Negli ultimi giorni di aprile, con una ventina di giorni di ritardo a causa della pandemia, è stato presentato in Parlamento il Documento di Economia e Finanza (DEF) per il 2020. Quest’anno la sua rilevanza è ancora maggiore viste le ripercussioni che, accanto al dramma umano e sanitario, il coronavirus ha avuto e avrà sull’economia e sulle finanze pubbliche.
In questo senso a fronte di minori entrate a causa del venir meno certo di gettito fiscale e a quello, molto probabile, di imposte che non saranno riscosse, la spesa pubblica è aumentata finora per 75 miliardi di euro di maggior deficit (20 per il “Decreto cura Italia” e 55 per il “Decreto maggio”). Queste risorse sono state (e saranno) utilizzate per le spese legate all’emergenza sanitaria, per le prime forme di sostegno alle imprese e al reddito delle famiglie al fine di evitare che alla pandemia si aggiunga una catastrofe sociale.
Oltre a questo aumento di spesa, legato alle immediate contingenze, si aggiunge poi un tema più ampio legato al ruolo che dovrà giocare il settore pubblico nell’economia post-Covid. Ruolo che trasversalmente, dai neosocialisti fino agli economisti mainstream sulle colonne del Financial Times, viene indicato come destinato a crescere per proteggere e rilanciare l’occupazione e un sistema produttivo duramente provati dalla pandemia. Una pandemia innestata su una preesistente sofferenza che per molti si trascina almeno dallo scoppio della crisi finanziaria, specie per i soggetti maggiormente legati alla domanda interna. Sono tanti gli interrogativi circa l’entità, le modalità, e le finalità di questo nuovo corso.
Questo articolo vuole concentrare l’attenzione su ciò che occorre fare per scongiurare il rischio che questi ragionamenti vengano soffocati sul nascere, scavalcati da politiche di bilancio sostanzialmente decise da altri.
Su questo infatti si giocherà la possibilità per il popolo, quell’insieme di persone alle quali la Costituzione attribuisce la sovranità, di essere parte attiva nella definizione del contesto socio-economico all’interno del quale vivere la propria esistenza. Difendere questa possibilità significa difendere il carattere sostanziale della democrazia rappresentativa, non solo la forma. Per intenderci: non c’è il rischio che a breve le Camere vengano esautorate dall’approvazione di una Legge di Bilancio dopo un acceso confronto Parlamentare. È invece molto probabile che divenga sempre più ristretto, se non proprio rigidamente predefinito, il margine di manovra all’interno del quale tale manovra di bilancio prende forma.
Per questo, oltre a sottolineare l’ampia convergenza di opinioni sull’impossibilità da parte del solo “mercato” di reagire a questo shock e di conseguenza sulla necessità di un intervento esterno, qua preme sottolineare che prima ancora di riflettere sullo scopo, le modalità e l’entità di tale intervento, è necessario fare fronte comune per salvaguardare le condizioni necessarie e gli spazi perché questo intervento possa avere luogo.
Ciò corrisponde a proteggere e possibilmente allargare gli spazi di manovra affinché la definizione della rotta in termini di politica economica sia frutto della sintesi tra istanze e interessi espressi all’interno del perimetro della propria democrazia rappresentativa invece che pre-determinata dall’esterno, ad esempio dalla “Troika” (FMI, BCE, Commissione UE) o dai “mercati”. Perlomeno non più di quanto già lo sia ora. L’alternativa è lo svuotamento definitivo del piano “politico” a favore di quello fintamente neutro dell’“economico”, con le istituzioni della democrazia rappresentativa non più contese da forze partitiche desiderose di mettere alla prova la propria idea di società, di benessere, di futuro ma da partiti sempre più somiglianti a nichilistici gruppi dediti alla spartizione del potere residuale che i “mercati” consentono loro di gestire all’interno però di un perimetro sostanzialmente già definito.
In questo caso l’intero edificio della democrazia rappresentativa, sempre più vacillante nel mondo, anche laddove rimanesse in piedi, come formalmente è rimasto in piedi in Grecia, sarebbe svuotato degli strumenti che lo rendono sostanzialmente in grado di essere operativo. Ai più non rimarrebbe che subire un progressivo arretramento sociale ed economico illudendosi di poter ancora dire la propria rivolgendosi alla politica. Quella politica alla quale in effetti essi continuano a disperatamente a rivolgersi magari protestando con un voto cosiddetto “populista” che offre risposte semplici a domande complesse ma perlomeno dimostrando cosı̀ di non essersi arresi, di avere domande e di pensare che alla politica queste debbano essere rivolte.
Questo, se non altro, a conferma che i cittadini non sono disposti a non essere interpellati nelle decisioni riguardo al proprio futuro e che non hanno rinunciato alla prospettiva che, attraverso la democrazia, tutti possano contribuire a proiettare ciò che sono nel presente verso ciò che “dovrebbero essere” nel futuro. La rassegnazione non ha ancora preso il sopravvento. Il discorso, qui fatto per l’Italia, potrebbe in linea di massima essere esteso perlomeno a tutti gli altri Paesi dotati di Costituzioni “sociali”.
Quelle Costituzioni che, nate dopo la seconda guerra mondiale, uniscono ai diritti liberali (libertà “da”) quelli sociali (libertà “per”) e che per questo subiscono maggiormente l’opposizione dei “mercati” (che oggi sarebbe più corretto definire “oligopoli finanziari”) e di chiunque mal sopporti l’idea che le masse partecipino e che il loro partecipare non sia limitato alla gestione di un contesto e una direzione “date” ma che possa contribuire alla definizione stessa di quel contesto e di quella direzione.
Cosa c’entra tutto questo con il DEF presentato qualche giorno fa in Parlamento? Nel documento votato nei giorni scorsi al problema della sostenibilità del nostro debito pubblico si risponde con l’impegno a riprendere quanto prima la politica degli avanzi primari per le finanze pubbliche. Puntare alla riduzione dello stock di debito pubblico con politiche fiscali restrittive, cioè spendendo (al netto degli interessi sul debito) meno risorse di quante lo Stato ne raccolga, significa rimanere all’interno del sentiero di austerità, esattamente il contrario di quanto indicato da quell’ampio fronte che indica nelle politiche macroeconomiche espansive l’unica via per evitare scenari catastrofici.
Il DEF ripropone, in un contesto profondamente peggiorato dalla pandemia, la ricetta che diligentemente l’Italia segue da 30 anni (unico Paese dell’area euro sempre in avanzo primario dal 1992 eccezion fatta per il 2009) con risultati tutt’altro che soddisfacenti sul piano della riduzione del debito pubblico (passato dal 95,25% del 1990 al 134,8% del 2019).
Nello scenario post-Covid italiano questa ricetta non è praticabile, per la necessità di un maggiore intervento pubblico e per l’ulteriore, forse definitivo, colpo che sarebbe inferto ad un mercato interno già prostrato. Tanto più che, vista la natura simmetrica dello shock, nemmeno i più strenui sostenitori del mercantilismo potranno continuare a fare affidamento esclusivamente sull’aumento dell’export come motore dell’economia e per la riproduzione della società.
Il prezzo da pagare proseguendo su questa strada sarebbe altissimo in termini di disgregazione sociale, sofferenza e impoverimento di ampie fasce della popolazione già duramente provate e marginalizzate dalla svolta neoliberista prima e dai postumi della crisi finanziaria poi. Senza contare che, nel tentativo dichiarato di rallentarlo, molto probabilmente si finirebbe per accelerare il passo verso l’insostenibilità del debito a causa delle ripercussioni negative sul denominatore del rapporto debito/PIL.