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Il mondo ha fame di dollari

In questi giorni, a seguito delle travagliate trattative e degli accordi raggiunti in sede di Eurogruppo per tentare di dare una comune e coordinata risposta europea all’emergenza sanitaria del Covid-19, si è sentito molto parlare del cosiddetto Fondo Salva-Stati (abbreviato come MES, “Meccanismo europeo di stabilità”). Si è parlato, invece, molto meno di un fenomeno che ci riguarda tutti, ma che per molti versi è impalpabile: la fame di dollari del sistema finanziario internazionale e le conseguenti risposte degli attori leader nella gerarchia del sistema. Su tutti, la banca centrale degli Stati Uniti d’America, la Federal Reserve (Fed). 

Per come è attualmente disegnato, il sistema finanziario internazionale ha bisogno di una certa quantità di moneta di una specifica nazione, il dollaro USA, per funzionare senza attriti. Dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) ci dicono che, alla fine del quarto trimestre del 2019, il 61% delle riserve in valuta estera a livello mondiale era denominata in dollari (per un valore di circa 12mila miliardi di dollari USA). Secondo l’ultima survey disponibile della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), in un mercato valutario (FX Market) che ad Aprile 2019 aveva raggiunto il volume di 6,6 triliardi di scambi al giorno, il dollaro USA è risultato essere una delle due divise scambiate nell’88% dei casi.

In altre parole, il dollaro è la valuta del commercio e della finanza internazionale. Di conseguenza, la Fed non è solo la banca centrale degli USA, ma è anche la banca centrale che “stampa” l'unica vera valuta di riserva globale e bene rifugio per eccellenza. Non ci soffermeremo qui sulle ragioni di questa egemonia valutaria, ma cercheremo esclusivamente di illustrare un meccanismo fondamentale tramite il quale questa si riafferma oggi: le Foreign exchange swap lines. 

In momenti di non-crisi, banche, fondi ed operatori specializzati, finanziano le proprie esigenze di liquidità quotidiane sui mercati monetari. Questi ultimi sono dei mercati che hanno ad oggetto prestiti con scadenze brevi, di solito inferiori ai 12 mesi. Gli strumenti privilegiati sono i cosiddetti REPO (repurchase agreements) o “pronti contro termine”. In breve, attraverso questi contratti, i venditori cedono agli acquirenti dei titoli impegnandosi a riacquistarli a prezzo maggiorato in una data successiva. Le operazioni funzionano di norma overnight, aprendosi e chiudendosi nello spazio di un giorno: chi ha liquidità in eccesso la impiega presso chi ne è carente.

A questo punto, entrano in gioco i dollari. Come su riportato, una quantità enorme di attività denominate in dollari è concentrata nei bilanci di banche non americane. Di conseguenza, queste banche hanno bisogno di finanziamenti in dollari per i loro asset (prestiti, titoli e posizioni su derivati). Secondo Adam Tooze, storico delle crisi finanziarie ed autore di "Crashed", si tratta di una somma che è equivalente a quasi la metà dei bilanci delle banche statunitensi.

In tempi tranquilli, questi fondi vengono raccolti sui mercati monetari americani (attraverso REPO) oppure attraverso degli swap su valute utilizzando come collaterale un’altra valuta (FX swap markets). Tuttavia, in momenti di crisi come quelli che stiamo attraversando in questi giorni, i mercati sono caratterizzati da sell-off indiscriminati e la disponibilità di dollari evapora.

Tutti gli investitori sono alla disperata ricerca di liquidità ed il dollaro USA è l’asset liquido per eccellenza. È qui che interviene la Fed nel suo ruolo di prestatrice di ultima istanza dell’intero sistema finanziario e dei pagamenti globale. Da circa vent’anni, infatti, come afferma Marcello Minenna sul Sole 24 Ore, la Fed garantisce dollari al sistema attraverso le cosiddette linee di liquidità in valuta estera (Foreign exchange swap lines) concordate con altre banche centrali. Seguendo la cronologia di Minenna, la prima linea di credito swap presso la Fed (o perlomeno, aggiungiamo noi, la prima in tempi recenti) risale al 2001, con la stipula di un accordo di scambio di valute tra Fed e Bce fino a un massimo di 50 miliardi di dollari, in seguito all'attacco terroristico alle Torri Gemelle.

Tuttavia, è con la grande crisi del 2008 che la Fed ha iniziato ad utilizzare stabilmente le linee swap in valuta con altre banche centrali. Nel 2010 viene istituito il “network C6”, una rete di linee swap in valuta tra la Fed, la Bce, la Banca d'Inghilterra, la Banca del Canada, la Banca del Giappone e la Banca Nazionale Svizzera che sarebbe divenuto permanente il 31 ottobre 2013. Assistiamo quindi alla nascita di un vero e proprio cartello stabile di (alcune) delle principali banche centrali del pianeta per garantire l'approvvigionamento di dollari al di fuori del mercato Usa. 

Il funzionamento delle linee swap fra banche centrali si articola in due fasi. In una prima fase, le due banche centrali che prendono parte al contratto swap “prestano” l’una a l’altra la propria valuta. Prendendo come esempio la linea fra la Bce e la Fed, alla prima, che avrà un conto depositi in dollari aperto presso la seconda, verrà accreditata una certa somma in dollari, ad un certo tasso di cambio e per un certo periodo di tempo. A fronte di questa posizione, la Fed riceverà come collaterale una somma prestabilita in euro attraverso un conto aperto presso la BCE. La remunerazione per la Fed sarà pari al tasso privo di rischio in dollari (OIS) maggiorato di uno spread prefissato.

Nella seconda fase, la banca centrale che ha preso a prestito i dollari li offre alle banche private della propria area valutaria, nell'ambito di operazioni REPO, in cambio di collaterali ammissibili e di un tasso di interesse. Sembra importante sottolineare come l’apertura di una swap line sia mutualmente conveniente. Nel nostro esempio, la Fed preserva un sistema che è basato sulla sua valuta domestica come moneta internazionale, mentre la Bce è in grado di proteggere meglio la stabilità del suo sistema finanziario. 

Senza entrare nel merito della effettiva efficacia del sistema delle FX swap lines per i fortunati Paesi che hanno la possibilità di averne accesso, le sue contraddizioni appaiono almeno tanto evidenti quanto la loro origine: la Fed è innanzitutto la banca centrale degli USA e risponde innanzitutto agli interessi strategici degli USA. In altre parole, benché sia chiamata ad essere il prestatore di ultima istanza del mondo intero (international lender of last resort), la Fed non è una banca centrale mondiale super partes.

Quanto affermato è confermato dal fatto che, sebbene il 19 marzo scorso la Fed abbia deciso di estendere temporaneamente le linee swap ad altre nove banche centrali, come già aveva fatto nel 2008, fra queste non vi è la Banca Popolare Cinese (PBOC). Eppure, come ci ricorda Minenna utilizzando dati BRI, la Cina risulta essere la quarta, tra le maggiori aree valutarie del pianeta, le cui banche hanno la più alta incidenza (48%) di passività estere denominate in dollari sul totale delle passività estere. 

Un siffatto sistema sconta quindi il difetto di fondo di non avere un prestatore finale di ultima istanza che sia neutrale e che consenta di far prevalere gli interessi di stabilità finanziaria e dei pagamenti su quelli geopolitici. Secondo l’International Financial Institute, i mercati emergenti hanno sperimentato nel primo trimestre del 2020 la più grande fuga di capitali mai registrata, per un valore di circa 83 miliardi. Dunque, a pagare il prezzo più alto sono come sempre i Paesi che si collocano più in basso nella gerarchia del sistema.

Data
20 Aprile 2020
Articolo di
Jacopo Magurno

Jacopo Magurno

TAG
Coronavirus, dollaro, fed

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Jacopo Magurno

Jacopo Magurno

Calabrese, di Diamante (CS). Attualmente assistente alla ricerca ed all’insegnamento presso l’Università Bocconi, ho precedentemente collaborato con il dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e con il centro di Ricerca…

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