Il primo febbraio scorso il nuovo parlamento birmano guidato dai democratici dell’NLD, eletto con una maggioranza schiacciante nelle elezioni di novembre, si sarebbe dovuto riunire per la prima volta. Invece, le comunicazioni sono state interrotte, blocchi stradali sono apparsi per le vie del paese e centinaia di politici pro-democrazia sono stati messi agli arresti domiciliari. Ciò che stava avvenendo è apparso immediatamente chiaro: i militari non hanno riconosciuto il risultato delle elezioni, dichiarando un anno di stato di emergenza.
L’esercito non ha un semplice ruolo difensivo in Myanmar. Il Tatmadaw, come sono chiamate le forze armate birmane, è un’istituzione centrale sin dall’indipendenza. Un monolite, che si è imposto con la forza come collante per combattere le innumerevoli lacerazioni etniche e ideologiche che attraversano il turbolento paese, ma che ha dimostrato una notevole resilienza nel mantenimento del potere. Il Tatmadaw è guidato da un’etica che potremmo definire “pretoriana”: si racconta come scudo e spada dell’unità e della sicurezza nazionale, giustificando così ogni intervento in politica, anche a discapito di governi eletti1.
Il Myanmar è caratterizzato da un mosaico di 135 etnie diverse il cui ceppo principale, quello dei birmani, si trova distribuito in gran parte in quello che da sempre è il centro politico nazionale, il vasto bassopiano attraversato dal fiume Irrawaddy che dal cuore del paese arriva fino alla costa. Intorno, sorgono catene montuose ed un territorio impervio abitato da popolazioni storicamente autonome, come gli Shan, i Karen e i Kachin, su cui di fatto nessuna amministrazione centrale è mai riuscita ad imporre efficacemente il proprio volere.
Come in altre aree, durante il colonialismo inglese vennero instaurate istituzioni non finalizzate ad un governo efficiente, ma all’estrazione delle risorse naturali. Il bassopiano birmano, più gestibile e profittevole, vide quindi l’affermarsi di un’amministrazione centralizzata mentre nelle montagne alla periferia si lasciò larga libertà alle etnie locali. Piuttosto che educare una classe burocratica indigena per gestire gli affari di stato, gli inglesi preferirono gli indiani, escludendo i birmani2.
Al momento dell’indipendenza e dell’emigrazione dell’amministrazione coloniale le nuove istituzioni democratiche risultarono quindi prive di figure competenti ed immediatamente fragili, dovendo inoltre affrontare importanti sfide tra cui la questione dell’autodeterminazione delle popolazioni della periferia, delle quali alcune che non sentivano propria l’appartenenza al nuovo Stato, oltre che la necessità di affrontare le conseguenze di shock esterni come la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale.
Si sollevarono numerose insurrezioni etniche e politiche, con il potente Partito Comunista Birmano capace di prendere il controllo di larga parte del nord. Ciò sullo sfondo di un’economia lasciata dal colonialismo incapace di servire le necessità delle masse per via della sua arretratezza, mancanza di manifattura e di infrastrutture adeguate. Nel 1962 mentre il governo proseguiva i colloqui di pace verso il federalismo, tanto agognato dalle minoranze etniche, il Tatmadaw guidato dal generale Ne Win prese il potere con un colpo di stato per evitare la “disgregazione del paese”.
Da allora, i militari hanno governato praticamente ininterrottamente fino al 2011, prima con una inaspettata “svolta socialista” al fine di ridurre l’influenza del Partito Comunista Birmano e migliorare le relazioni con la Cina maoista, poi attraverso una giunta militare guidata dal generale Than Shwe che si è imposta con la violenza dopo non aver riconosciuto il risultato delle prime elezioni libere del 1990, vinte dai democratici, condannando il Myanmar all’isolazionismo. La questione etnica è rimasta irrisolta, tutt’oggi con insurrezioni nella periferia del paese guidate da innumerevoli gruppi armati. Invece di affrontare le reali cause alla base del conflitto interno, i militari hanno storicamente risposto con più repressione e centralizzazione3.
Decenni di pieno potere ne hanno solidificato la leadership, ereditando il modello economico coloniale fondato sull’estrazione di risorse naturali e sull’agricoltura. Ciò ha favorito l’emergere di una limitata classe facoltosa ben legata all’amministrazione che ha potuto pienamente godere i privilegi delle rendite, in netto contrasto con il resto della popolazione largamente rurale. La scarsità di servizi pubblici come assistenza sanitaria ed educazione di qualità, e la mancanza di una politica industriale capace di sviluppare un apparato manifatturiero urbano che assorba la disoccupazione, hanno causato un peggioramento delle disuguaglianze. Questo soprattutto a seguito delle riforme di liberalizzazione dell’economia avvenute dagli anni ‘90 che hanno portato investimenti esteri nel paese, concentratesi tuttavia sempre nei settori estrattivi4.
Nel 2011, si aprì un decennio di relativa liberalizzazione politica. Ciò è stato il risultato della comprensione da parte dei generali che per mantenere il potere era diventato necessario il superamento dell’isolamento del Myanmar nella scena internazionale, migliorando i rapporti con l’Occidente e concedendo limitati diritti politici nella speranza di una rimozione delle sanzioni, imposte per le numerose violazioni dei diritti umani. La nuova costituzione ha permesso più libertà di espressione, di organizzazione sindacale ed elezioni multipartitiche. Tuttavia, il Tatmadaw mantenne la propria indipendenza rispetto alla politica, l’elezione di un vicepresidente, il monopolio sui ministeri di Difesa, Interno e Affari di Confine con per legge il 25% dei rappresentanti in Parlamento, di fatto avendo la possibilità di mettere il veto a qualsiasi modifica costituzionale.
Quando nel 2015 i democratici dell’NLD hanno vinto le elezioni guidati da Aung San Suu Kyi, storica leader del partito e premio Nobel per la Pace, una nuova era per il Myanmar sembrava aprirsi. Tuttavia, nuove ombre iniziarono ad agitarsi sul governo: accuse da parte di organizzazioni per la difesa dei diritti umani di massiccio abuso della forza contro gli oppositori e di aver permesso l’intensificarsi della tragedia dei Rohingya, minoranza musulmana insediata nello Stato di Rakhine, al confine col Bangladesh. Riconosciuto dall’ONU come genocidio, la loro persecuzione dura da decenni: sono spogliati della cittadinanza e non in grado di ottenere i servizi essenziali, oltre che vittima di numerose operazioni militari che hanno portato ad emigrazioni di massa nei paesi vicini. Si può quindi comprendere il contesto del colpo di stato di quest’anno. Il Tatmadaw non ha riconquistato il potere, perché non l’ha mai perso. Tuttavia, per tutelare quel sistema economico di rendite ed estrazione di risorse naturali oltre che per mantenere il controllo effettivo del paese, il Tatmadaw non ha potuto tollerare la sconfitta netta del suo partito alle elezioni di novembre, temendo di perdere la propria influenza sull’andamento del processo democratico. A seguito delle proteste di massa, l’esercito non ha lesinato nell’uso estremo della violenza: il 3 marzo, 38 manifestanti sono stati uccisi. Egli pare tuttavia essere consapevole che non potrà fare uso di solo la bieca repressione in futuro, pena l'irreversibile rottura dei rapporti con l’Occidente e la completa instabilità domestica. Per ora, la costituzione non è stata infatti abrogata e i militari dichiarano di aver agito legalmente, affermando di voler ripetere le elezioni tra un anno. Se l’opposizione riuscirà a trarre vantaggio dalle mobilitazioni e dall’impopolarità del colpo di stato per cambiare radicalmente il paese, solo il tempo potrà dirlo.
Riferimenti
1 Macdonald, Adam P. "From Military Rule to Electoral Authoritarianism: The Reconfiguration of Power in Myanmar and its Future". Asian Affairs: An American Review. February 2013.
2 Elliott Prasse-Freeman, Phyo Win Latt. "Class and Inequality" in "Routledge Handbook of Contemporary Myanmar". Taylor & Francis Group. 2017.
3 Jolliffe, Kim. "Ethnic Armed Conflict and Territorial Administration in Myanmar". The Asia Foundation. July 2015.
4 Elliott Prasse-Freeman, Phyo Win Latt.
[…] Colpo di stato e rivolta: l’infinita odissea del Myanmar (kriticaeconomica.com) […]