È evidente che la quarantena non ha fatto benissimo al sindaco della Milano-da-bere che ha ormai un’ampia collezione di granchi, troppi per pensare che sia del tutto casuale. Da “Milano non si ferma” agli attacchi alla Sardegna, passando per il “tornare a lavorare” (o forse fatturare è più appropriato per Milano) per concludere con “non è giusto che un dipendente pubblico di Milano guadagni quanto uno della Calabria”.
L’idea del sindaco milanese non è affatto una novità: nel 2014 Tito Boeri, Andrea Ichino ed Enrico Moretti presentano l’idea della (re)introduzione delle gabbie salariali – e nello specifico la riduzione dei salari nominali attraverso il passaggio dalla contrattazione collettiva alla decentralizzata.
La loro giustificazione teorica si trova nell’efficienza e nell’equità. In merito a quest’ultima, gli autori propongono una equalizzazione dei salari reali in tutto il territorio nazionale raggiungendo la cosiddetta equità orizzontale (pari trattamento economico per parità di mansione-istruzione). In tema di efficienza, invece, sostengono che la riduzione del costo del lavoro al Sud che da un lato permetterebbe l’eguaglianza tra produttività-salari e dall’altro attirerebbe nuove imprese che favorirebbero occupazione e crescita.
A prescindere dalla legittimità teorica marginalista che eguaglia salario nominale a produttività marginale, l’assunzione implicita degli autori è che al Sud vi è sistematicamente una produttività inferiore. Questo, se vero, non è tuttavia una caratteristica esogena, bensì endogena: i livelli di produttività dipendono dalla composizione tecnica-produttiva, da fattori istituzionali, dalla composizione della forza lavoro che a sua volta dipende dal livello degli investimenti pubblici e privati. Infatti, ci si dimentica fin troppo spesso che i fattori di produzione, nella più semplice formulazione di funzione di produzione, sono due, ossia lavoro e capitale.
Questo significa che la produttività del lavoro (e complessiva) dipende dalla produttività del capitale stesso: le gabbie salariali scaricherebbero sui lavoratori del Sud le mancanze del capitale, pagando un costo non imputabile ai lavoratori stessi. Inoltre, una riduzione del costo del lavoro al Sud attirerebbe principalmente attività labour-intensive a basso valore aggiunto ampliando – e non riducendo – il gap produttivo.
A primo impatto uno può semplicemente chiedersi: perché ridurre i salari nominali del Sud quando lo stesso effetto di “equità orizzontale dei salari reali” potrebbe essere raggiunto aumentando i salari nominali del Nord? Probabilmente la risposta che gli autori e compagni liberali darebbero è che il costo del lavoro per le imprese è già troppo elevato: i salari vanno visti sempre al ribasso, mai al rialzo. Come confermano da Confindustria, in particolare con la coppia Bonometti-Bonomi, che a più riprese chiede di derogare ai contratti collettivi nazionali per proteggere le quote profitto di un capitalismo italiano fin troppo accattone.
Altra ipotesi principale che la triade Boeri-Ichino-Moretti considera è che la contrattazione collettiva nazionale implichi automaticamente l’uguaglianza nei salari nominali sull’intero territorio nazionale. Tuttavia, Maurizio Franzini, Elena Granaglia e Michele Raitano dimostrano come in realtà anche controllando per le caratteristiche delle imprese (dimensione e codice Ateco) i salari nominali del Sud sono inferiori rispetto a quelli del Nord.
Inoltre, altro fattore rilevante che Boeri-Ichino-Moretti sembrano non considerare con la dovuta attenzione è la definizione del deflatore per ottenere il salario reale. I tre usano solamente i prezzi del mercato immobiliare per definire i salari reali e concentrandosi solo sulle “variazioni between” macro-aree. Tuttavia, la disuguaglianza nei prezzi non è solo “between”, ma anche e soprattutto “within”, ossia alta varianza dei prezzi all’interno della stessa macro-area. Se volessimo questa “equità orizzontale” dovremmo introdurre gabbie per ogni livello di deflatore, il che però, come giustamente argomentano Franzini-Granaglia-Raitano, sarebbe regressivo.
Infine, e questo è un punto politico ed economico dirimente, nel deflatore non vengono considerati i servizi non-monetari. Nello specifico, per un corretto calcolo del deflatore e quindi dei salari reali, dovremmo includere una stima dei prezzi dei servizi pubblici. Seguendo l’impianto neoclassico, il prezzo-valore di un bene è determinato dalla sua scarsità. Beni e servizi pubblici nel Meridione sono scarsi in confronto al Nord, il che renderebbe il loro prezzo molto più alto a condizioni qualitative peggiori. In sostanza, i sostenitori delle gabbie salariali dimenticano come ai maggiori salari reali del Sud, in realtà, deve essere scontato il costo di accesso a servizi pubblici essenziali – magari “acquistandoli” al Nord come per la sanità o Università – o attraverso costi privati come nel caso del trasporto pubblico.
Le gabbie salariali vengono spesso riproposte con l’idea che esse siano state un fattore causale per lo straordinario periodo di crescita dell’economia italiana nel secondo dopoguerra. Guido de Blasio e Samuele Poy, al contrario, affermano che l’effetto complessivo delle gabbie salariali degli anni ’50 sull’occupazione è nullo e che “l’effetto causale gabbie salariali-crescita è improbabile”.
Il richiamo ciclico alla reintroduzione delle gabbie salariali da parte degli economisti liberali non è una novità, bensì la solita e coscienziosa ricerca di maggior potere contrattuale del capitale sul lavoro, con l’obiettivo di favorire la quota profitti sulla quota salari. Se così non fosse, l’equità orizzontale dei salari reali si dovrebbe perseguire con un rialzo dei salari nominali (al Nord) e contemporaneamente un massiccio intervento di modernizzazione e sviluppo sociale ed economico del Meridione.