Il martello pneumatico di Bonomi non perde potenza, anzi continua a sferrare attacchi al mondo del lavoro. Per ultimo l’invito a non rinnovare il blocco dei licenziamenti.
Questa “richiesta” – per altro subito accolta dal Ministro Patuanelli che afferma che questa misura terminerà con il 2020 – è solo un pezzo di un più ampio programma politico presentato da Confindustria.
Infatti, nel libro “Il coraggio del futuro. Italia 2030-2050” gli industriali ribadiscono una chiara visione dell’educazione e del lavoro.
Attraverso metafore ed inglesismi vari, Confindustria propone una radicale trasformazione del sistema educativo per “valorizzare il capitale umano” che è una delle fonti primarie per aumentare la “nuova produttività”. In sostanza, chiedono un sistema educativo che assecondi di più i bisogni e le necessità delle imprese. In questa direzione riportano tra le cause principali del mismatch tra domanda ed offerta di lavoro la scarsa diffusione dell’alternanza scuola-lavoro, o la mancanza della cosiddetta vocational education i.e. percorsi professionalizzanti (anche a livello terziario). L’istituzione scuola è vista come una settore dipendente del più ampio sistema produttivo e in quanto tale deve essere formato e indirizzato secondo le principali necessità del mercato. Viene meno, dunque, uno dei principali obiettivi della scuola: educare, ma non per il lavoro, ma prima di tutto per essere in grado di interpretare e partecipare attivamente alla vita sociale. La visione di un sistema educativo che sforni braccia e cervelli per l’impresa è equivalente ad una grande fabbrica che produce automi necessari alla produzione in tutti gli altri settori dell’economia.
Ovviamente, anche il mercato del lavoro non è mai sufficientemente adeguato alle richieste degli industriali. Essendo i mercati globalizzati, scrivono dalle parti di Confindustria, è necessario adeguarsi ai migliori standard dei principali competitor internazionali. Ci si chiede, dunque, perché siamo sempre più vicini alle “tigri asiatiche”, piuttosto che alla Danimarca? Una pura flexicurity richiede una forte componente di sostegno ai redditi. Cosa a cui Bonomi si oppone fortemente, pena essere etichettati “Sussidistan”. Infatti, si legge: “da anni lo Stato spende circa 30 miliardi l’anno per le politiche del lavoro e li destina, pressoché interamente alle misure di sostegno al reddito cercando in ogni modo di mantenere in essere, attraverso gli ammortizzatori sociali, posti di lavoro anche quando non vi sia lavoro. […] serve, piuttosto, prendersi cura del lavoro e dei lavoratori, cioè delle imprese e delle persone”. L’obiettivo e la richiesta di Bonomi è chiara, spostare l’aiuto Statale dai lavoratori alle imprese, con conseguente maggior potere contrattuale dei profitti sui salari.
Se dal lato security Confindustria non pare voglia garantire molto, dal lato flessibilità pretende molto. Oltre allo sblocco dei licenziamenti, gli industriali propongono una ulteriore stagione di flessibilità del mercato. Nello specifico, “va valorizzata la somministrazione, perché strumento flessibile, preciso nel verificare le competenze del lavoratore e, nel contempo, in grado di migliorarne rapidamente le competenze con la formazione”. In realtà, la somministrazione è un vantaggio economico per le imprese, da un lato, e dall’altro favorisce disparità e individualizzazione tra i lavoratori. Parcellizzazione che consente al blocco industriale di preservare il suo strapotere contrattuale.
Alle posizioni di Confindustria, si aggiunge Pietro Ichino, il quale aggiunge – difatti se ne sentiva la mancanza tra le pagine del rapporto di Confindustria – la responsabilità individuale della disoccupazione. Affermando che il passaggio dalla cassa integrazione al trattamento di disoccupazione “incentiva gli interessati ad attivarsi” significa sostanzialmente affermare che lo stato di disoccupazione è una responsabilità (o meglio colpa) principalmente individuale.
In generale, queste posizioni si basano sull’idea che il livello di occupazione sia determinato nel mercato del lavoro dall’equilibrio tra domanda ed offerta. Inoltre, la possibilità di licenziare permetterebbe alle imprese di avere un risparmio di costi e ampliare margini di profitto così da poter affrontare meglio la ripartenza e, semmai, assumere ancora più di prima.
In realtà, seppur oggi visto come un bolscevico, Keynes aveva ben intuito come il livello occupazionale sia determinato dal mercato dei beni, piuttosto che da quello del lavoro. L’avvertimento di Bonomi (dal sapore di minaccia) sull’importante aumento dei licenziamenti avrà ripercussioni significative in termini di reddito disponibile. Il lockdown ha già dato un bel colpo ai redditi disponibili, specie dei soggetti nella coda sinistra della distribuzione. Facilitare licenziamenti significa gettare benzina sul fuoco e le aspettative di profitto degli imprenditori si rivedranno ancor più al ribasso, impedendo il riassorbimento dei disoccupati.
L’argomentazione di Ichino per cui le imprese sarebbero meno incentivate ad assumere col blocco dei licenziamenti sembra ignorare totalmente il fatto che le decisioni di investimento e quindi di assunzione da parte delle imprese dipendano principalmente da aspettative di profitto. Inoltre, il blocco dei licenziamenti riguarda solo licenziamenti “economici”, quindi per giustificato motivo oggettivo (quali il calo di fatturato, crisi economica, ecc.). Se un’impresa assume, significa che non è in una situazione di oggettiva difficoltà economica e non rientra dunque nella platea del blocco dei licenziamenti. In sostanza, perché un’impresa che non rientra nelle condizioni oggettive di difficoltà economica dovrebbe essere scoraggiata dall’assunzione in caso di contestuale blocco di licenziamento?
La questione non è solo economica – nonostante le ripetute mancanze empiriche, per ultima l’analisi diffusa di Emiliano Brancaccio – ma anche e soprattutto politica: gli industriali stanno razionalmente agendo per tutelare i loro interessi, mantenere il loro potere politico-economico ed anzi sfruttare la crisi per consolidarlo.