Nota: i nomi sono riportati seguendo la consuetudine giapponese di anteporre il cognome al nome proprio.
Dallo scoppio della bolla speculativa degli anni Novanta e la successiva ascesa della Cina a potenza economica, il Giappone è diventato il gigante silente dell’economia mondiale. Notizie sul Giappone arrivano raramente alle cronache internazionali, se non per eventi eclatanti come le (forse mancate) Olimpiadi o la successione al trono imperiale. Negli ultimi mesi, tuttavia, nel defilato paese del Sol Levante si sono verificati importanti cambiamenti politici ed economici.
Lo scorso 28 agosto Abe Shinzo ha infatti rassegnato le proprie dimissioni da Primo Ministro del Giappone in maniera alquanto inaspettata. Una causa, da un lato, sembra rintracciarsi nei suoi problemi di salute, che già nel 2006 lo costrinsero alle dimissioni dalla carica di Primo Ministro. Dall’altra parte, un’altra causa taciuta è da ricondursi all’indice di gradimento dell’esecutivo, sceso ai minimi durante l’estate soprattutto per via del modo confuso con cui il governo ha gestito le prime fasi della pandemia.
Il secondo governo Abe, in carica dal 2012 al 2020, è stato il più duraturo della storia giapponese. Il falco Abe, figura celebrata e odiata del panorama politico giapponese, appartiene alla fazione del Partito Liberal Democratico di simpatie dichiaratamente nazionaliste. Ciononostante ha saputo guidare il Giappone con una precisa idea di leadership, disciplinando la burocrazia e consolidando i rapporti con l’apparato industriale, grande asso nella manica della destra giapponese.
La sua politica più famosa è stata l’Abenomics, lanciata nel 2012 e fondata su tre “frecce”: espansione monetaria, riforme strutturali e politica fiscale. Nell’immaginario giapponese, le tre frecce rimandano a un famoso aneddoto del XIX secolo secondo cui un padre pronunciò ai propri figli le seguenti parole nel tentativo di esortarli a cooperare: “Una freccia può essere rotta facilmente. Tre frecce insieme, come un fascio di betulle, non possono essere spezzate”. L’idea di fondo era che per far davvero ripartire il Giappone bisognasse agire su più fronti, combinando vari tipi di politiche che provassero a risolvere aspetti diversi, ma collegati, della crisi del lost decades.
Che l’Abenomics abbia fin qui sortito gli effetti desiderati è dibattuto. Si è sicuramente dimostrata molto efficace su due fronti: il mercato dei titoli di Stato e il tasso di disoccupazione. Il governo Abe ha visto raddoppiare il benchmark del Nikkei Stock Average, mentre la svalutazione dello yen assieme affiancata dalla politica monetaria espansiva della Banca del Giappone hanno favorito le esportazioni e fatto decollare il turismo. Inoltre, la disoccupazione è scesa al 2,5% (nel 2012 era del 4,3%), nonostante la diminuzione di 4,5 milioni di persone in età lavorativa.
L’Abenomics non è però riuscita a stimolare significativamente l’inflazione, i cui deboli segnali di ripresa sono stati stroncati dall’epidemia del nuovo coronavirus, né ad aumentare significativamente il numero di donne occupate, altro cavallo di battaglia del governo. Un’altra eredità problematica è il grande debito pubblico, circa il 238% del PIL, aggravato dalla pandemia che, sebbene in Giappone abbia avuto numeri contenuti, ha comunque costretto il governo a varare misure restrittive e chiusure, con il conseguente stanziamento di aiuti economici e sussidi.
Ma Abe ha anche silenziosamente portato avanti politiche avverse ai suoi stessi sostenitori. Nonostante il Partito Liberal Democratico sia storicamente avverso all’immigrazione, il governo Abe ha incoraggiato l'ingresso record di 1,3 milioni di lavoratori stranieri per far fronte al crescente bisogno di personale. Molti hanno considerato questa politica un segno del fatto che Abe abbia scelto il pragmatismo rispetto all’ideologia del partito. Ideologia a cui però non ha rinunciato del tutto: il suo grande rimorso sarà infatti quello di non essere riuscito a portare a termine la revisione dell’Articolo 9 della Costituzione con cui il Giappone rinuncia ad avere un esercito. Grande obiettivo di Abe, il ripristino di un apparato militare nazionale fu anche il sogno di suo nonno, Kishi Nobusuke, Primo Ministro dal 1957 al 1960.
L’indirizzo nazionalista abbracciato da Abe gli ha inoltre causato discordie con i paesi vicini, su tutti Cina e Corea, in particolare riguardo al ruolo del Giappone nella Seconda guerra mondiale. Non mancano poi critiche sul fronte interno, in particolare sulle resistenze verso alcune riforme di diritti civili, come la garanzia dell’opportunità per le donne di mantenere il proprio cognome anche da sposate, matrimoni per le persone dello stesso sesso o la possibilità di avere la doppia cittadinanza.
Il successore di Abe, Suga Yoshihide, classe 1948, è stato eletto capo del Partito Liberal Democratico il 14 settembre 2020 e Primo Ministro il 16 settembre. Figura fino ad oggi alquanto defilata, sebbene sempre presente sulla scena politica giapponese contemporanea, Suga è stato a lungo il braccio destro di Abe, e ha dichiarato di non identificarsi in nessuna corrente del partito. Suga è inoltre uno dei pochi leader nazionali a non discendere da famiglie di politici – cosa alquanto comune in Giappone – ed è noto per avere una routine inflessibile. È riuscito a scalare i vertici del partito proprio grazie a una coalizione di “rookie” che come lui non sono discendenti di politici e non appartengono a nessuna fazione, denominati “Ganesha”, il dio indù che si dice rimuova gli ostacoli.
Una delle principali incognite è il destino dell’Abenomics. Sin dalla sua nomina a capo del Partito Liberal Democratico, Suga ha immediatamente dichiarato di voler continuare le politiche iniziate da Abe, tanto che si sta già parlando di Suganomics. È bene ricordare che proprio Suga nel 2012 spinse Abe a concentrarsi sull’economia invece che sulla revisione del già citato Articolo 9 della Costituzione. Un ulteriore indizio che Suga intenda continuare l’Abenomics è anche il fatto che nella nomina dei ministri si sono mantenuti alcuni nomi fortemente legati alle politiche di Abe, tra cui il Ministro delle Finanze Aso Taro, il Ministro dell’Industria Kajiyama Hiroshi e il responsabile per la ripresa economica Nishimura Yassutoshi.
Il governo Suga eredita un Giappone costellato da numerosi problemi. Una popolazione in rapido invecchiamento e un calo demografico senza precedenti, l’inflazione che non decolla e il già citato debito pubblico, oltre che un basso aumento della produttività. La pandemia da Coronavirus, tuttavia, ha spalancato diverse opportunità di riforma che prima sembravano molto lontane poiché ostacolate da molteplici resistenze.
Una di queste è quella della digitalizzazione. Nonostante l’immagine diffusa in Occidente di paese tecnologicamente avanzato, la realtà è che il Giappone è per molti aspetti non sempre all’avanguardia della frontiera digitale. Il contante rimane il mezzo di pagamento prevalente e la pubblica amministrazione non ha ancora informatizzato molteplici servizi – aspetto, quest’ultimo, che ha causato numerosi disagi durante la prima ondata di contagi, soprattutto nella gestione delle richieste di sussidio che il governo ha messo a disposizione per famiglie e imprese in difficoltà.
Suga sembra già aver mosso i primi passi nella direzione di una riforma digitale, nominando Hirai Takuya come ministro dell’information technology e responsabile dell’agenda di digitalizzazione – incarichi che questi aveva già ricoperto nel governo Abe. Alla fine di settembre ha annunciato che l’uso degli hanko (tradizionali timbri che riportano il nome della famiglia, usati per firmare i documenti ufficiali) nella pubblica amministrazione verrà drasticamente ridimensionato.
Un’altra possibile direzione di intervento sarà quella di regolamentare alcuni settori problematici come quello della telefonia mobile, le cui tariffe sono giudicate eccessive dal governo. Più in generale, l’obiettivo è quello di aumentare la competitività di vari settori incoraggiando l’ingresso nel mercato di nuovi competitor. Il primo bersaglio dovrebbe riguardare l’industria agricola, paralizzata da anni dalla potente lobby degli agricoltori.
Uno dei fattori chiave che determinerà il successo del governo Suga sarà dato dal conseguimento di piccoli successi immediati volti a consolidare il consenso popolare e unificare le correnti interne al partito. I primi passi del governo non sono però stati incoraggianti in questo senso. Suga ha infatti deciso di rigettare la nomina di sei membri del Comitato Scientifico del Giappone, un’organizzazione che riunisce scienziati e accademici giapponesi di ogni campo del sapere e che si occupa anche di fornire raccomandazioni di policy al governo. Una parte dei suoi membri è nominata dal Primo Ministro e non è chiaro quali siano stati criteri che abbiano portato Suga a non convalidare la nomina dei sei accademici. Si pensa che Suga possa aver voluto escludere personalità che non avevano risparmiato critiche al governo Abe: una mossa che ha suscitato forti critiche e polemiche da varie parti dell’opposizione e del mondo accademico.
Sul fronte economico internazionale, nel quasi completo silenzio della stampa, il Giappone ha già firmato un accordo commerciale con il Regno Unito per il periodo post-Brexit e da tempo sta studiando una strategia volta a sfruttare la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina per consolidare la propria posizione in Asia. Il governo Abe era uno dei pochi ad aver mantenuto una relazione amichevole con Donald Trump, ma l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca potrebbe ridisegnare le relazioni tra Giappone e Stati Uniti. È però probabile che Suga cerchi nuovamente un canale diretto di comunicazione con Washington. L’aspettativa di Tokyo è che il nuovo Presidente degli Stati Uniti mantenga una linea diplomatica amichevole sul modello Obama.
Come si dice in giapponese, non resta che augurare “ganbatte, Suga-san”: in bocca al lupo, Mr. Suga.
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