Post di Ivan Giovi, analista presso Osservatorio Globalizzazione e laureato magistrale in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Mattia Marasti, studente di Matematica all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, entrambi collaboratori di Kritica economica.
A seguito della nostra ultima risposta a Fabrizio Ferrari, si è aggiunto un suo ulteriore responso. Senza pretesa di esaustività ci accingeremo ad un’ultima risposta per non portare il dibattito a livelli oltremodo sopportabili. In particolare, ci riferiremo unicamente agli aspetti generali affrontati nell’ultima risposta di Ferrari, non andando oltre la discussione sui risparmi, e sulla validità della nostra precedente risposta, per non tediare ulteriormente il lettore con la discussione contabile sui risparmi a vario titolo.
Ci riferiamo infatti a quei concetti che il Ferrari ritiene come assoluti all’interno della scienza economica, e che a nostro modo di vedere connotano uno scarso approfondimento, e forse, una mancata cognizione del dibattito scientifico degli ultimi decenni.
Partiamo dalla fine, la frase che ci ha lasciato più di stucco di tutta la risposta del Ferrari (che tradisce un po' di confusione a livello epistemologico) è quella per cui: “l’economia non è una scienza empirica”. Cosa che appare pressoché illogica se si considera che è pratica comune per qualsiasi economista (anche delle scuole che lui stesso cita) convalidare le tesi che vengono proposte attraverso conferme empiriche, che si non sono replicabili come una scienza sperimentale, ma costituiscono una parte importante della disciplina. Altrimenti, un'intera branca dell'economia – l’econometria – parrebbe inutile. Diverse teorie sono state infatti confutate dalle opposte regolarità empiriche, come ad esempio la teoria dei vantaggi comparati[1]. A noi pare che vi sia una misconception del Ferrari tra scienze empiriche e scienze sperimentali. L’economia non è una scienza sperimentale, nel senso che non si possono ripetere esperimenti, ma è sicuramente una scienza empirica che si basa su dati e osservazione.
Frase questa – “l’economia non è una scienza empirica” – che in effetti fa sorgere un dubbio. Se Ferrari sostiene una tale posizione, perché allora per suffragare le tesi di cui parla (la presunta condizione di “cicala” della nostra nazione), utilizza fior di statistiche e grafici basati proprio su dati empirici? Parrebbe di essere incappati in una contraddizione.
Ritornando adesso all’inizio dell’articolo, il Ferrari nel sovrapporre le recenti tesi della MMT ad altre teorie ormai consolidate nel dibattito scientifico, risponde alla frase “il settore privato sta aumentando la sua ricchezza finanziaria, accumulando capitale grazie al risparmio pubblico negativo” presente nel nostro precedente articolo, e per sostenerne la (presunta) infondatezza cita (volontariamente o meno) l’equivalenza di Barro-Ricardo[2], conosciuta anche come equivalenza ricardiana. Ora, l’equivalenza Barro-Ricardo è stata fortemente criticata da una folta platea di economisti, tra i quali ricordiamo James M. Buchanan[3] (tutto tranne che post-keynesiano), O’Driscoll[4] (che dimostra come Ricardo abbia in seguito ritrattato l’idea da cui trae spunto Barro) e Lawrence Summers[5][6] (che confutò l’equivalenza a livello empirico, per rimanere in tema di scienza empirica).
Quanto detto sarebbe già più che sufficiente a smentire la smentita del Ferrari ma spingendoci più in profondità nelle sue argomentazioni, egli sostiene che “se tutto l’indebitamento pubblico è finalizzato alla spesa corrente in consumo pubblico di beni e servizi e/o trasferimenti, la ricchezza aggregata del settore privato viene ridotta, dal momento che lo Stato dirotta parte del risparmio privato dagli investimenti (cioè, dall’accumulo di capitale) al consumo (pubblico) di beni e servizi e/o (tramite trasferimenti) al consumo privato di agenti sussidiati (“tax-consumer”)”. Tale affermazione ci riporta indietro di 100 anni direttamente nel dibattito di allora quando le stesse tesi erano sostenute da Hawtrey[7] e falsificate poi da Keynes con la Teoria Generale del 1936. Perché sia Hawtrey che il Ferrari, sembrano tralasciare punti fondamentali riconosciuti ormai diffusamente nel dibattito scientifico, quali l’incidenza dei moltiplicatori e l’insensatezza dell’esistenza di un “fondo fisso” di risparmi. Il che porta all'evidenza per cui gli attori economici (Stato e privati) operano secondo un’inversione del nesso causale tra risparmi e investimenti invocato dal Ferrari, essendo i secondi a creare i primi per via dei moltiplicatori[8].
Passando poi all’esempio analitico del Ferrari, questo ci appare decisamente paradossale se rapportato all’analisi dei saldi settoriali di un qualsiasi manuale di macroeconomia, la quale identifica il saldo del settore privato con risparmi meno investimenti (S-I), il saldo del settore pubblico con la differenza tra la spesa pubblica e le tasse (G-T), e il saldo del settore estero con esportazioni meno importazioni (X-M). La relazione tra i tre settori è:
(S-I)=(G-T)+(X-M)[9]
Dove, contrariamente a quanto sostiene il Ferrari, se il saldo pubblico è negativo (spende di più di quanto incassa), è evidente che il saldo privato debba essere positivo (i risparmi sono maggiori degli investimenti, ergo il risparmio privato aumenta) perché l’identità sia verificata a parità di saldo estero (X-M=0).
Ma in ogni caso, anche guardando alla peculiare identità proposta dal Ferrari, parrebbe scontato dire che un’identità è sempre verificata, però è altrettanto vero che tra le grandezze vi è un nesso causale. Se G aumenta il PIL cresce per opera dei moltiplicatori. L’aumento del PIL stimolerà l’aumento degli investimenti e di conseguenza il grado di utilizzo della capacità produttiva. Se poi l'aumento del PIL è particolarmente persistente, non è escluso che le imprese, con investimenti netti, sostengano la dinamica dell'accumulazione. Dunque, non è vero che se l'indebitamento cresce, ferme restando le altre condizioni, debba ridursi l'investimento privato. Questo è ancor più vero tanto più che la manovra espansiva si basi sull’aumento di G piuttosto che su una riduzione di T. I moltiplicatori associati a della spesa pubblica sono infatti maggiori e più persistenti di quelli delle tasse. Ancora sui nessi causali: è ben probabile che una ventata di ottimismo possa accrescere l'investimento privato, il quale, dato l'aumento della domanda aggregata, sostiene il gettito fiscale, migliorando il saldo di bilancio pubblico. In questo caso il nesso è opposto, va dagli investimenti al saldo di bilancio. Inoltre, un aumento di G comporta anche degli effetti sul saldo estero, cosa non irrilevante. Bisogna dunque comprendere quale qualificazione teorica dare a quanto si analizza.
Giungendo al terzo punto affrontato dal Ferrari, vi è il concetto per cui “per formare del capitale, è necessario del risparmio”. L'autore adotta la visione neoclassica per cui maggiori risparmi creano maggiore accumulazione e, data la relazione inversa tra domanda di capitale e tasso di interesse, maggiori investimenti. Tutto ciò è assolutamente inaccettabile da un punto di vista keynesiano, dato che per l'operare del paradosso del risparmio, un maggior risparmio si riflette negativamente sul PIL, riducendo dunque il risparmio stesso. Inoltre, l'astenersi dal consumo oggi non è sintomatico di un aumento del consumo futuro. Ancora, la critica Sraffiana al capitale (che Samuelson stesso ritenne corretta, sebbene l'economia ortodossa non ne abbia tratto le dovute conclusioni[10]) contraddice l'ipotesi che a minori tassi di interesse corrisponda l'adozione di tecniche a maggiore intensità di capitale e, dunque, un aumento della domanda di capitale e di investimenti.
In questo modo si contraddice anche l’assunto per cui il trasferimento dai ricchi ai poveri sarebbe inefficiente perché se “per formare del capitale, è necessario del risparmio” è meglio lasciare i soldi ai ricchi, ma allargando poi il campo la questione può essere riformulata nel seguente modo: vi è un trade-off tra crescita economica e disuguaglianze? Si può rispondere a questa domanda in due modi: uno puramente matematico e uno invece empirico.
Dal punto di vista matematico si sono studiati modelli economici basati sulle derivate parziali. Nella review[11] sul tema si dà una risposta non banale a questa domanda: vi è un trade-off tra crescita e disuguaglianze con solo un certo tipo di politiche. Quando invece le politiche puntano alla diffusione della conoscenza, questo trade-off non c’è. Dal punto di vista empirico invece, come scrive Joseph Stiglitz[12], i dati raccolti dall'FMI dimostrano che vi è una correlazione tra disuguaglianze e instabilità economica.
In conclusione, a noi pare, che il Ferrari abbia una visione un po' chiusa della scienza economica che tende a soprassedere sia il dibattito scientifico che la presenza di correnti economiche alternative alla sua.
Ps. Per quanto riguarda il Rasoio di Occam, la traduzione più accreditata è: “A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”. Non si capisce però come questo possa avere un qualsivoglia collegamento con il fatto che tutta Europa – a suo dire – ci ritiene una “cicala”. Un luogo comune è proprio tale perché non è in grado di offrire una spiegazione scientifica. Preferirlo perché non si è avvezzi al confronto con la complessità non ci pare una soluzione auspicabile.
Bibliografia:
[1] Si vedano gli studi di Leontief, W. W. (1953). Studies in the Structure of the American Economy; e di Trefler, D. (1995). The case of the missing trade and other mysteries. The American Economic Review, 1029-1046.
[2] Barro, R. J. (1974). Are Government Bonds Net Wealth?. Journal of Political Economy, 82(6), 1095-1117.
[3] Buchanan, J. M. (1976). Barro on the Ricardian Equivalence Theorem. Journal of Political Economy, 84(2), 337-342.
[4] O'Driscoll, G. P. (1977). The Ricardian Nonequivalence theorem. Journal of Political Economy, 85(1), 207-210.
[5] Poterba, J. M., & Summers, L. H. (1987). Finite lifetimes and the effects of budget deficits on national saving. Journal of Monetary Economics, 20(2), 369-391.
[6] Summers, L., Carroll, C., & Blinder, A. S. (1987). Why is US national saving so low?. Brookings Papers on Economic Activity, 1987(2), 607-642.
[7] Glasner, D. (2014). Hawtrey and Keynes.
[8] Keynes, J. M. (1936). The general theory of employment interest and money.
[9] Per verificare è consultabile un qualsiasi manuale di macroeconomica. A titolo di aggiuntivo proponiamo il seguente paper di Gattei G. & Iero A. (2017). Una banca-dati per i saldi settoriali europei, Economia e politica, anno 9 n. 13 sem. 1.
[10] Pasinetti, L. L. (1966). Paradoxes in capital theory: A symposium: Changes in the rate of profit and switches of techniques. The Quarterly Journal of Economics, 80(4), 503-517.
[11] Achdou, Y., Buera, F., Lasry, J. M., Lions, P. L., & Moll, B. (2014). PDE models in macroeconomics.
[12] Stiglitz, J. E. (2016). Inequality and economic growth.
Ottimo! E’incredibile il livello della cecità dogmatica dei liberisti! E’lapalissiano che l’eccesso di spesa pubblica, specie se di tipo finanziario come quella italiana (30 anni di disavanzi finanziari!) cagioni un incremento del risparmio privato: gli interessi che lo Stato paga sui titoli da 30 anni dove finiscono, secondo lui, se non ad alimentare il risparmio privato che, anche per questo, in Italia ha raggiunto valori elevatissimi, circa 10 trilioni (tra asset immobiliari e finanziari) secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia? Del resto cercare di convincere un liberista è inutile. Mi è capitato di confrontarmi con uno degli autori del Blog “Signoraggio informazione corretta”, che aveva criticato Sassoli con la solita retorica dell’austerità espansiva, e sul fatto che i Debiti vanno assolutamente sempre ripagati, per la giusta constatazione che Sassoli aveva fatto sulla evidenza che prima o poi, parte del Debito Pubblico andrebbe cancellata. Avevo fatto notare al blog “Signoraggio informazione corretta” che il Fmi, per voce di Blanchard ed altri Economisti mainstream, sta cambiando idea sulle regole europee. Ha risposto che Blanchard si sbaglia! Cioè, lui ne sa più di Blanchard!