Puntuale come le tasse, la passeggiata di Kant a Königsberg e la lagna "i bambini, nessuno pensa ai bambini?!" della moglie del reverendo Lovejoy dei Simpsons, prima o poi doveva arrivare la geremiade dell'editorialista liberale dedicata ai "più deboli". Sul Corriere della Sera del 12 marzo il tal membro della sterminata categoria, Dario Di Vico, ne ha confezionata una coi fiocchi, estraendo dal mazzo per l'occasione i 3 milioni di anziani non autosufficienti, causa malanni fisici o psichici (Alzheimer, Parkinson).
Forse ancor più dei comuni indigenti, si tratta di persone che necessitano di aiuto permanente, sulle quali si sofferma il corrierista di buon cuore per esorcizzare il rischio che siano tagliate fuori dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. "Il welfare italiano", ricorda allarmato Di Vico, "è stato interessato negli ultimi anni da diversi interventi di riforma, dall’Aspi del 2012 al Reddito di cittadinanza del 2019 fino all’Iscro del 2021, ma nessuno di essi ha riguardato la platea dei non autosufficienti".
E conclude, citando un network di associazioni no profit, analizzando i due "problemi di fondo" da affrontare possibilmente non sul lungo periodo, cioè quando saremo tutti morti. Vale a dire: scoordinamento degli interventi pubblici, spia dell'annoso menefreghismo politico, e scarsezza di servizi a domicilio, essenziali per chi è inabile ad arrangiarsi nell'essenziale. La proposta degli addetti ai lavori prevede 7,5 miliardi spalmati fra il 2022 e il 2026, consapevoli non che potrebbero risultare insufficienti, bensì inesistenti, ovvero che il Pnrr "ignori del tutto" i più sfortunati di quella già malandata massa che va sotto il nome di "terza età".
In sè tutto corretto, ci mancherebbe. Tuttavia la domanda, come diceva quello, sorge spontanea: ma chissà per quale arcano motivo i governanti si sono finora disinteressati della sorte di ben tre milioni di cittadini? Magari perché, a differenza del samaritano Di Vico, sono cattivi? Per niente. Perché sono coerenti. Dimostrano una inattaccabile coerenza al modello sociale del liberalismo (liberismo, per inciso, si dice solo in Italia, dai tempi in cui si distingueva fra einaudiani e crociani, ma oramai Croce chi se lo fila più?).
Come è noto, per il liberale doc il mercato è il miglior regolatore dell'economia e dell'esistenza tutta. Purché, s'intende, sia libero mercato.
Ora, come mostra la storia degli ultimi decenni, e per la verità degli ultimi due tre secoli, un mercato libero non si è mai visto e probabilmente non si vedrà mai. Lo Stato, difatti, ha sempre, fin dall'inizio agito come propulsore e mallevadore di specifici interessi privati, solitamente molto influenti e di grandi dimensioni, spianando loro la strada con le armi del diritto e della guerra e spacciandone l'avanzata come il progredire della "libertà" d'impresa. Dalla settecentesca Compagnia dalle Indie alle gigantesche concentrazioni finanziarie dei giorni nostri, la favola liberale ha ammannito la storiella che lo sviluppo "naturale" dell'iniziativa privata, se lasciata libera di espandersi, seguirebbe un corso indipendente e contrapposto al pubblico (che sarebbe poi l'entità che dovrebbe dar forma al bene comune, concetto del tutto evaporato).
Come già predicava Adam Smith, lo Stato deve limitarsi a garantire il buon funzionamento del mercato, occupandosi di quelle articolazioni che hanno il difetto di non essere vantaggiose per il privato: difesa militare, ordine pubblico e forse - forse! - sanità e scuola. Insomma l'uomo liberale è un uomo anzitutto oeconomicus, che bada al conto finale di costi e benefici, spese e ricavi, perdite e guadagni. Il resto? E' noia.
Aggiornata ai nostri tempi con un'iniezione di welfare (la variante tedesca che domina l'Europa di Bruxelles, l'ordoliberalismo, parla addirittura di "economia sociale di mercato"), la mistica liberale costringe tutti "a giocare in qualche misura il gioco del calcolo spregiudicato, competitivo e autointeressato, ad adottare un atteggiamento di diffidenza e disprezzo tendenziale verso il prossimo", come ha scritto di recente Andrea Zhok, il più lucido filosofo attualmente in circolazione in Italia.
Ma allora con i "più deboli", come la mettiamo? Come mai il liberalissimo Corsera si preoccupa di una fascia di popolazione che, secondo i canoni econometrici, sono poco più che pesi morti, cellule improduttive, consumatori che non consumano abbastanza, oggettivamente superflui? Un po' è la coscienza sporca che cerca compensazione nell'ipocrisia, indubbiamente. Ma molto di più è la concezione, in questo adamantina, della spesa pubblica come mucca da mungere per finanziare una nicchia che in questo caso non macina profitti (si chiama no profit per qualcosa), ma che deve restare in capo a soggetti privati (le associazioni di volontariato, la Caritas eccetera).
Anziché pensare a uno Stato che faccia lo Stato, che si assuma l'onere in proprio di un sistema razionale e capillare di assistenza stabile - che comprenda pure una parte di "terzo settore", per carità - secondo i liberaloni basta ungere le ruote del carretto e farlo andare da sé. E chi se ne importa del dovere di assicurare copertura universale e uguale per tutti a concittadini che ne avrebbero il diritto per il solo fatto di essere tali? Guai, si incorrerebbe nell'ignominioso reato di assistenzialismo. Foraggiare la miriade di operatori sì, perseguire un obbligo che discende dal famoso bene comune, quello mai.
I Di Vico della sagra liberale prima ci spiegano in tutte le salse e i condimenti che il mercato è il più efficiente meccanismo di allocazione delle risorse, salvo cadere regolarmente dal pero accorgendosi che tanto efficiente non è, se abbandona alle pie intenzioni di anime caritatevoli il destino di qualche milione di individui (per la teoria liberale conta soltanto l'individuo, non la società, e men che meno la comunità). È una solfa talmente trita e ritrita che passa la voglia di tornarci su. O al contrario viene una incontenibile, prorompente, bellicosa voglia di socialismo.