Pubblichiamo la risposta di Mattia Marasti al blog "Economia Italia".
Mercoledì 10 febbraio in tarda serata, dopo una giornata estenuante, ho scoperto casualmente, che il blog Economia Italia, durante una live, stava discutendo di un articolo da me scritto su Gli Stati Generali. Il mio contributo rispondeva a un loro pezzo - il cui autore ringrazio per la pacata e serena discussione - riguardante il Partito Democratico. In particolare il mio pezzo cercava di mostrare i limiti della Terza Via, quello che spesso è chiamato “riformismo”. Successivamente, dopo aver manifestato il mio disappunto per non essere stato neppure avvertito, sono stato invitato alla diretta.
Sono entrato, in modo forse ingenuo, con l’intento di discutere nel rispetto delle posizioni reciproche, cercando di chiarire dubbi e controargomentazioni. Quello a cui invece ho assistito è stato un attacco frontale, pieno di voli pindarici - si veda più sotto la questione “pensionati” - e di confusione, con un personaggio singolare che per tutta la live non ha fatto altro che accusare i critici del neoliberismo di “parlare di aria fritta”. Complice anche la stanchezza e un periodo non particolarmente felice, la mia esposizione non è stata particolarmente brillante e di questo mi scuso profondamente.
Ho poi abbandonato la live poiché, discutendo di pubblica amministrazione, uno dei presenti ha cominciato a sbraitare chiedendomi: “Ma sai quanti pensionati ci sono in Italia?”.
In questo pezzo, che chiude da parte mia la diatriba innescata dalla partecipazione alla diretta, vorrei fare due cose: cercare di chiarire alcune mie posizioni, difendendomi dalla critiche avanzate dai partecipanti alla live, e fare una riflessione sulla cultura autoreferenziale in cui mi sono imbattuto.
Partirò da alcune critiche che sono state rivolte al mio pezzo.
Prima ancora che entrassi nella diretta, è stata contesta l’affermazione, contenuta nel mio pezzo per Gli Stati Generali, secondo cui la Terza via, insieme al neoliberismo, sarebbe stata una delle cause della crisi del 2008. Non ne è sicuramente stata l’unica causa, questo è certo. Eppure, la Financial Crisis Inquiry Commission ha ben evidenziato la mancata regolamentazione dei mercati finanziari come causa della crisi. Cito letteralmente:
"More than 30 years of deregulation and reliance on self-regulation by financial institutions, championed by former Federal Reserve chairman Alan Greenspan and others, supported by successive administrations and Congresses, and actively pushed by the powerful financial industry at every turn, had stripped away key safeguards, which could have helped avoid catastrophe. This approach had opened up gaps in oversight of critical areas with trillions of dollars at risk, such as the shadow banking system and over-the-counter derivatives markets. In addition, the government permitted financial firms to pick their preferred regulators in what became a race to the weakest supervisor".
Sul neoliberismo: mi è stata chiesta una definizione. Ho detto: “Il neoliberismo è quell’ideologia che crede nella superiorità del mercato e riduce l’esistenza umana al mero calcolo economico”. Una definizione mutuata da Mark Fisher, dal suo “Realismo Capitalista”. Io non voglio qui addentrarmi nella discussione, sterile, su cosa sia o non sia il capitalismo. Mi limiterò a dire che la critica al neoliberismo non è affatto una critica da estrema sinistra. Rodrik ha scritto un articolo interessante sul tema.
Sulla Terza Via: come ha saggiamente scritto Michela Cella proprio su Gli Stati Generali, esistono due Terze vie, una ideale e una pratica. La Terza via che mi sento di sposare è quella ideale che tenta di coniugare il socialismo con il libero mercato. Uno Stato moderno, efficiente, dinamico in grado di stimolare da una parte la crescita del libero mercato, dall’altra in grado di fornire strumenti di Welfare State universali. Quando però la Terza via è stata applicata, come afferma sempre Cella nel suo articolo, è mancato il socialismo.
Su questa riflessione, però, è necessario fare qualche passo in più. Nella diretta mi è stato contestato di parlare di ideologie. Ma proprio di questo si parla: vi è una netta differenza tra quello che è una serie di proposte politiche e quello che è un’ideologia. Le proposte politiche sono sempre sorrette da un’ideologia.
Sulla questione dei trent’anni gloriosi in Italia, penso che la posizione dei presenti alla diretta fosse quantomeno superficiale. La discussione sulle luci e le ombre di quel modello è ben più complessa di “abbiamo fatto un sacco di debito”. Non può di certo essere esaurita in una discussione e nemmeno in un articolo.
Vorrei inoltre spendere qualche parola sul tema del “politichese”, che sono stato accusato di parlare. Ammetto le mie colpe: io parlo politichese. Ma, a differenza di chi si nasconde dietro una presunta tecnica imparziale, io ammetto che, quando si discute, non possiamo non parlare in politichese, perché le posizioni che si possono avere su questo o quel tema non si basano soltanto su un mero calcolo, ma si innestano su convinzioni, valori, obiettivi. Quindi non ero il solo a parlare in politichese in quella diretta, ma ero l’unico ad esserne consapevole.
Spero che queste spiegazioni chiariscano, in qualche modo, quello che volevo dire.
Vengo ora alla riflessione sulla comunicazione e sul dibattito. La mattina di giovedì, dopo aver dormito pochissimo, mi ritrovo un articolo scritto proprio da Umberto, responsabile del blog Economia Italia, che mi invita a studiare (letteralmente).
Ringrazio Umberto per il suo invito: sento sempre un sacco di lacune dentro di me e colmarle intellettualmente è un’esperienza che consiglierei anche a lui.
Ma c’è qualcosa che mi lascia perplesso: sembra che sotto il suo articolo vi sia la convinzione, che si evince anche dal nome del suo blog, di possedere una verità eterna. Solo studiando noi poveri mortali possiamo sperare di giungere al suo stesso livello di illuminazione. Così tante certezze: non so se invidiarlo o biasimarlo.
Se questa è l’idea dietro a ciò che dicono e scrivono questi personaggi, allora credo che dovremmo davvero discutere se sia utile aprire un dibattito con loro. Non si fa un dibattito per vincere, ma per informare.
In questi anni invece sembra aver preso sempre più piede una perversione per il blastare nei dibattiti. Anche io, lo ammetto e me ne scuso, ho spesso utilizzato questo linguaggio. Ma sono qui a dire che è un linguaggio pernicioso, autoreferenziale e da bullismo. Il mondo in cui viviamo è un mondo complicato, impossibile da cogliere nella sua interezza: il dialogo, rispettoso, tra posizioni differenti arricchisce. Permettetemi in questo frangente di ringraziare di cuore Stefano Leanza che, pur da posizioni diverse dalle mie, mi porta sempre a profonde riflessioni.
Abbiamo bisogno di dibattere, di contraddirci, di lasciarci contaminare da idee che non siano le nostre, smettendo di credere graniticamente nelle nostre idee e rifuggendo dall’innamorarcene. E per farlo dobbiamo isolare, tutti, le persone verbalmente violente, intransigenti, convinte purtroppo di possedere verità essenziali che gli altri non possono raggiungere: è importante quindi che, assieme, smettiamo di dare attenzioni a queste persone e, lo sottolineo, deve essere un comportamento collettivo. Perché, come recitava una canzone che ha fatto da colonna sonora ai periodi felici della mia gioventù, “it takes an ocean not to break” che può essere tradotto in italiano con “affinché un’onda non si infranga sulla spiaggia, è necessario che si fermi l’oceano”.
Mi permetterete ora una piccola questione personale. In un tweet Umberto mi ha prima chiamato “ragazzaccio” e poi mi ha definito “un’ipocrita”. Fortunatamente per lui, non ha commesso una svista come è successo a me giusto qualche giorno fa. Sono Genderfluid. Quindi, nessun errore grammaticale.