Nell’ultimo, doloroso film di Ken Loach “Sorry we missed you” il protagonista Ricky è un uomo di mezza età della working class britannica, sull’orlo della disoccupazione. Ricky decide di contrarre un debito per l’acquisto di un furgoncino con cui svolgere la professione di fattorino “collaborando”, ma di fatto trasformandosi in uno schiavo, con una ditta di consegne a domicilio che distribuisce per i grandi marchi della delivery economy – Amazon su tutti.
L’attività, manco a dirlo, è priva di garanzie sindacali. Sedotto dalla falsa narrazione del “self-employed driver”, del “tu non lavori per noi ma con noi”, Ricky arriverà a sacrificare tutto il suo tempo (15 ore giornaliere), le sue energie corporee finanche mentali ed il suo ruolo di padre e marito sull’altare di una produttività (s)misurata solo ed esclusivamente da algoritmi.
Il supervisore e “team leader” Maloney, patologico aguzzino e ingranaggio di un tanto verticale quanto virtuale rapporto di comando, arriva a decretare con tanto di sorriso che è l’algoritmo che “decide chi vive e chi muore”, tenendo in mano il palmare da cui dipende la vita lavorativa del lavoratore-collaboratore ma che per un isomorfismo neoliberista si può dire la sua vita tout-court.
L’alienazione psicologica, affettiva e sociale a cui si sottopone Ricky ha come scopo la possibilità di contrarre un mutuo e dunque un ulteriore debito per avere finalmente una “casa di proprietà”, vista come simbolo sociale di un passaggio di classe.
La degradazione dei rapporti familiari porterà all’isolamento aggressivo del figlio adolescente sempre più dipendente dagli schermi, oltre che a forme di insicurezza psicologica della figlia minore e a un disconoscimento complessivo della dimensione comunicativa, collettiva, solidale.
La strada per “il paradiso” è lastricata di belle parole sull’essere imprenditore di se stessi, sull’assenza di un orario di lavoro fisso e sulla possibilità di essere padroni della propria performance. Ma questa falsa “dogmatica” neoliberista con le sue ingiunzioni comportamentali porta alla creazione di un individuo tanto eticamente costruito (creato ex nihilo da un ordine del discorso minuziosamente controllato) quanto strutturalmente colpevolizzato.
La spirale del debito è una spirale di colpe: la parola tedesca per indicare il debito, Schuld, significa allo stesso tempo, spietatamente, “colpa”, dando misura, come afferma Nietzsche nella “Genealogia della morale”, di come la morale prodotta dall’economia capitalista sia una morale dei creditori. Quella dell’essere indebitati sembra dunque configurarsi come l’esperienza contemporanea per eccellenza.
L’economia neoliberista globalmente imperante ma da-sempre-marcescente è soggettiva, cioè produce processi di soggettivazione volti alla creazione di un “soggetto debitore”: il lavoro, nell’“economia del debito” (così Maurizio Lazzarato preferisce chiamare il capitalismo finanziario, ne “La fabbrica dell’uomo indebitato”) è inscindibile dal “lavoro su di sé”: ogni costituzione di un soggetto debitore e la stessa relazione creditore-debitore assumono strutturalmente connotati morali.
Il modello non è più, dunque, come nell’economia classica, quello del lavoratore, del produttore o dell’homo oeconomicus del libero scambio: il capitalismo ha gettato la maschera e ha prodotto un essere già-da-sempre-indebitato.
Non si tratta nemmeno più di autoimprenditorialità, dato che la condizione del debito è allargata dalle statistiche a una situazione precedente a quella dell’ingresso nel mercato del lavoro, addirittura al “debito pro-capite”: se nel film Ricky è un individuo indebitato, così lo sono i suoi figli ancora non inseriti nel mondo del lavoro, considerando che ogni nuovo bambino nato nel Regno Unito ha già “sulle spalle” una fetta di 17mila sterline di debito pubblico.
La posta in gioco, quindi, non è più nemmeno la “forza-lavoro” intesa come capacità lavorativa specifica (“ho queste braccia e posso svolgere questo lavoro”), bensì la vita in sé in quanto “potenzialità” (di essere indebitata e ripagare) biologica sussunta nei circuiti di sfruttamento di un’economia del debito, che “[...] emerge in primo piano come capitale umano, deposito da far fruttare in un processo che invece che arricchire impoverisce le stesse risorse che mette a profitto” (Elettra Stimilli, “Debito e colpa”, Ediesse editore).
“Il delirio della forma debito permette al capitale di riprodurre se stesso nel dominio della mera promessa oltre i limiti attuali della biosfera”: così afferma Melinda Cooper in un’analisi che mette a fuoco l’imperialismo del debito e i processi con cui la vita biologica è stata trasformata in plusvalore.
Il debito si configura dunque come dispositivo di produzione e di governo di soggettività: quello creditore-debitore è un rapporto fondativo del capitalismo e dello stesso fatto economico (come vedremo più avanti seguendo le riflessioni di Nietzsche e di Deleuze), ma soprattutto è trasversale agli altri tipi di rapporti prodotti dal capitalismo, tra lavoro e Capitale, tra Welfare State e utente, tra produttore e consumatore, divenendo rapporto di potere universale che tutto ingloba, normativizza, governa, controlla e produce.
Nessuno è esente dal debito, nemmeno gli Stati, e l’uomo indebitato diviene automaticamente parte di una collettività indebitata, in una sorta di secolarizzazione del fatto religioso del peccato originale: da individuo macchiato dal peccato alla nascita a cittadino indebitato, senza, in questo caso, la possibilità di una redenzione. L’attività economica e quella etico-politica di produzione di un soggetto si compenetrano per favorire la nascita di tecniche di governamentalità, come ci insegna Foucault in “Nascita della biopolitica”.
Il debitore è formalmente libero. Il potere del vincolo sociale che instaura il debito non prevede, almeno apparentemente, né ideologie né repressioni: il debitore è libero, ma è libero nella misura in cui adotta uno stile di vita eticamente congruo al rimborso del debito, e questo vale tanto per il singolo individuo, nel quale si innestano meccanismi psicologici di colpevolizzazione, quanto per le collettività nazionali.
Questa raffinata e spietata tecnologia di governo del soggetto (e di produzione dello stesso) l’abbiamo vista messa in moto nel decennio alle nostre spalle nei confronti dei paesi del Sud Europa, Grecia su tutti, durante la crisi del debito sovrano (un’immonda sequenza di golpe politici e finanziari per spostare immensi profitti in poche mani e socializzare le perdite) del 2010: questi Stati furono additati dai media dei “virtuosi” paesi del Nord Europa come “spreconi”, “donnaioli”, paesi che hanno vissuto “al di sopra dei propri mezzi” e che quindi avrebbero dovuto fare del sacrificio (leggi “politiche di austerity imposte dalla BCE a trazione tedesca e dagli sciacalli del FMI”) l’unica via di uscita da una crisi connotata più moralmente che spiegata economicamente.
L’accento posto dall’ordine del discorso mediatico sul debito pubblico, con il dogma dei tagli alla spesa pubblica, l’indebitamento pro capite, il ruolo di primo piano dato al dispositivo, tutto linguistico, della “fiducia” tradotta in oracoli numerici dalle agenzie di rating, ci riportano ad una questione centrale: la lotta di classe oggi si gioca intorno al problema del debito. La vicenda della Grecia, con la sua “distruzione” pianificata, ed il sovvertimento antidemocratico della volontà popolare espressa nel referendum del 5 luglio 2015 da parte dei creditori, sono esempi di come l’attuale processo di trasformazione del capitalismo che pone al centro della propria accumulazione l’indebitamento coatto di ogni sfera dell’esistente sia una negazione della democrazia.
La natura squisitamente classista dell’ordine economico e sociale propugnato dagli aedi dell’austerity ha partorito un’involuzione del sistema in forme sempre più diffuse di autoritarismi, populismi e fascismi, come dimostrano, tra gli altri, i casi di Brasile, Ungheria, Stati Uniti ed i fenomeni di generale scivolamento a destra in tutta Europa, come hanno dimostrato l'Ukip in Gran Bretagna e la Lega in Italia.
L’economia, dunque, si configura esattamente come una tecnica di potere politico, gettando la maschera di “scienza” che studia lo scambio: il paradigma sociale non è lo scambio, ma il credito/debito, e alla base della relazione sociale c’è il rapporto verticale e asimmetrico di debitore/creditore e non l’uguaglianza.
Le favole del neoliberismo sono appunto favole. L’economia del debito è un groviglio di tecniche di soggettivazione e governo volte alla produzione e al controllo di un soggetto indebitato e di una sua propria morale.
Tra gli strumenti più efficaci per comprendere questa torsione concettuale c’è, come anticipato, la “Genealogia della morale” di Nietzsche. Nella seconda dissertazione della “Genealogia della morale”, Nietzsche fa del credito il paradigma della relazione sociale, mettendo fuori gioco tutte le teorie basate sull’uguaglianza dello scambio, sull’ipotesi di un uomo “produttore” libero che scambia i suoi prodotti in un mercato autoregolato.
Per il filosofo tedesco, il più antico rapporto sociale è quello tra creditore e debitore, e la creazione di concetti quali “soggettività”, “coscienza” e “memoria” è da ricercarsi all’interno dell’ambito delle obbligazioni del debito: “allevare un animale che possa fare delle promesse”, significa costruirgli una memoria che possa opporsi all’oblio e renderlo dunque responsabile nei confronti del rimborso del credito. Ma far promettere presuppone anche quella che Nietzsche chiama una “mnemotecnica del dolore” che inscriva nel corpo la promessa del rimborso: “solo ciò che non cessa di dolorare resta nella memoria”.
La fiducia, parola magica ripetuta dai media mainstream per indurre al senso di colpa le collettività nazionali e far loro subire manovre di austerity imposte antidemocraticamente, esige collaterali corporei ed incorporei come il lavoro e il tempo di ogni singolo.
Il campo del diritto delle obbligazioni del debito diviene il cuore del “mondo delle tetre faccende”, dei concetti di “colpa”, “colpevolezza”, “repressione”, “cattiva coscienza”.
L’economia, dunque, trova il suo fondamento “non-economico” in un processo etico-politico di produzione di una soggettività dotata di una memoria, di una coscienza e di una moralità che la spingono al senso di colpa e alla responsabilità del rimborso.
Così, alla fine del film Ricky, sommerso dai debiti, truffato dalla stessa ditta per cui “collabora”, abbandonato da qualsiasi protezione dello Stato, decide comunque di andare al lavoro, nonostante la disastrosa condizione fisica e familiare in cui si trova.
“I have to work!”, io devo lavorare.
Io devo lavorare perché devo ripagare il mio debito.
“Ripagherò” dunque sono.
Nel prossimo articolo dedicato al debito e alla sua genealogia vedremo come esso si sia configurato nella storia del capitalismo, con una particolare attenzione alle sue attuazioni contemporanee nel neoliberismo analizzate seguendo le riflessioni di Marx, Deleuze e Guattari.
Riferimenti:
- K. Loach, film Sorry we missed you, 2019
- F. Nietzsche, Genealogia della morale
- M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, 2011
- E. Stimilli, Debito e colpa, 2015
- M. Cooper, La vita come plusvalore, 2013
- M. Foucault, Nascita della biopolitica
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