La fantomatica task force guidata da Vittorio Colao (ex ad di Vodafone incensato dai media) ha delineato cento proposte e venti obiettivi per far ripartire l’Italia. Ma per quel che sappiamo dalle indiscrezioni il piano di Colao farà soltanto sprofondare di più il Paese.
Il 29 maggio il quotidiano Milano Finanza ha pubblicato alcune anticipazioni del vaste programme del super manager. Ne emerge una serie di misure che impoveriranno il patrimonio dello Stato e metteranno in difficoltà le piccole e medie imprese.
Il sostegno all’economia dovrebbe passare soprattutto dalla creazione di un Fondo per lo sviluppo, con una dotazione fra i 100 e i 200 miliardi di euro, che sarà gestito da Cassa depositi e prestiti (Cdp). Ma come sarà alimentato? Stato, regioni, province e comuni conferiranno al Fondo immobili, partecipazioni in società quotate e titoli. Non solo. Verrà “sondata” la possibilità di ricorrere a una parte delle riserve auree della Banca d’Italia.
Le quote del fondo “dovrebbero essere messe a garanzia dei crediti erogati alle imprese” e dovrebbero essere vendute agli investitori istituzionali (fra cui i taumaturgici investitori esteri) e forse anche al retail. Il denaro raccoltò sarà investito da Cdp nell’industria 4.0 e in alcune imprese ad alto tasso di crescita. Esse saranno individuate fra quante avranno investito in ricapitalizzazione, innovazione, fusioni e acquisizioni (M&A).
Tutto ciò significa che non si finanzieranno le imprese con “soldi freschi”, come in Germania o in Francia, ma si liquiderà il patrimonio pubblico italiano per distribuire denaro alle poche aziende che saranno in grado di sopravvivere (che per forza di cose saranno soprattutto quelle più grandi). La ricchezza rappresentata dalle aziende pubbliche finirebbe così in mano ai privati. Svenderemmo quote di industrie nazionali strategiche (chissà che fra queste non ci siano Eni, Leonardo e Fincantieri) per dare qualche spicciolo alle imprese “innovative”.
Un errore che disegna un bivio dove un bivio non c’è. Una strategia sbagliata sia dal punto di vista di politica economica (ben lontana dall’idea di uno Stato realmente imprenditore o innovatore) sia dal punto di vista geopolitico. Svendendo gli asset pubblici, lo Stato avrà meno potere contrattuale per intervenire nell’economia e sarà ancora più inerme davanti alle forze della globalizzazione. Senza uno Stato industriale attivo, le grandi multinazionali e gli altri Paesi potranno fare liberamente razzia del tessuto economico italiano.
Mentre tutti gli altri Stati europei immettono liquidità nell’economia ed erogano aiuti a fondo perduto, lo Stato italiano se ne lava le mani come Pilato. Per moltissime imprese italiane, l’unica via sarà fallire o vendere. In questo modo le imprese straniere, salvate e sostenute dai rispettivi Stati, potranno fare acquisti a prezzo di saldo in Italia.
Il piano di Colao non prevede aiuti sostanziali per le aziende italiane, ad eccezione di incentivi fiscali per le ricapitalizzazioni, per fusioni e acquisizioni, per investimenti in ricerca e sviluppo. Nessun sostegno concreto per superare la crisi. Anzi, il problema secondo i colaisti è la difficoltà delle PMI a competere a livello internazionali. Ma evidentemente questo vale solo per l’Italia, dato che tutti gli altri Paesi europei hanno approntato piani straordinari per sostenerle.
I tecnici colaisti lo sanno che il coronavirus provocherà una valanga di fallimenti. Secondo le stime riportate da Milano Finanza, potrebbero esserci anche 300mila ricorsi alla legge fallimentare. La soluzione degli “esperti” non è spendere per salvare il tessuto industriale (ovviamente mettendo delle condizioni a garanzia dello Stato), ma snellire la strada verso la liquidazione o, nei casi migliori, la ristrutturazione aziendale, la cessione, la fusione. Moltissime PMI semplicemente scompariranno o saranno assorbite a basso prezzo dalle grandi imprese. Lasciar fallire costa meno di salvare: è questo il meschino ragionamento contabile dei tecnici. Questa schiera di esperti evidentemente non si rende conto degli effetti sociali di una simile apocalisse economica.
La giustificazione dei tecnocrati colaisti a questo scempio è l’alto debito pubblico e l’alta spesa corrente della pubblica amministrazione, che impedirebbero di intervenire nell’economia con spesa pubblica e aiuti a fondo perduto. Ma proprio il tecnocrate par excellance, Mario Draghi, qualche tempo fa scriveva che non bisogna preoccuparsi del debito pubblico e che esso deve assorbire l’aumento del debito privato innescato dalla crisi. Perché allora la task force non ha elaborato un piano per aumentare la spesa pubblica garantendo la sostenibilità del debito? Perché non ha delineato una proposta italiana per la monetizzazione del deficit o per gli eurobond? Semplice, perché i cosiddetti esperti in questo Paese nutrono una sorta di sindrome di Stoccolma verso l’Unione europea così com’è.
Il risultato è che probabilmente ci ritroveremo con una larga parte del tessuto produttivo in mani straniere, oligopoli in molti settori, un maggiore potere di mercato delle imprese, alto debito privato e uno Stato incapace di agire.
Dite addio alla Repubblica progettata dai Padri Costituenti. L’Italia si trasforma in una satrapia senza potere decisionale autonomo, senza spazio per una programmazione economica degna di questo nome.