La nazionalizzazione di Alitalia e le garanzie statali sui prestiti richieste prima da FCA poi da ASPI sono due fatti che vanno letti sotto la comune lente della nuova disciplina degli aiuti di Stato sancita dalla Commissione UE in seguito allo scoppio della pandemia da coronavirus.
Nel suo funzionamento “fisiologico” la normativa comunitaria tendenzialmente vieta finanziamenti, prestiti, garanzie etc. concessi dallo Stato in favore delle imprese. Sono previste tuttavia delle deroghe, tassativamente individuate e soggette al nullaosta della stessa Commissione, e proprio facendo leva sul “turbamento dell’economia di uno Stato membro” (articolo 107 par.3 lettera b TFUE) la Commissione ha emesso una serie di Comunicazioni contenenti linee-guida cui gli Stati devono attenersi nell’attuare le misure di sostegno, onde evitare eccessivi squilibri del mercato interno.
La scelta dello strumento della “comunicazione” è legata al suo uso versatile: si tratta di un atto che ha valore decisorio, informativo od interpretativo a seconda delle circostanze e che perciò ben si presta ad una reazione in una situazione emergenziale.
Un primo, timido intervento si è avuto il 13 marzo: la Commissione ha elencato una serie di misure che sarebbero state sostanzialmente esonerate dall’approvazione europea (es.: sospensione IRES, IVA) e ha introdotto una significativa semplificazione procedurale: tutte le richieste sarebbero state esaminate entro 48 ore; si tratta di un iter che altrimenti sarebbe durato mesi.
Il vero e proprio “libera tutti” è arrivato meno di una settimana dopo, con il “Quadro temporaneo”. La Commissione ha preso atto che il “grave turbamento” di cui sopra è ormai condizione comune a tutta l’Unione, non investe più solamente l’Italia, ed ha perciò autorizzato numerose misure: prestiti a tasso zero, garanzie, agevolazioni fiscali etc., subordinandole però ad alcune condizioni sostanziali e temporali (non possono ad esempio fruirne le imprese che già il 31 dicembre 2019 erano in difficoltà; gli aiuti devono essere concessi entro il 31 dicembre 2020).
Ma non finisce qui. Sotto la spinta di diversi Stati membri (soprattutto Olanda e Austria), la gamma di aiuti ammissibili è stata ampliata con due emendamenti.
Il 3 aprile un’altra Comunicazione ha integrato il contenuto della precedente comprendendo espressamente gli aiuti cosiddetti “de minimis”, ossia quelli di lieve entità (sotto i 200mila €) già esonerati dall’obbligo di notifica alla Commissione dal Regolamento 1407/2013, nonché favorendo la sovvenzione diretta di attività di ricerca e sviluppo connesse alla lotta contro il Covid-19, soprattutto in un’ottica di riconversione della produzione da parte di molte imprese (si pensi alle fabbriche di scarpe che hanno cominciato a fare mascherine). Il quadro si è completato infine l’8 maggio, quando sono state estese le misure di ricapitalizzazione di imprese non finanziarie al 1° luglio 2021.
Quello degli aiuti di Stato è sicuramente un settore in cui l’Unione è riuscita ad offrire una risposta immediata, da una parte snellendo la farraginosa procedura normalmente prevista e dall’altra predisponendo un fondamento normativo attraverso cui coordinare le diverse politiche degli Stati membri – i decreti legge “Liquidità” e “Cura Italia” del nostro Governo si inseriscono in questo quadro - ed evitare fughe in avanti individuali – la Danimarca ad esempio aveva già avanzato il 12 marzo richieste per 12 milioni.
Dire della loro efficacia però è presto: gli effetti sulla occupazione, ad esempio, sono ancora tutti da vedere. Dalla Commissione hanno fatto subito sapere che “data la dimensione limitata del bilancio dell’Ue, la risposta principale verrà dai bilanci nazionali degli Stati membri”. Ciò significa che all’interno della costruzione europea chi ha maggiore possibilità di spendere potrà farlo, mentre i Paesi che hanno difficoltà di bilancio e fronteggiano alti tassi di interesse saranno svantaggiati.
Dunque, davanti a uno shock simmetrico e in assenza di uno sforzo europeo comune, la risposta rischia di essere profondamente asimmetrica. Il problema non è di secondo piano per gli equilibri europei. “Il rischio è la rottura del mercato unico”, ha detto un funzionario spagnolo al Financial Times. Non a caso, circa la metà degli aiuti approvati riguardano la Germania, anche se il Paese guidato da Angela Merkel vale meno di un quarto del Pil del blocco Ue-27.