Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato la convocazione degli “Stati generali”. No, non siamo nella Francia che ribolle prima della Rivoluzione e gli Stati Generali non sono un organo dello Stato. Anzi, si sa a malapena cosa saranno.
Un passo indietro. Etimologico. In Francia, dal quattordicesimo secolo al 1789 gli Stati generali furono un’assemblea dei rappresentanti dri tre ordini: clero, nobiltà e terzo stato, ossia la borghesia. Il quarto stato, il popolo, non aveva rappresentanza.
Chissà se le classi popolari avranno una voce nell’assemblea convocata da Conte, il quale forse non si ricorda che esistono organi costituzionali appositi per esprimere l’indirizzo politico.
Gli Stati generali dovrebbero raggruppare le cosiddette parti sociali, le associazioni di categoria, alcune personalità di spicco (e i partiti?). Si vocifera infatti che si voglia allargare il dibattito a tutte le forze politiche disponibili – anche per non dare adito alle polemiche dell’opposizione.
Ma a questo scopo non c’è il Parlamento? Sì, esiste ancora, anche se è stato esautorato a colpi di decreti legge, infangato dalla propaganda antipolitica e disonorato da vari suoi membri ed ex membri.
E soprattutto, chi sceglierà le personalità di spicco che dovrebbero interloquire con il presidente e con le parti sociali? Nonostante il colossale fallimento dell’espertocrazia, crollata in questi mesi fra le baruffe dei virologi, siamo ancora fermi all’idea che esista una competenza astratta e indipendente dagli interessi di parte (e di classe). Una competenza riservata a una stretta intellighenzia, che quasi per incantesimo dovrebbe intuire il bene comune, l’interesse generale a cui tendere. Ma se non si riescono a mettere d’accordo gli scienziati, figuriamoci gli economisti e gli altri "esperti".
Lasciamo da parte poi le sterili polemiche nella maggioranza sull’opportunità di convocare questa assemblea e concentriamoci sulle questioni di merito. Al centro degli Stati generali dovrebbe esserci un piano per la ripartenza. I punti chiave sono tre: il dossier semplificazione, il rilancio delle infrastrutture e incentivi per gli investimenti. Il tutto dovrebbe partire dal rapporto stilato dalla task force di Vittorio Colao.
È oggettivamente penoso che il ceto politico non riesca a dare vita a un progetto per la ripartenza del Paese attraverso un lavoro di concertazione fra gli organi dello Stato e del governo, ma si debba appoggiare a squadre di tecnici esterni o ad assemblee create ex nihilo.
Non esiste più una classe intellettuale organica alle forze politiche, che le supporti nell’elaborazione delle proposte. Ciò fa sì che un’azione coordinata fra i partiti sia impossibile, perché non c'è una solida cultura politica di base su cui impostarla. E ciò vale per tutte le forze politiche del Paese.
Inoltre, gli Stati generali si basano sull’idea fallace che attraverso un dialogo costruttivo e inclusivo fra tutti si possa giungere a soluzioni soddisfacenti per la comunità. Un’idea infantile della politica, che ignora volutamente il conflitto sociale e il fatto che spesso c’è un’inconciliabile divergenza fra gli interessi delle classi.
Deve essere il Parlamento il luogo della concertazione, e in seconda istanza lo deve essere la coalizione di governo. Esternalizzare le decisioni a task force o a Stati generali serve solo a evitare di assumersi responsabilità politiche.
È la stessa logica alla base del vincolo esterno: la classe politica nazionale ha appaltato le scelte di politica economica a organismi sovranazionali che non devono rendere conto a nessuno, in modo tale da far apparire come eventi di forza maggiore le decisioni più impopolari (tagli alla spesa, aumento delle tasse, flessibilizzazione del mercato del lavoro).
Torniamo alla questione delle classi. La lotta di classe esiste, lo riconoscevano pure liberali di ferro come Adam Smith e David Ricardo. Una volta appurata la sua esistenza, non la si può ignorare. Si possono adottare diversi atteggiamenti. Per semplificare, li possiamo ricondurre a due: contrapposizione e pacificazione. La prima esige la lotta attiva (nel caso dei lavoratori: scioperi, proteste, richieste di aumenti salariali); la seconda implica la ricerca di un compromesso, avendo però chiaro in mente che gli interessi in gioco sono contrapposti.
Invece la convocazione degli Stati generali da parte di Conte testimonia, anziché la volontà di trovare una soluzione di compromesso al conflitto sociale, l’idea che tale conflitto non esista. Secondo questa concezione ormai radicata, è sufficiente mettersi intorno al tavolo per raccogliere le doleànces di ogni gruppo e poi soddisfarle. Un’idea paternalista e stantia dello Stato.
Ciò è ancor più vero in un momento in cui il segretario del maggior sindacato italiano invoca esplicitamente “un nuovo patto sociale”. Richiesta che testimonia la debolezza delle associazioni dei lavoratori e la loro subalternità culturale alle logiche confindustriali.
Infine, non si capisce bene come si possa ricostruire l’Italia a tavolino quando nessuno a quel tavolo ha una visione organica della società ed è capace di imporre un’egemonia culturale. La subalternità alle logiche neoliberiste che dominano l’Unione europea è evidente. Non solo nei partiti di maggioranza (dove anche i Cinque Stelle iniziano ad aprire al MES), ma anche in quelli di opposizione. Dove infatti, a parte un euroscetticismo folcloristico, non si rintraccia una seria visione complessiva di comunità che vada oltre il law and order salvinian-meloniano.
Prevale ovunque, con qualche eccezione, l’accettazione prona della falsa coscienza che abbiamo ormai introiettato: il pareggio di bilancio è cosa buona e giusta, la spesa pubblica è improduttiva e clientelare per definizione, i lavoratori devono abbassare le loro pretese e via liberisteggiando.
Dunque, non c’è da aspettarsi nulla di nuovo dagli Stati generali. Saranno solo una passerella per simulare l’unione di una nazione che si sta disfacendo.