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Non c’è più tempo: cosa ci dice l'ultimo rapporto IPCC sul clima

Ieri mattina l’International Panel for Climate Change (IPCC) ha presentato alla stampa il suo report sulla crisi climatica. Ne emerge una situazione preoccupante. Non possiamo più fare nulla per mitigare gli effetti dell’aumento della temperatura nel breve periodo. Almeno per i prossimi 30 anni assisteremo a un aumento di eventi climatici estremi e di altri fenomeni legati alla crisi climatica. Tuttavia, una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra porterà a una stabilizzazione sul lungo periodo. Senza un intervento rapido e su larga scala, infatti, l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura entro 1.5 gradi o, per essere più pessimisti, 2 gradi resterà fuori portata.

La comunità scientifica ha infatti avvertito che un aumento di oltre due gradi centigradi potrebbe avere ricadute fatali per l’umanità e l’ecosistema. L’aumento della temperatura, infatti, sta accelerando il ciclo dell’acqua. Questo porterà a una maggior frequenza di alluvioni e inondazioni, con conseguenti danni alle abitazioni e alle persone. A pagarne il prezzo, come hanno notato Islam e Winkel, saranno le classi meno abbienti.

Allo stesso tempo, assisteremo a una maggior siccità, con ingenti conseguenze sui raccolti.

Oltre a quanto detto, siamo già a conoscenza degli effetti della crisi climatica sulla salute: ogni anno la rivista The Lancet pubblica il suo Countdown in cui stima il numero di morti dovuti ai fattori trainanti della crisi climatica e il suo impatto sulla salute in generale. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito a un aumento del 53.7% di morti legate all’aumento di temperatura. Basandoci inoltre sui dati del 2018, la rivista ha stimato un calo dell’aspettativa di vita media per capita di 5.7 nell’Unione Europea. Nel nostro paese la stima arriva a 8 mesi.

Ma il report testimonia anche quanto già si sapeva: la causa della crisi climatica è l’essere umano. L’attività umana è responsabile per l’aumento di 1.1 gradi dal 1850-1900 a oggi, secondo i calcoli dei ricercatori e delle ricercatrici.

Per far fronte alla crisi climatica, però, gli Stati hanno fatto troppo poco. Gli obiettivi individuati negli Accordi di Parigi sono lontani, anche per paesi in generale virtuosi come la Germania. I piani dell’Unione Europea per affrontare la crisi climatica, seppur encomiabili, non sono abbastanza radicali.

Il rischio è che l’atteggiamento nei confronti della crisi climatica rassomigli alla nostra risposta al virus SarsCoV2: a una strategia di eliminazione abbiamo preferito una strategia di mitigazione, che si è rivelata catastrofica anche sul lungo periodo.

D’altronde, già oggi una certa fetta dell’opinione pubblica e della politica sottolinea la nostra capacità di adattarci agli eventi climatici estremi. Siamo diventati, indubbiamente, più resilienti. Ma questo, ovviamente, non basterà. Così come i moniti da cunctator del Ministro Cingolani e dell’area di riferimento, che avverte che non si può morire di crisi climatica ma neanche di disoccupazione, appaiono discutibili e tacciabili di “presentismo”.

Nel caso della crisi climatica non ci sarà alcun vaccino a salvarci. Come ha scritto Ed Milliband sul The Guardian, il pericolo oggi non proviene tanto dai negazionisti climatici, quanto dai temporeggiatori.

La società appare già pronta per questo cambiamento. Come ha testimoniato una recente survey svolta per l’UNDP, il 64% dei partecipanti ha sostenuto che la crisi climatica è effettivamente un’emergenza, chiedendo un cambio di passo nelle politiche ambientali. I più convinti sono i cittadini europei e nordamericani, con il 72% che crede vi sia un’emergenza climatica, mentre la percentuale scende tra il 61% e il 65% per chi abita nel resto del mondo.

Il 59% si è detto inoltre d’accordo a fare tutto il possibile, agendo in fretta. Solo il 20 ritiene di dover agire tenendo conto dell’incertezza in cui viviamo.

Quello di cui abbiamo bisogno, quindi, è un cambio di paradigma. Non può infatti risolvere la crisi climatica chi questa crisi ha contribuito se non a crearla almeno a tenerla sotto al tappeto. L’economia neoclassica ha costantemente sottovalutato il reale pericolo della crisi. Ragionando per costi e benefici marginali, ha ricercato politiche climatiche ottimali in grado di salvaguardare da una parte la lotta alla crisi climatica e dall’altra il progresso fino ad ora raggiunto. Uno dei modelli più celebri, in questo frangente, è il modello di William Nordhaus: secondo le stime di questo modello l’aumento di temperatura ottimale, in grado di salvaguardare i benefici della crescita di oggi, sarebbe di 3.5 gradi entro il 2100.

A livello scientifico un tale scenario sarebbe né più né meno una catastrofe.

Come ha scritto Andrea Roventini, questo deriva dalla concezione fisica del mercato, un tema su cui recentemente ha scritto anche Mauro Gallegati. Secondo la teoria mainstream, allo Stato è richiesto solamente di intervenire per aggiustare i fallimenti del mercato.

Ma almeno da Polanyi sappiamo che il sistema di libero mercato si regge su una dose consistente di interventismo statale e la corrente istituzionalista ha giustamente evidenziato il ruolo delle norme e leggi nella costruzione del mercato. Lungi dall’essere un sistema fisico tendente all’equilibrio, l’economia è un sistema complesso evolutivo che si basa sulle istituzioni e il rapporto con le organizzazioni in un contesto in cui gli agenti sono caratterizzati da learning e da una conoscenza imperfetta.

In un tale frame, il ruolo dello Stato non si limita ad essere un aggiustatore di mercati: come ha scritto Mariana Mazzucato, lo Stato crea i mercati. Basti pensare alla nascita di quello che oggi consideriamo il centro della rivoluzione tecnologica: la Silicon Valley, nata dall’interazione tra il privato, il governo federale e l’università di Stanford.

La crisi climatica può funzionare quindi da miccia per quella che Joseph A. Schumpeter riteneva il fattore trainante della crescita: la distruzione creatrice.

Per questo, come ha sostenuto per anni Dani Rodrik, la crisi climatica necessita della politica industriale. A lungo questa è stata tenuta sul sedile posteriore dalla politica economica, influenzata dalla tesi mainstream secondo cui lo Stato non è in grado di puntare sui cavalli vincenti. Negli ultimi anni, sia per le esperienze del sud-est asiatico con il big push sia per risolvere i problemi di produttività stagnante, il dibattito sulla politica industriale è tornato alla tavola alta della politica economica.

Un ritorno però che deve essere ragionato. Come hanno scritto Daron Acemoglu e James Robinson il capitalismo di Stato rischia di generare un sistema di istituzioni estrattive. Per questo il ritorno della politica industriale, e quindi di uno Stato forte nell’economia, deve andare di pari passo con la riflessione sui meccanismi di gestione.

Il ritorno della politica industriale per contrastare la crisi climatica toglie anche di mezzo l’accusa di primitivismo mossa da certe frange. Non si risolverà la crisi climatica “tornando alla vita delle caverne”, ma attraverso una crescita verde e sostenibile trainata dal progresso tecnologico.

Allo stesso tempo, altri temi devono essere affrontati, essendo la crisi climatica onnicomprensiva. Per citarne uno brevemente: il rapporto che c’è tra crisi climatica e disuguaglianze interne ai paesi. Negli ultimi anni, come ha evidenziato Piketty, abbiamo assistito a un deterioramento delle disuguaglianze che sono tornate al livello di cento anni fa, prospettando una sorta di capitalismo feudale. Un fenomeno intrinsecamente legato alla caduta della Quota Lavoro. Il calo a cui abbiamo assistito in questi anni è stato attutito soltanto dalle retribuzioni dei top manager, mascherando ancora di più le profonde divisioni all’interno della nostra società. Questo fenomeno ha ricadute su due fattori: come fa notare Marta Fana, se le aziende possono competere sui salari, in assenza di meccanismi istituzionali che glielo impediscano, lo faranno puntando poi sulla domanda estera; in secondo luogo, strettamente collegato, una depressione della domanda aggregata interna, come hanno fatto notare Realfonzo e Canelli.

Si può raffinare il sistema di incentivi statali per l’elettrico finché vogliamo, ma senza un aumento dei salari, soprattutto privati, quel cambiamento nei consumi e nelle abitudini che riteniamo necessario per la transizione non sarà possibile.

Così temi come la differenza di genere in rapporto alla crisi climatica e alle emissioni, il nostro sistema di alimentazione, le nostre città. Questi temi dovranno essere al centro dell’agenda politica dei prossimi anni e necessitano di soluzioni radicali.

Nel suo discorso per l’assegnazione del Nobel Camus diceva che mentre alle precedenti generazioni era toccato il compito di cambiare il mondo, alla sua bastava salvarlo. Il mondo, ovviamente, non è finito. La guerra fredda non si è trasformata nell’olocausto nucleare.

Ma proprio mentre il mondo appare migliore di 50 anni fa, la crisi climatica ci sta innanzi, più mostruosa che mai. Forse alla mia generazione tocca quel compito che Camus pensava essere monopolio della sua.

Data
10 Agosto 2021
Articolo di
Mattia Marasti

Mattia Marasti

TAG
crisi climatica, IPCC, politica industriale, sviluppo sostenibile, transizione ecologica

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Mattia Marasti

Mattia Marasti

23 anni, nato a Scandiano, studente di Matematica.

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