Può sembrare banale, ma a star bene psicologicamente ci guadagniamo tutti. Attenzione, “guadagno” non è un termine scelto a caso: ormai da anni vari studi hanno messo in luce il ritorno economico sull’investimento nella salute mentale.
Tra i più importanti ricordiamo l’articolo di Dan Chisholm e collaboratori, pubblicato su The Lancet Psychiatry nel 2016, che ha calcolato che corretti investimenti in tutto il mondo nell’ambito del trattamento dei più diffusi disturbi mentali, la depressione e l’ansia, potrebbero portare ad un beneficio economico enorme, associato al miglioramento della condizione mentale.
I ricercatori hanno valutato che, per ogni dollaro investito, il ritorno economico lordo si attesterebbe tra il 200 ed il 300%. Considerando anche l’indotto economico conseguente al miglioramento delle condizioni di salute psicofisica, il dato salirebbe fino ad oltre il 500% (nota: il ritorno economico è calcolato come rapporto benefici-costi al net present value).
Nella nostra società, dove le politiche sociali sembrano essere purtroppo legittimate solo nel caso in cui possano produrre plusvalore e crescita economica, questi dati (e molti altri) sono un argomento estremamente valido a sostegno dell’introduzione di misure e finanziamenti strutturali nel campo della salute mentale e del benessere psicologico.
Ma in Italia sembra essere complicato introdurre anche solo un bonus una tantum per cominciare a fronteggiare la psico-pandemia, come definita dal Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi David Lazzari, conseguente alla pandemia da Covid, uno tra i più traumatici eventi collettivi di recente memoria.
Gli effetti psicologici e sociali di questo fenomeno globale si stanno mostrando con prepotenza. Si registra un’impennata nell’incidenza di sintomatologia depressiva ed ansiosa, con donne e giovani tra le categorie più colpite. Il dato è particolarmente preoccupante, inoltre, soprattutto per quanto riguarda bambini e bambine, in quanto gli effetti della pandemia e delle restrizioni associate hanno colpito duramente i più piccoli durante le più importanti fasi del loro sviluppo.
Queste criticità devono essere riconosciute ed affrontate nel modo corretto, altrimenti il rischio è che si cronicizzino, con in futuro un numero sempre maggiore di cittadini e cittadine che soffriranno di problematiche psicologiche significative. Ciò ha evidenti ricadute negative su tutti noi, non solo su chi vive le situazioni di disagio in prima persona, in quanto la società viene privata di membri in salute e attivi nelle proprie comunità sociali e lavorative, incrementando inoltre i costi di cura delle problematiche di salute mentale.
Infatti, un tema fondamentale da considerare quando si parla di salute mentale ed interessi economici è che prevenire è meglio (e più conveniente) che curare. Più si lavora a monte di possibili problematiche, più si investe in programmi di prevenzione e interventi precoci, migliori sono i risultati in termini di benessere psico-fisico e minore spesa economica associata alle cure.
I crescenti bisogni psico-sociali si stanno manifestando in modo trasversale nel tessuto sociale italiano: il fenomeno delle “grandi dimissioni” che sta investendo il mondo del lavoro, le proteste di studentesse e studenti delle scuole superiori che reclamano più attenzione ai bisogni psicologici a scuola e l’impressionante aumento nella richiesta di trattamenti psicologici sono solo i segnali più evidenti.
Perché non ascoltare la voce di chi chiede aiuto? Non ce lo possiamo permettere? Eppure, i dati ci indicano che economicamente si tratta di un investimento vantaggioso e non una spesa a fondo perduto. Allora forse il problema è che si pensa che non sia qualcosa di importante.
Lo stigma associato alle problematiche mentali e psicologiche nel nostro Paese è ancora troppo forte. Si ritiene siano questioni personali, individuali, da risolvere da soli, nel silenzio della vergogna. L’investimento in misure strutturali in risposta a questi bisogni potrebbe contribuire ad abbattere lo stigma, normalizzando e garantendo a tutti la possibilità di richiedere aiuto psicologico; inoltre, sarebbe un segnale della volontà di investire nelle persone per la ripresa sociale ed economica dell’Italia.
Disagio tra lavoro e università: come ci definiscono competizione e perfezionismo
L’Oms ha recentemente aggiornato il suo Piano d’azione per la salute mentale 2013-2030 riconoscendo che tra le possibili cause dei disturbi mentali, oltre ai fattori individuali, vanno prese in considerazione le problematiche ambientali e socio-economiche che un individuo si trova a fronteggiare. Curiosamente, proprio cento anni prima della deadline fissata per il 2030 usciva un saggio di Sigmund Freud intitolato “Il disagio della civiltà”, in cui il celebre psicoanalista austriaco portava alla luce il conflitto potenzialmente patologico tra gli istinti interni all’individuo e la repressione operata fin dall’infanzia dalla famiglia e dalla scuola.
Quasi un secolo dopo continuiamo a confrontarci con un disagio strutturale nella società, in quanto sia nell’ambito formativo che in quello lavorativo la competizione e il perfezionismo vengono presentati come qualità necessarie per la sopravvivenza in un fantomatico “mercato del lavoro”, quando in realtà isolano l’individuo e ostacolano una genuina collaborazione con gli altri.
La pandemia, con la sua lunga scia di suicidi, dimissioni e richieste di aiuto psicologico da parte di lavoratori e studenti, ha ulteriormente aggravato una tendenza non sostenibile che era già in atto tra vecchi miti, come quelli del successo e del merito, e nuove frontiere dello sfruttamento che ci rendono capaci di “auto-oggettificarci” e identificare in tutto e per tutto la nostra vita con ciò che facciamo per vivere.
Per quanto riguarda l’università studenti e studentesse hanno recentemente denunciato la “retorica” della meritocrazia che fa ricadere la responsabilità dei risultati sulle capacità (anche mentali) del singolo, senza tenere conto delle difficoltà e delle incomprensioni che caratterizzano il percorso di chi, oltre a studiare, lavora, ha figli o familiari da accudire o di chi si trova in una situazione economica precaria.
Tuttavia, parlare genericamente di “retorica” non renderebbe l’idea del dispositivo della meritocrazia, composto da veri soggetti che condizionano a priori la nostra carriera, esponendoci a standard spesso troppo elevati: genitori, professori ma anche lo stesso Miur che, con un piccolo slittamento semantico, promuove la “valorizzazione delle eccellenze”, come se i voti alti o la vittoria in alcune competizioni qualifichino completamente una persona, che non è più solo “eccellente” in qualcosa, ma incarna l’eccellenza stessa e ha la responsabilità di non deludere le aspettative generate da questa investitura meritocratica.
Gli ottimi risultati, ottenuti a prezzo di fatiche di cui nessuno si cura, non bastano: è preferibile bruciare le tappe, laurearsi prima del tempo, evitare di sostare troppo a lungo in quell’infruttuosa anticamera pre-imprenditoriale del lavoro che è l’università. I giornali ci comunicano spesso il miracolo strabiliante dei baby-laureati, mentre gli stessi esami, che dovrebbero essere fondamentali per la costruzione del nostro bagaglio di sapere, sono spesso solo oggetto del calcolo dei crediti necessari a rientrare nei futuri concorsi e vengono affrontati da docenti e studenti con una fretta che manda completamente a monte l’insegnamento “non scholae sed vitae”.
Infine, un altro elemento che è fonte di disagio per gli universitari è il tirocinio. Nelle recenti proteste studentesche si è sentita spesso la richiesta di un’abolizione dello stage, ma di per sé l’idea di un’esperienza formativa e pratica che ci prepari in maniera più specifica al lavoro che vorremmo fare è tutt’altro che sbagliata.
Ad essere deleteri e dannosi sono i modi in cui questa attività viene gestita sia dagli uffici dell’università che dalle aziende convenzionate: da una parte, infatti, la questione si traduce in un impegno burocratico, dall’altra i tutor aziendali spesso non attribuiscono al tirocinante un ruolo preciso all’interno del contesto lavorativo, richiedendo prestazioni che esulano dagli obiettivi formativi e che, ovviamente, non vengono retribuite.
Lo sfruttamento (anche autonomo) esperito all’università è solo un assaggio di ciò che i lavoratori conoscono già bene. Con il Covid, lo smart working ha contribuito ad abbattere le barriere necessarie tra casa e lavoro con il doppio effetto di portare alla luce la mole di impegni familiari che grava spesso sulle donne (di cui un numero impressionante ha perso il lavoro nel 2020) e di incentivare l’identificazione con le proprie prestazioni. Non sei più al lavoro, sei il lavoro. In mancanza di un capo, sei tu stesso a importi ritmi e scadenze diventando, per dirla con Michel Foucault, “il principio del proprio assoggettamento”.
In questa condizione il licenziamento e il fallimento diventano esperienze ancora più sofferte e pesanti a livello mentale, come se appunto dovessimo licenziarci da ciò che noi stessi siamo. Tuttavia, sarebbe ingiusto attribuire tutta la colpa agli effetti della pandemia: il tentativo disperato di ricercare ciò che veramente è sotteso nelle Great Resignation è solo una delle estreme conseguenze di un progressivo sbilanciamento delle responsabilità verso il singolo.
Siamo sicuri, per esempio, che la competizione basata solo sul possesso delle competenze sia del tutto salutare? Ci sembra giusto che il nostro sapere debba essere addestrato esclusivamente in vista di un saper fare?
Le parole, si sa, sono importanti. Se il fallimento ha smesso di essere solo un evento disciplinato da una branca apposita del diritto, venendo bensì attribuito alle persone anche solo per non aver portato a termine un compito nel tempo previsto o non aver preso un voto alto a un esame, allora purtroppo non sorprende che il licenziamento in quanto distacco da sé stessi possa talvolta esser accompagnato da depressione e pensieri suicidi.
Un bonus economico non riuscirebbe a risolvere questa frattura. Potrebbe però spingere più persone ad aprire le porte del proprio disagio psichico agli esperti. Ma la nostra stessa mente potrebbe suggerirci che ci sono altre forme di salute che non sono quelle imposte dall’utilità, altri modi di essere che sono liberi dalla dimensione fattiva e produttiva.
Diritto alla salute mentale e psicologo di base: a che punto siamo in Italia
Troppo spesso quando si parla di salute siamo portati automaticamente a pensare ad uno stato di benessere fisico, ma bisogna tenere presente che il benessere mentale costituisce una componente fondamentale del diritto alla salute.
Sono stati proprio gli Stati appartenenti all’ONU a dare del diritto in questione questa definizione, più completa rispetto a quella che si potrebbe accostare superficialmente ad un concetto tanto complesso e articolato. Proprio nell’incipit dell’atto con il quale è stata costituita l’OMS, “l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata per le questioni sanitarie”, troviamo questa definizione di salute: “health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity”.
Si tratta dunque di uno stato di benessere non solo fisico, ma anche mentale e sociale e da ciò ricaviamo che anche le disuguaglianze privano i cittadini del loro diritto al benessere psico-fisico. È qualcosa che non dev’essere garantito solo in parte, ma in modo completo e dunque impedirne il pieno godimento sarebbe già una violazione del diritto stesso.
Infine, non consiste solo nell’assenza di malattie e da ciò ricaviamo l’urgenza della prevenzione in materia di salute e il dovere dello Stato di garantire ai cittadini il sostegno necessario per affrontare forme di disagio non ancora invalidanti, ma che comunque impediscono di vivere con serenità la propria quotidianità.
Si tratta del primo di quei principi che, secondo gli Stati firmatari, “sono alla base della felicità, delle relazioni pacifiche e della sicurezza di tutti i popoli (are basic to the happiness, harmonious relations and security of all peoples)”.
Più specificamente, il paragrafo successivo alla definizione di salute enuncia che “godere del più alto livello di salute raggiungibile” e per salute si intende anche quella mentale, “è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, senza distinzioni di razza, religione, opinioni politiche, condizioni economiche e sociali (The enjoyment of the highest attainable standard of health is one of the fundamental rights of every human being without distinction of race, religion, political belief, economic or social condition)”.
È con questa ampiezza che dovremmo considerare il termine salute, nelle sue tre accezioni (fisica, mentale e sociale), termine che troviamo nella Costituzione all’art. 32.1: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Dunque, uno Stato che sia anche sociale, come lo è quello progettato dai Padri e dalle Madri Costituenti, non può disinteressarsi della salute mentale delle persone e soprattutto di quelle che provengono dalle classi sociali più svantaggiate.
A questo punto una domanda sorge spontanea. L’Italia è stata in grado di adempiere a questo dovere?
Un dato da sottolineare con amarezza è che il grande assente del Pnrr è proprio la salute mentale: ciò non stupisce, dal momento che la stessa salute è solo la sesta voce del Piano. Le ragioni di questa mancanza di lungimiranza hanno radici profonde, che sono radicate nella mentalità della nostra classe dirigente.
Analizzando la situazione attuale è opportuno rilevare che la pandemia ha aggravato una situazione già compromessa, cogliendoci assolutamente impreparati: in occasione della Giornata della salute mentale del 10 ottobre 2021 è stato ricordato che al benessere psicologico dei cittadini è destinato solo il 3% delle risorse del SSN.
Poniamo la questione in un’ottica costi-benefici: prevenire è meglio che curare. Un sistema efficiente avrebbe potuto garantire al momento giusto il sostegno psicologico necessario a quei soggetti che sono stati più colpiti dalla pandemia. Soprattutto avrebbe protetto i meno abbienti, che più di tutti hanno dovuto sopportare lo stress e le ansie di questo periodo e a cui, da Costituzione, lo Stato dovrebbe garantire cure gratuite.
Anche se l'emendamento che prevede la misura del bonus psicologico, che per di più è stato ridotto a una spesa di 20 milioni di euro, è stato alla fine votato dal Parlamento e inserito nel "decreto milleproroghe", è importante ricordare che di salute mentale si parla da tempo.
Risale al 2011 una legge presentata in Parlamento e supportata dalla Società Psicologi Area Professionale, che proponeva l’istituzione di uno psicologo di base. Una proposta strutturale, molto più rivoluzionaria rispetto al bonus di 50 milioni pensato originariamente, che il governo ha, tra l’altro, deciso di espungere dal Ddl Bilancio.
A dimostrazione del fatto che siamo in ritardo e che si tratta di un ritardo preoccupante, bisogna evidenziare che i promotori della legge rilevavano che “In Italia i medici di base sono oltre 47.000, ciascuno con una media di 1.099 pazienti. Curano i sintomi più diversi, ma il 35 per cento delle visite nasce non da patologie ma da problemi di natura psicologica. L'area della salute mentale rappresenta un'emergenza: quattro delle dieci maggiori cause di disabilità nel mondo interessano la salute mentale”.
Questa proposta di legge nasceva infatti sulla spinta dei moniti dell’Oms, che prevedeva che nel 2020 la depressione sarebbe stata “la seconda causa di disabilità al mondo dopo le cardiopatie”. “Da una ricerca condotta in Italia dall’Associazione per la Ricerca sulla Depressione e presentata ad un Convegno nel 2007, dei 532 medici di famiglia intervistati, 317 hanno dichiarato di prescrivere psicofarmaci (per l’ansia e la depressione) nel 50% circa dei casi, 114 nel 70-80% dei casi, e 101 nel 20-30% dei casi”. Già allora si parlava di una vera e propria crisi.
Lo psicologo di base, secondo la proposta dei promotori, doveva essere una figura inserita nel SSN, che il paziente avrebbe trovato nello studio del medico di base: il vantaggio principale sarebbe stato quello di evitare il pregiudizio e lo stigma sociale che parte della popolazione ricollega ai soggetti che chiedono supporto psicologico. Inoltre, il paziente non avrebbe dovuto contattare sin da subito la figura dello psicologo, ma ad essa sarebbe stata affidata se il malessere fosse stato riconosciuto come un disagio di natura psichica.
Il servizio di assistenza sarebbe stato pagato con il ticket sanitario. Nella proposta leggiamo che “ciò consentirebbe, peraltro, di garantire il lavoro a molti professionisti che, attualmente, hanno grandi difficoltà a trovare un'occupazione. La cura delle fobie, dello stress e della depressione attraverso il SSN, con il pagamento del ticket, porterebbe a un miglioramento delle relazioni familiari, nonché a un maggior equilibrio nella crescita degli adolescenti, a una maggiore determinazione dei rapporti fra genitori e figli, un attacco all'uso di droghe e di alcool”.
Alcune Regioni stanno cercando di invertire la rotta, investendo nella salute mentale: la Campania, il Lazio, la Lombardia e il Veneto hanno istituito delle figure che vengono spesso chiamate psicologi di base, anche se si tratta più che altro di psicologi delle cure primarie o di psicologi del territorio. Si tratta di figure che tuttavia rischiano di essere meno efficaci rispetto allo psicologo di base.
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Lo psicologo delle cure primarie è uno specialista che “collabora con il medico di base in un contesto diverso rispetto a quello ambulatoriale, ricevendo i pazienti nella stessa struttura dove opera il medico, ma in uno spazio indipendente”.
Dovrebbe trattarsi di un filtro iniziale, un soggetto in grado di valutare la situazione e di indirizzare, proprio come il medico di base, il paziente verso gli specialisti. Potrebbe inoltre valutare più opportuno indirizzare il soggetto verso lo stesso medico. Probabilmente riuscirebbe a dare una prima risposta a bisogni psicologici primari, anche se si tratta di una figura che, essendo più complessa rispetto allo psicologo di base, potrebbe risultare meno accessibile ai cittadini.
Gli utenti, infatti, potrebbero trovare difficoltà nel distinguere un problema psicologico da un problema di tipo fisico. Si pone inoltre il problema delle spese gratuite agli indigenti nei casi in cui siano necessarie delle visite specialistiche. Lo psicologo del territorio è invece un professionista “inserito in una rete di servizi sociali (e non sanitari)”, che dunque usufruisce“di finanziamenti erogati dai comuni”: avrebbe un ruolo marginale, perché, non essendo a carico del servizio sanitario, potrebbe contare su fondi molto esigui.
La figura dello psicologo di base, se estesa su tutto il territorio nazionale, sarebbe di grande utilità anche perché potrebbe creare nuovi posti di lavoro. Certo, bisognerebbe investire nella salute mentale, ma “la disoccupazione, non la spesa pubblica, è il grande spreco della nostra economia.[...] Abbiamo bisogno di “lavori concreti“, per dirla con Giorgio Lunghini: “lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso… principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura” (L’età dello spreco, 1995).[...]Ma per raggiungere questi obiettivi deve intervenire lo Stato: il settore privato non lo farà da solo.”
E proprio come leggiamo nella Costituzione all’art. 3.2, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E tra questi ostacoli dobbiamo iniziare a prendere seriamente in considerazione i disagi di natura psicologica.