La chiusura causata in Italia dal Covid-19 vede sospese le attività di 2,2 milioni di imprese (il 49% del totale) che impiegano 7,4 milioni di addetti (44,3%) di cui 4,9 milioni di dipendenti (il 42,1%), secondo i dati Istat. Che cosa significa, in termini economici ed occupazionali questo stop? Come stanno reagendo le istituzioni?
Il grafico sovrastante, a cura dell’Istat, illustra la situazione occupazionale per settori di attività ed evidenzia, nell’anno del Covid-19, un calo generalizzato in termini di attese per la crescita di posti di lavoro.
L’ultima nota mensile dell’Istituto Nazionale di Statistica propone due scenari, basati sulla simulazione della contrazione dei consumi legati alle attività economiche oggetto di chiusura, ossia di fatto limitate dalla riduzione dei comportamenti sociali quali turismo, carburanti e servizi di trasporto terrestri. Nel primo la chiusura delle attività riguarderebbe solo i mesi di marzo e aprile; nell’altro il lockdown si estenderebbe fino a giugno.
La riduzione dei consumi determinerebbe una contrazione del valore aggiunto dell’1,9% nel primo scenario e del 4,5% nell’ipotesi di chiusura prolungata a tutto il secondo trimestre. Nel primo caso la riduzione dei consumi sarebbe pari al 4,1% su base annua mentre nel secondo al 9,9%.
Facendo riferimento al primo scenario, in termini occupazionali, la caduta del valore aggiunto coinvolgerebbe 385 mila occupati (di cui 46 mila non regolari) per un ammontare di circa 9 miliardi di euro di retribuzioni. Nel caso di chiusura delle attività fino a giugno, sarebbero poco meno di 900 mila gli occupati coinvolti, di cui 103mila non regolari, per un totale di 20,8miliardi di retribuzioni.
Maggiori effetti negativi sul valore aggiunto subirebbero quindi le attività di alloggio e ristorazione (-23,9%) e commercio, trasporti e logistica (-6,9%), la produzione di beni di consumo, dei servizi alla persona (entrambi -3,6%) e dei servizi professionali (-3,4%).
Andando a scorporare i dati per singole attività, nello scenario di chiusura prolungata fino a tutto il secondo trimestre del 2020, sarebbero fortemente colpiti dalla caduta del valore aggiunto, i settori della cultura (-16,4%) e dell’intrattenimento (-12,7%), oltre al commercio al dettaglio, (-6,7%). Una platea potenziale di 608mila occupati, di cui 72mila non regolari.
Covid-19 a parte, i dati nazionali sull’occupazione di febbraio hanno evidenziato il proseguimento della fase di debolezza che aveva caratterizzato i mesi precedenti: il tasso di occupazione è rimasto stabile rispetto al mese precedente (58,9%) mentre è diminuito marginalmente il tasso di disoccupazione (9,7%, -0,1 punti percentuali) in presenza di un aumento degli inattivi. Volendosi poi soffermare sulle dinamiche di trasformazione dell’occupazione, è un fenomeno conclamato e di portata non solo italiana l’aumento del lavoro discontinuo.
Lo studio dell’Inapp dal quale è stato tratto il grafico dipinge una trasformazione del mercato occupazionale, teso sempre di più alla flessibilizzazione dei contratti.
Alla luce dei dati fin qui proposti, appare sempre più evidente la necessità di misure di welfare, da parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali, che garantiscano i consumi, la ripartenza delle imprese e i lavoratori, sempre più precari.
Per tracciare le strade percorribili in direzione della cosiddetta fase 2 si dovrebbe partire da un’affermazione contenuta nella stessa nota Istat: «Sotto determinate condizioni (mantenimento dei livelli di reddito, assenza di altri shock di offerta), parte della contrazione stimata dei consumi potrebbe essere recuperata una volta terminati i provvedimenti di chiusura».
Le istituzioni appaiono aver preso atto dell’importanza della partita che si sta giocando e che si giocherà anche nella fase di riapertura delle attività. A dimostrarlo sono le cifre messe in campo. Il “decreto liquidità” prevede prestiti agevolati alle imprese, coperti da garanzie esterne: il Fondo di garanzia per le Pmi (per le aziende più piccole, fino a 499 dipendenti) e Sace per le società più grandi. Il Governo prevede in questo modo di stanziare fino a 400 miliardi.
Ma il Covid-19 non è un problema soltanto nazionale: in questi mesi tutta l’economia mondiale ha subito uno shock, che ha influito sulla fiducia dei consumatori, sugli scambi commerciali e naturalmente segnerà il settore dell’occupazione.
La discussione è ancora in corso, ma l’Unione Europea si sta orientando su più strumenti per agire a livello finanziario e strutturale, programmando di impiegare in totale circa 1000 miliardi di euro per sostenere la ripresa economica. Sarà la Banca Europea degli Investimenti a garantire prestiti alle aziende, prevedendo di utilizzare fino a 200 miliardi. S’ipotizza proprio in queste ore un utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità modificato in funzione dell’emergenza sanitaria e si prevede anche il ricorso a un fondo per la ripresa che fornirebbe risorse mirate direttamente dal bilancio dell’Unione. L’Italia propende per l’istituzione dei coronabond, ovvero titoli di debito pubblico finanziati non dai singoli stati, ma dall’intera zona euro.
Per quanto riguarda la tutela specifica dei lavoratori è stato ideato il Sure, ovvero Support to mitigate Unemployment risks in an Emergency che si pone come strumento di solidarietà per aiutare a proteggere i posti di lavoro e i lavoratori che risentono della pandemia di coronavirus.
I prestiti aiuteranno gli Stati membri ad affrontare aumenti repentini della spesa pubblica per il mantenimento dell'occupazione: nello specifico, concorreranno a coprire i costi direttamente connessi all'istituzione o all'estensione di regimi nazionali di riduzione dell'orario lavorativo e di altre misure analoghe per i lavoratori autonomi introdotte in risposta all'attuale pandemia di coronavirus. Emesso direttamente dalla Commissione Europea sotto forma di titoli, prevede una sorta di prestito senza interessi fino a 100 miliardi.