluta dal Papa per far fronte alle conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria. L'affermazione della Smerilli è sostenuta da molti studi, tra cui quelli riportati da Gianni Alioti, che nel suo saggio "Un punto di vista sindacale sulla produzione militare" ha rappresentato molto bene la realtà dei fatti: dal 1980 al 2010, in uno scenario di crescita della spesa militare, è stato registrato un calo di occupazione del 47% nel settore aeronautico militare mentre nello stesso periodo è stato registrato un aumento del 30% dell'occupazione nel settore civile. Inoltre, Alioti riporta uno studio statunitense del 2009 che afferma che 7 miliardi di euro investiti in tecnologie in campo sanitario creerebbero nel tempo 212 mila posti di lavoro. Stessa cifra sbloccata l'anno scorso dal Ministero dello Sviluppo Economico ma per costruire carri armati e blindati.
Neppure una pandemia in corso è riuscita a mettere in discussione le spese armate a favore di investimenti per una maggiore occupazione, la sanità o l'innovazione ecologica. Dopo trent'anni, la sfida attuale è risolvere la contraddizione tra la 185/90, ispirata all’articolo 10 della Costituzione, le politiche del Ministero dello Sviluppo Economico e il piano industriale della Leonardo Spa: due apparati a controllo governativo che, invece di impiegare totalmente le proprie risorse per lo sviluppo ecologico e tecnologico del Paese, distraggono ingenti risorse verso il settore bellico.