La crisi ecologica è la grande dimenticata del dibattito presidenziale tra Donald Trump e Joe Biden. Ma rimane una questione fondamentale per il futuro degli Stati Uniti, come ci ricorda Francesco Giuseppe Laureti nella nona puntata del dossier "AMERICANA".
L’impressione è che la gravità della crisi ecologica in atto sia rimasta in sordina nel dibattito pubblico americano delle ultime settimane. Un compito arduo spetterà ai sostenitori della lotta contro il cambiamento climatico negli Stati Uniti, dato che l’amministrazione dell’attuale inquilino della Casa Bianca ha reso il cammino verso la “transizione verde” tortuoso e irto di ostacoli. Da abile affabulatore e detrattore delle teorie scientifiche che attribuiscono alle attività umane le responsabilità maggiori per il rapido aggravarsi dello stato di salute del pianeta, in quattro anni Donald Trump non si è lasciato sfuggire una sola occasione per sminuire il riscaldamento globale e ridicolizzare quanti si esprimono con toni allarmistici su eventi meteorologici estremi come uragani e incendi senza precedenti. D’altronde, la complessità delle dinamiche ambientali gli è indigesta, come dimostra il suo discorso politico incline all’iper-semplificazione della realtà. Eppure, sarebbe inesatto imputare la tendenza discutibile dell’amministrazione in carica a trascurare la questione ecologica e a venire a patti con il capitalismo americano più rapace soltanto all’uomo d’affari che aspira ad assumere un nuovo mandato presidenziale.
Donald J. Trump: I believe that there’s a change in weather. And I think it changes both ways. Don’t forget. It used to be called global warming. That wasn’t working. Then it was called climate change. Now it’s actually called extreme weather because with extreme weather you can’t miss.
Inchieste giornalistiche e vistose iniziative assunte a beneficio di quanti avevano foraggiato la campagna elettorale di Trump nel 2016 hanno rivelato una rete di interessi politici ed economici che collegano il capo dello Stato ai magnati dell’industria dei combustibili fossili, passando per i vertici dell’EPA (Environmental Protection Agency). Sono gruppi di interesse che hanno dato luogo a spropositate concentrazioni di potere, alle quali hanno concorso Rex Tillerson, primo segretario di Stato della presidenza Trump e già amministratore delegato della compagnia petrolifera ExxonMobil, e Andrew R. Wheeler, attuale amministratore ad interim dell’EPA ed esponente della lobby del fossile. E, come da copione, non hanno manifestato la minima volontà politica di proseguire nel solco tracciato dal presidente Nixon con l’istituzione dell’EPA, il Clean Air Act del 1963 e il Clean Water Act del 1972.[1] Se ciò non bastasse, la polarizzazione dello scontro politico all’interno del Congresso ha impedito un’accelerazione sulle politiche ambientali tanto attesa dalla base elettorale di entrambe le formazioni politiche, come rivelano le indagini condotte dal Pew Research Center nel 2019.[2]
DJT: As president I can’t put no other consideration before the well-being of American citizens. The Paris Climate Accord is simply the latest example of Washington entering into an agreement that disadvantages the United States to the exclusive benefit of other countries. Leaving American workers, who I love, and taxpayers to absorb the cost in terms of lost jobs, lower wages, shuttered factories, and vastly diminished economic production. Thus, as of today, the United States will cease all implementation of the non-binding Paris accord and the draconian financial and economic burdens the agreement imposes on our country.
Tuttavia, alle sollecitazioni provenienti dall’opinione pubblica (il 67% degli americani di età adulta sostiene che gli sforzi compiuti dal governo federale a mitigare gli effetti del cambiamento climatico siano insufficienti) non ha corrisposto un indirizzo politico orientato al contrasto della crisi ecologica e appoggiato da una solida maggioranza congressuale. Componente cruciale di cui si avverte l’assenza. Persino l’agenda della presidenza Obama, costellata di buone intenzioni, si era trovata ad arrancare da un executive memorandum all’altro, a causa delle profonde divisioni emerse nel Congresso, e aveva risentito delle insistenti pressioni dei gruppi industriali (si pensi alla posizione ambigua sulla Dakota Access Pipeline, la cui realizzazione è stata autorizzata dall’amministrazione Trump).[3] Si potrebbe allora puntualizzare che, per quanto possano susseguirsi amministrazioni di diverso colore politico, l’indirizzo non accenni a cambiare rotta. Se, però, Barack Obama aveva assunto un atteggiamento troppo tiepido sulla svolta in materia di politiche ambientali, il suo successore non ha dato segni di esitazione sulla scelta di ridimensionare e svilire l’importanza della conversione ecologica. Concedendo carta bianca ai suoi fiancheggiatori.
DJT: Under our plan, every project will have one point of contact that will deliver one decision, yes or no, for the entire federal government — yes or no. You have to go through different agencies. You go through labor, you go through transportation, you go through another one, another one — EPA, where we’ve really streamlined the system, where we have really made it possible for people to get things done. So many projects are under construction right now that would never, ever in a million years, have gotten built.
È stata così lanciata un’offensiva su larga scala contro il cosmo delle associazioni, esponenti della classe politica, intellettuali e singoli cittadini sensibili al tema della crisi ambientale. A dare forma organica alle istanze dello schieramento trumpiano è stato l’Heartland Institute, un think tank di orientamento liberale con base a Chicago. E attorno alla sua orbita ruotano finanziatori privati come ExxonMobil e la Koch Industries, ritenuta responsabile di un numero ingente di disastri ambientali.[4] Facile immaginare quale possa essere il tenore della visione programmatica articolata dall’istituto di ricerca: sia sufficiente menzionare il recesso dai Paris Climate Accords, la riduzione del sostegno finanziario ai gruppi ambientalisti e alla ricerca scientifica sul cambiamento climatico, l’allentamento delle restrizioni imposte a controversi progetti infrastrutturali come l’oleodotto Keystone XL, l’abolizione delle agevolazioni fiscali destinate ai produttori di energia eolica e solare e l’eliminazione dei vincoli imposti alla pianificazione militare dalle politiche ambientali.[5] Nonostante ben 70 tra leggi e regolamentazioni finalizzate alla tutela ambientale siano state cancellate o depotenziate e 30 provvedimenti in materia siano allo studio sotto l’attuale presidenza, il gruppo di pressione dell’Heartland Institute non ha nascosto il suo disappunto per le aspettative deluse dall’amministrazione Trump.[6] Poco importa se simili posizioni vengono confutate da studi scientifici e rapporti ufficiali come quello stilato recentemente dal Pentagono.[7]
DJT: What we’ve done has never been done. If you look at Alaska with ANWR — perhaps the biggest drilling site in the world. Even Ronald Reagan and Bush and Clinton — everybody wanted to get it done — I got it done. ANWR in Alaska — probably or possibly the biggest drilling site in the world. Now what we’ve done has been incredible. Recently, it look like the energy business —
Se si ampliasse lo spettro dell’analisi focalizzando l’attenzione sulle politiche adottate dai governi statali, la questione si complicherebbe. Basti tenere in considerazione come le iniziative messe in campo dai singoli Stati, tra cui spicca il cap and trade program della California, si rivelino largamente inefficaci fintanto che, in risposta ai piani ambientali di “carbon leakage”, i gruppi industriali corrono ai ripari spostando gli stabilimenti negli Stati della federazione che applicano politiche meno stringenti. Una dinamica non dissimile da quanto accade sul piano della competizione sui regimi fiscali a livello internazionale. In sostanza, non si può che ragionare di strategia di contrasto al cambiamento climatico su scala federale. Ma, se davvero gli Usa vogliono riprendere a dettare la tabella di marcia internazionale sulla “transizione verde”, serve una svolta radicale, che coinvolga le radici culturali del liberalcapitalismo statunitense.
Il paradigma consumistico (la cui etimologia richiama l’idea di un progressivo deterioramento) si è rivelato insostenibile e l’emergenza pandemica ne ha messo in risalto le criticità. È impensabile che lo stile di vita di milioni di persone sia funzionale all’autoriproduzione di una tendenza culturale all’esaltazione del benessere più effimero, che viene incessantemente alimentato dalla soddisfazione di nuovi bisogni. Un modello socio-culturale che vede minacciato il suo stesso funzionamento dall’esistenza di consumatori soddisfatti e dotati di senso di misura.[8] È un intero sistema valoriale, rappresentato da Trump (e non solo) e riassunto già nella formula di Thomas Jefferson “la terra appartiene ai viventi”, a dover essere rivisto e riorientato alla conversione ecologica. La posta in gioco è la riproduzione della vita, minacciata dalle “capacità di consumo e di distruzione delle risorse vitali, associate all’egoismo dei viventi protetto dall’ideologia dei diritti appropriativi e distruttivi di risorse comuni”.[9]
[1] https://www.crossfirekm.org/articles/the-great-gig-in-the-sky-a-new-approach-to-climate-policy
[2] https://www.pewresearch.org/science/2019/11/25/u-s-public-views-on-climate-and-energy/
[3] https://lecopost.it/cambiamento-climatico/politiche-ambientali/dakota-access-oleodotto/
[4] La lettura dell’inchiesta condotta sull’Heartland Institute e i suoi sostenitori è vivamente consigliata. (Accessibile su :https://correctiv.org/en/top-stories-en/2020/02/11/the-heartland-lobby/)
[5] https://www.washingtonpost.com/news/energy-environment/wp/2017/11/15/this-group-thinks-trump-hasnt-done-enough-to-unravel-environmental-rules-heres-its-wish-list/
[6] https://theintercept.com/2020/10/22/intercepted-american-mythology-trump-climate/?utm_medium=social&utm_campaign=theintercept&utm_source=twitter
[7] https://www.les-crises.fr/changement-climatique-un-rapport-commande-par-le-pentagone-alerte-sur-les-risques-a-venir-par-nafeez-ahmed/
[8] Z. Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino, Bologna 2009
[9] G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi Editore, Torino 2017
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