La Cina è la nazione protagonista di uno dei successi mondiali più grandi della storia umana. Il suo PIL, dalla fine della Rivoluzione in poi, cioè dal 1949, è cresciuto di «123 volte»[1]. Dal 1978, cioè a dire dall’inizio delle riforme di Deng Xiaoping "700 milioni di persone sono uscite dalla povertà". E se nel 2020 il PCC aveva fissato l’obiettivo dell’eliminazione completa della povertà ("ormai a portata di mano"), nel 2025 un obiettivo straordinario "non fissato nei congressi di partito" viene invece pronosticato dalla Morgan Stanley, e cioè l’ingresso della Cina "nel novero dei paesi ad alto reddito"[2].
Del resto, con un tasso di crescita annuo esorbitante rispetto alle altre potenze mondiali, sembra evidente che la RPC stia per assurgere al ruolo di prima potenza egemone nel mondo, posizione contesa ovviamente con gli Stati Uniti di Trump. È in corso, insomma, una vera e propria "guerra economica", la cui posta in gioco è per molti ancora poco chiara: si tratta di una "competizione tra sistemi" fra loro diversi, o è piuttosto un conflitto economico tra due nazioni in seno al sistema capitalistico? Ovviamente riuscire a trovare una risposta a questa domanda parte inevitabilmente da una comprensione generale sul tipo di economia vigente nella Repubblica Popolare Cinese. Vladimiro Giacché prova a fare un’analisi approfondita nel suo saggio “L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea”. Si chiede: "La Cina è insomma 'socialista' o 'capitalista'?"[3].
Bisogna innanzitutto operare una distinzione storica tra la Cina del periodo pre-1979 e quella successiva alle riforme iniziate da Deng Xiaoping, poi continuate dall’attuale Segretario Generale Xi Jinping. La rigida economia cinese del periodo maoista, costruita sul modello dell’Urss di Stalin, rese necessaria, alla morte dello storico leader, una riforma che partisse innanzitutto da una sostanziale riorganizzazione del settore agricolo, la cui crisi del 1959-1961 aveva causato milioni di morti. Il protagonista del cambiamento sarà Deng Xiaoping, che nel 1978 darà il via alla "politica di riforme e apertura", caratterizzata dall’"incoraggiamento allo sviluppo dei rapporti mercantili e dall’apertura al mercato mondiale"[4].
L’apertura ai rapporti di mercato in effetti ci fu - tanto lenta quanto efficace - a tal punto da cambiare profondamente le connotazioni dell’economia cinese rispetto al periodo maoista. Dal 2004 nella Costituzione Cinese viene inserito il diritto alla proprietà privata in senso stretto. "Oggi sono di proprietà privata (POE, Private Owned Enterprises) i 2/3 delle imprese cinesi per quantità". Esse, insieme agli investimenti del capitale estero, «realizzano quasi il 60% della produzione industriale e guadagnano il 60% dei profitti»[5].
Il resto, cioè la produzione non ascrivibile all’economia privata, è altrettanto centrale nella struttura dell’economia cinese. Questo tipo di aziende nel loro complesso impiegano "il 70% della forza lavoro"[6]. Solo una parte di esse sono imprese pubbliche in senso stretto (SOE, State Owned Enterprises) e si stima producano circa il 25% del PIL cinese [7], pur svolgendo un ruolo trainante rispetto a tutto il resto dell’economia. Il punto è proprio questo, infatti: nel corso delle riforme avviate da Deng non si è mai registrato un abbandono deciso all’economia privata, come quanto successo nell’Urss e nell’Est Europa dopo la caduta del muro. Al contrario: la riforma "corre su due binari paralleli, in cui il piano disegnato dallo Stato si integra con le dinamiche di mercato"[8]. Questo percorso ha peraltro ottenuto risultati qualitativamente superiori rispetto alla shock therapy, cioè alla transizione fondata sulla privatizzazione totale delle imprese di Stato[9].
È qui dunque che si scopre la natura del "socialismo con caratteristiche cinesi": negli articoli 6 e 7 della Costituzione cinese vediamo ribadita la centralità delle imprese di Stato, che si conferma essere la forza trainante dell’economia del paese. Eppure "questa forma di proprietà coesiste con altre forme di proprietà"[10]. Si tratta insomma di un sistema misto, in cui le SOE svolgono una funzione fondamentale, ribadita dagli stessi documenti ufficiali del PCC. Xi Jinping nel 2016 ha affermato che le "SOEs fanno da fondamento materiale e politico per il socialismo con caratteristiche cinesi" e che quindi occorre “rafforzare e migliorare la leadership del partito nelle SOE e il ruolo che gioca in queste imprese”[11]. Si è provato a sostenere che le queste aziende fossero poco redditizie, meno efficienti rispetto alle imprese private. Eppure giudicare la loro funzione con lo sguardo limitato all’accumulazione piuttosto che sul ruolo sociale che rivestono significa "ridurre l’economia socialista a economia di mercato"[12].
Quando si misura l’efficienza dell’impresa di Stato nell’economia cinese bisogna in altri termini guardare non alla capacità di massimizzare il proprio rendimento, come ci si aspetterebbe da qualsiasi impresa privata, bensì la capacità di imprimere all’economia nazionale la spinta per svolgere una funzione sociale; si tratta insomma di garantire la distribuzione equa di benessere, la riduzione delle disuguaglianze e il miglioramento delle classi lavoratrici. Queste aziende funzionano altresì da traino per gli investimenti in periodi di crisi laddove il governo decida di indicare all’economia una direzione strategica da seguire: lo si è visto anche durante l’emergenza COVID-19. L’ospedale di Wuhan che abbiamo ammirato costruire in tempi record, comprensivo di 1.600 posti letto, era stato commissionato proprio ad una SOE. E utilizzando questo tipo di impresa, la Cina ha recentemente affermato di voler aumentare le politiche occupazionali, con particolare attenzione ai neolaureati.[13]
È qui che risiede l’elemento di distinzione fondamentale dell’economia cinese rispetto a quella delle nazioni occidentali, che non a caso hanno attaccato le SOE in vari modi, esortando alla loro privatizzazione. A tal proposito gli studiosi cinesi rifiutano categoricamente la definizione attribuita alla Cina come "capitalismo di Stato", perché a loro giudizio rappresenterebbe solo un modo per mascherare il fallimento del capitalismo liberale e dell’economia di mercato, quando le ragioni del successo cinese risiedono proprio nella connotazione socialista.
Un "socialismo con caratteristiche cinesi", in cui "la proprietà pubblica è, anche in base alla Costituzione, 'predominante', sia perché i settori chiave dell’economia sono sotto il controllo statale tramite le SOE, sia perché lo Stato esercita un coordinamento e una regolamentazione a livello macroeconomico: attraverso i Piani Quinquennali è infatti possibile attuare una programmazione dello sviluppo, e questo rappresenta un vantaggio della economia socialista di mercato rispetto alle economie capitalistiche"[14].
Ma il PCC è perfettamente consapevole delle disuguaglianze che colpiscono il paese, e riconosce pubblicamente di essere soltanto "nello 'stadio iniziale' (o 'primario') del socialismo". Una fase che temporalmente è iniziata nel 1949 con Mao, ma che finirà (secondo quanto stabilito nel XIII Congresso del PCC) nel 2049, quando "la Cina raggiungerà l’obiettivo di portare il reddito pro capite dei propri abitanti al livello medio dei paesi sviluppati"[15]. È ovvio dunque che la Cina non è ancora una nazione pienamente socialista (ma di fatto nessuna esperienza di governo anti-capitalista, inclusa l’Urss, lo era).
Ma ciò che la legittima ad esser definita tale è la compresenza di diversi modi di produzione; la titolarità del potere di essere indirizzato verso il superamento dell’economia di mercato; la pianificazione dell’economia; il controllo del tasso d’interesse da parte della propria banca centrale non autonoma; servizi pubblici piuttosto estesi [16]. Del resto, neppure le economie occidentali possono in questo senso definirsi pienamente democratiche, e forse non lo saranno mai.
Ora che dunque si è operata una opportuna distinzione tra il capitalismo neoliberista sul modello adottato in Occidente e il "socialismo di mercato" adottato in Cina, è probabile che siano persino più chiare le ragioni della crescita esponenziale di cui tale nazione è stata ed è ancora interessata. La capacità di rispondere ad una crisi economica, sanitaria od anche ambientale tramite una pianificazione della produzione e il controllo diretto di interi settori dell’economia è un vantaggio notevole rispetto alle economie neoliberiste presenti in Occidente.
Eppure, tutto ciò non deve farci credere che l’economia mista della Cina sia un modello inedito nella storia. Persino l’Italia vantava un cospicuo apparato industriale sotto il controllo pubblico. Parliamo ovviamente dei tempi dell’Iri, "quando lo Stato italiano divenne il più grande proprietario d’industria in Europa, dopo l’Unione Sovietica"[17]. Se gli stati occidentali non vogliono dunque soccombere inermi all’ascesa dell’economia cinese, un intelligente ripensamento della produzione e del ruolo dello Stato nell’economia, magari rispolverando (non solo, ma anche) le vecchie ricette, potrebbe essere preliminare per ogni tentativo di ripresa.
[1] V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in Aa. Vv., Più vicina. La Cina del XXI secolo, a cura di P. Ciofi, Roma, bordeaux, 2020, pp. 11-71. p. 12.
[2] Ivi, p. 69.
[3] Ivi, p. 29.
[4] Ivi, p. 19.
[5] Ivi, p. 23
[6] Ivi, p. 30
[7] http://documents.worldbank.org/curated/en/449701565248091726/pdf/How-Much-Do-State-Owned-Enterprises-Contribute-to-China-s-GDP-and-Employment.pdf
[8] V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, cit., p. 25.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 28
[11] Ivi, p. 34
[12] Ivi, p. 39
[13] http://english.www.gov.cn/premier/news/202006/03/content_WS5ed7aeabc6d0b3f0e9499882.html
[14] V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, cit., p. 42.
[15] Ivi, p. 64
[16] Ivi, p. 67
[17] F. Amatori, L'IRI dagli anni Trenta agli anni Settanta, in http://www.treccani.it/enciclopedia/l-iri-dagli-anni-trenta-agli-anni-settanta_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Tecnica%29/
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