Nel 1992, lo storico Francis Fukuyama introdusse il concetto di fine della storia. Una volta finita la guerra fredda e con la caduta del regime sovietico nulla si opponeva alla liberaldemocrazia. Si era quindi arrivati a un punto in cui il futuro era ormai compiuto e, sostanzialmente, bastava ritoccare l’esistente, aggiustarlo, renderlo più efficiente.
In questo contesto, si compie altresì la mutazione della sinistra. Dopo un decennio di crisi e sconfitte in quasi tutto l’occidente, con partiti storici come il Partito Comunista Italiano o il Labour Party che perdevano la loro forza attrattiva, si rese necessario un cambiamento di paradigma: la sinistra non avrebbe più dovuto puntare sulle sue battaglie storiche ma accettare il progresso storico, scendere a patti con il capitalismo e migliorarlo. Fu la stagione di Blair in Inghilterra, di Clinton in USA, di Schröder in Germania e di Massimo d’Alema in Italia, che durante la sua presidenza del consiglio, vent’anni prima del governo Renzi, fece un attacco frontale ai sindacati e ai baluardi della sinistra storica.
Non possiamo quindi voltarci indietro e giudicare troppo severamente questa stagione politica, che era conforme con i tempi e la situazione economica in cui il mondo versava.
Ma questo non deve spingerci verso un puro istinto di conservazione: i tempi sono cambiati, i problemi che ci affliggono sono nuovi e più complessi, le strategie politiche (anche se si potrebbe dire l’intera impostazione) e l’ideologia soggiacente, sono ormai obsolete. Non a caso, partiti di sinistra che hanno sposato una linea accondiscendente, spostandosi sempre di più verso il centro, sono stati penalizzati alle urne, come il Partito Democratico di Matteo Renzi. Una volta entrato in crisi il sistema in cui questa sinistra è nata, i suoi seguaci non hanno rivisto i loro programmi, cercando di adattare le proposte politiche alla nuova situazione. Hanno preferito nascondersi dietro la narrazione dei competenti contro orde di barbari.
Questa è quella che chiamo la visione ingegneristica della sinistra: avendo ormai abbandonato una visione del mondo più ampia e capace di reinventare l’esistente attraverso soluzioni nette, la sinistra della Terza via ha interpretato l’amministrazione dello Stato come la manutenzione di una macchina estremamente complessa, di cui solo loro conoscevano il funzionamento.
Una tale posizione, come dicevo, è ormai superata: la crisi della fine del decennio scorso non è mai passata veramente, concedendo alle potenze mondiali una crescita anemica, pagata spesso e volentieri con la perdita di garanzie e l’aumento delle disuguaglianze. La crisi causata dalla pandemia, secondo alcuni economisti potrebbe portare a una recessione lunga tutto il decennio con retribuzioni minori, a vita, per tutti coloro che si inseriscono ora nel mercato del lavoro. Ma queste crisi, di natura contingente, si intersecano con crisi più profonde che affliggono il nostro tempo, come la crisi climatica o un modello di sviluppo che penalizza le regioni più povere come l’Africa. Questo tipo di problemi richiedono una visione più ampia.
Fino ad adesso, tuttavia, proprio in virtù dell’idea inconsciamente sedimentata a livello culturale della fine della storia, la reazione a questa crisi congiunta è stata la retromania. Non è un caso che nel 2016 Donald Trump abbia usato, come slogan della sua campagna, “Make America Great Again”. Il passato, si sa, è più confortevole rispetto al futuro. Gettarci nel mare dei ricordi genera un senso di pienezza e di conforto quando la luce che proviene dal futuro diventa troppo accecante. Partiti come la Lega di Matteo Salvini, il Rassemblement National di Marine Le Pen, il mutato GOP di Donald Trump e tutta la miriade di partiti che abbiamo denominato populisti, erroneamente, sono in realtà una versione 2.0 del movimento reazionario. La loro idea di futuro è un passato distopico.
Per combattere questa tendenza, la sinistra deve rinnovare la sua offerta politica. Non può continuare con una proposta tiepida e annacquata, ma allo stesso tempo non può cadere anch’essa nella nostalgia: le politiche di stampo semplicemente redistributivo non sono più un’opzione.
La sinistra deve cercare un superamento di queste due visioni. La crescita economica di questo ultimo secolo ha garantito senza ombra di dubbio un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere, nonostante rimangano delle zone d’ombra. Sacrificare questa crescita economica sull’altare della lotta alla povertà o dell’ecologismo porterebbe a non ottenere nessuna delle due cose.
La crescita economica, infatti, almeno dagli anni ‘80 è trainata dall’innovazione tecnologica. Paesi che spendono di più in R&D crescono maggiormente rispetto a paesi, come l’Italia, che non lo fanno. L’innovazione garantisce, se indirizzata, la produzione di device che diminuiscono l’impatto ambientale. Prendiamo un esempio: in questi ultimi anni le ricerche nel campo della biologia sintetica hanno portato i ricercatori a creare tagli di carne quasi interamente artificiali. Poiché gli allevamenti intensivi hanno un impatto ambientale drammatico una diffusione nel mercato di carne sintetica consentirebbe di diminuire le emissioni.
Anche la lotta alla povertà, come mostrano gli studi di Adams del 2002 e di Ravallion e Chen del 1997, è influenzata, pesantemente, da una sostenuta crescita economica. Il punto è che una crescita economica non significa sempre una crescita “giusta”. Quindi la sinistra deve puntare su un diverso tipo di crescita: una crescita che tenga conto della salvaguardia dell’ambiente, delle disuguaglianze, del well being.
Come può fare? Se la teoria economica dominante di questi anni si basa su una visione atomista della società e del tessuto produttivo, bisogna approdare a una visione evoluzionista.
Dal punto di vista pratico questo significa abbandonare la visione secondo cui il privato è efficiente, mentre lo Stato non è in grado di portare crescita ma soltanto di ostacolarla. C’è bisogno, soprattutto nel campo dell’innovazione, di mutare paradigma: Stato e privato devono coesistere in un ambiente che permetta di raggiungere obiettivi di crescita, rispetto dell’ambiente e inclusività.
Senza questi cambiamenti la sinistra resterà il correttivo della destra.
Condivido, aggiungo che, a mio avviso, l’altro elemento che ha contribuito fortemente a spingere i partiti laburisti occidentali verso il paradigma neo-liberista è stato certamente il crollo del Comunismo in URSS nel 1989/90. Secondo me, allo stato attuale, occorre un nuovo pensiero forte (filosofico, economico, e politologico) a Sinistra che rielabori, attualizzandole, le categorie storiche del pensiero tradizionale di Sinistra:riduzione delle disuguaglianze, redistribuzione,ambientalismo, declinazione sociale della libertà. Per esempio, la Sinistra dovrebbe cominciare ad avere il coraggio di pronunciare la parola “Tassazione Progressiva” che, da 25 anni, è invece un tabù:le tasse vengono nominate solo per essere abbassate! L’ultimo tomo di Piketty potrebbe essere un buon punto di partenza per un manifesto internazionale della Sinistra (Socialismo transnazionale partecipativo come lo chiama lui).
Sul tema della tassazione ho scritto su Gli Stati Generali. Le lascio qui il link https://www.glistatigenerali.com/fisco/piu-tasse-ma-piu-giuste/