Da anni la Rai è uno dei bersagli della retorica anti-sprecona nel pubblico. L’azienda di Viale Mazzini viene criticata perché, senza il supporto pubblico, non riuscirebbe a restare sul mercato. E che quindi la sua offerta dovrebbe o virare verso il mero intrattenimento, entrando in competizione con le televisioni private, oppure essere lasciata al mercato, privatizzandola.
Non è possibile, secondo questa retorica, che ai contribuenti italiani sia ancora richiesto di finanziare un tale spreco di soldi.
Questa critica si lega alla narrazione della partitocrazia. Una critica portata alla ribalta da Marco Pannella e dal Partito Radicale già nella seconda metà del ‘900 e che ancora oggi resta attuale.
Negli anni dei governi Berlusconi abbiamo visto un utilizzo propagandistico della televisione pubblica, con vere e proprie epurazioni. L’Editto Bulgaro, come è noto, rappresenta uno degli attacchi più sfrontati alla libertà di informazione che il nostro Paese abbia mai conosciuto. Ma anche durante il Governo Giallo Verde, con la nomina di Foa, abbiamo assistito a simili situazioni.
Infine ieri sera, quando la dirigenza Rai ha deciso di difendere il sistema, cercando di censurare il discorso del marito di Chiara Ferragni in cui si facevano nomi e cognomi degli esponenti leghisti che nel corso degli anni si sono lasciati andare a dichiarazioni sugli omosessuali indegne di un Paese civile.
Entrambe queste critiche hanno un fondo di verità. I dirigenti e le dirigenti della Rai ricevono stipendi ingenti rappresentando di fatto una casta. Ciò è ancora più deprecabile viste le problematicità, invece, nei rami più bassi del pubblico. Anche la partitocrazia è un problema da non sottovalutare. L’utilizzo propagandistico della televisione pubblica rischia di inquinare il dibattito politico.
Tuttavia, queste critiche non possono essere intrinsecamente legate alla natura pubblica della Rai.
Sulla governance già in luglio Liberi e Uguali aveva presentato una proposta di riforma e, a seguito delle diatribe scaturite dal discorso di Fedez di ieri, sono in molti a chiedere che questa riforma venga posta al centro dell’agenda politica.
Ma è sulla questione dell’offerta che è necessario impostare un discorso che tenga conto delle caratteristiche fondamentali che una televisione pubblica dovrebbe avere.
La Rai, infatti, non dovrebbe essere interessata al profitto, quanto al valore. Si tratta di due termini che l’economia marginalista ha confuso, legando il valore al prezzo, mentre questa distinzione era ben presente all’interno dell’economia classica. Il cambiamento di prospettiva, dettato di fatto da esigenze teoriche, ha però avuto ricadute profonde sul modo di concepire i rapporti economici.
Negli ultimi anni la Rai, seguendo questa logica, ha sempre di più virato verso una televisione commerciale- sul modello Mediaset- riducendo la sua offerta di alto valore. Non a caso, giusto qualche mese fa, era stata presa in considerazione l’ipotesi, poi ridimensionata, di chiudere canali come Rai Storia che pur non contribuendo al profitto aziendale permettono una diffusione più ampia del sapere e della conoscenza.
Ripercorrendo la storia della Rai si può capire come la sua funzione sia stata ormai denaturata.
Inoltre, il nostro Paese è stato segnato, storicamente, da un problema linguistico. Un problema che affonda le sue radici nel De Vulgari Eloquentia che Dante scrisse nel tentativo di trovare una lingua unitaria per la penisola italiana.
Durante il Risorgimento, il modello linguistico venne ritrovato nella lingua manzoniana de I Promessi Sposi dopo aver lavato i panni in Arno. Questa scelta - imporre una lingua su una popolazione frammentata - venne fortemente criticata da linguisti come Graziadio Isaia Ascoli, che ritenevano invece che la lingua dovesse avere una genesi bottom-up.
Il tentativo di imporre una lingua, ovviamente, non andò a buon fine. Dopo la seconda guerra mondiale il nostro Paese presentava tassi di analfabetismo maggiori rispetto alle altre potenze. La Rai, per colmare queste lacune, decise insieme al Ministero della Pubblica Istruzione di lanciare Non è Mai Troppo Tardi. Si trattava di un programma, condotto dal pedagogista Alberto Manzi, che aveva come fine colmare le lacune scolastiche e di alfabetizzazione del nostro Paese. Secondo alcune stime, questo programma contribuì alla formazione del capitale umano e della lingua nazionale. Il suo successo fu tale che venne imitato anche da altri Paesi.
Un altro esempio, fondamentale, è sicuramente La Notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Un lavoro monumentale che cerca di comprendere quegli anni dolorosi del nostro Paese segnati dalle stragi, dalla strategia della tensione, dalla contestazione, dall’eversione.
Ancora oggi, nonostante le logiche di mercato dietro la Rai che hanno portato a un palinsesto sempre più colmo di giochi a premi e serie televisive di bassa lega, si ritrovano degli esempi lodevoli, come il servizio di Streaming Rai Play e la programmazione di Rai Radio 3.
Un modello per la televisione pubblica del nostro Paese proviene dalla BBC, il servizio pubblico britannico. Nel corso degli anni la BBC ha dato letteralmente vita a rivoluzioni nel campo della cultura. Fu proprio la BBC a scommettere sul gruppo comico Monty Python, mettendo in onda la loro serie Monty Python’s Flying Circus. Una pietra miliare della comicità che segnerà l’ascesa del più grande comico insieme ai fratelli Marx.
Ancora oggi la BBC continua a scommettere, essere audace, investire, innovare. Basti pensare a Fleabag, serie rivelazione degli ultimi anni scritta da Phoebe Waller Bridge. La serie, fino a oggi composta di due stagioni e basata sul lavoro teatrale della stessa, narra la storia di una giovane donna impegnata a bilanciare la sua vita lavorativa, quella personale, familiare e sessuale. Nella seconda stagione, acclamata dalla critica, Fleabag, la protagonista, si innamora di The Priest, un prete impersonato da Andrew Scott, icona gay del cinema britannico. Una serie in grado di parlare di argomenti attuali come l’incomprensione tra coppie, l’ubiquità sessuale e il senso di frustrazione con un tono irriverente e spesso sacrilego.
Mentre l’Italia è ancora al modello Festival di Sanremo, anche dal punto di vista musicale la BBC rappresenta un modello. Ha permesso ad artisti un tempo underground come The Smiths, The Fall e Joy Division/New Order, negli anni ‘70-‘80, di diventare band di punta del panorama britannico. E lo stesso fa oggi: non solo trasmettendo i festival di punta britannici come Leeds e Glastonbury, ma dando spazio a giovani artisti come The 1975, Arlo Parks, Chvrches.
Così facendo la BBC ha creato una cultura pop più promiscua e travolgente, che si è poi diffusa nel mondo, nonostante anche in UK la BBC sia sotto attacco, come ricorda Mariana Mazzucato.
Questo deve tornare a essere il modello della Rai. Tornare a investire, essere audace, sfuggire a fasulle logiche di mercato. Il mondo della cultura e dell’intrattenimento, così come quello dell’informazione, sono in una fase di mutamento. Soltanto se la Rai saprà cogliere lo zeitgeist e riuscirà davvero a rinnovarsi potrà mettersi al riparo dalle critiche.