Mouffe ci spiega molto bene come il populismo non possa essere considerato una crisi della “democrazia pluralistica” nella sua totalità profonda ma solo della componente democratica della stessa. Sarebbe corretto smettere di confondere la tradizione democratica (sovranità popolare e uguaglianza sociale) e la tradizione liberale (rispetto delle leggi, diritti individuali e separazione dei poteri): la nostra “democrazia liberale” o meglio democrazia “pluralistica” - l’espressione “democrazia liberale” la considero fuorviante - si è fondata per molto tempo su un’articolazione puramente contingente tra le due forze. Si tratta di due tradizioni unite da un nesso puramente europeo e, come già detto, contingente, che, a un certo punto della storia, si sono trovate a combattere fianco a fianco contro l’assolutismo. Qual è il problema quindi che ha messo le nostre democrazie in difficoltà?
La perdita di questa agonistica tensione tra le due tradizioni con l’avvento di una società postpolitica (Mouffe) e postdemocratica (Crouch). La tradizione liberale ha di fatto preso il sopravvento sulla tradizione democratica, tant’è che i concetti di uguaglianza e sovranità popolare sono divenuti pericolosamente obsoleti. Il neopopulismo che ne è derivato come strategia politica consiste perciò in un tentativo disperato di ripristinare questa agonistica tensione: i populismi reazionari di destra lo fanno recuperando solo un aspetto della tradizione democratica, ovvero la sovranità popolare, mentre i movimenti populisti radicalmente democratici cercano di recuperare per intero la tradizione democratica (uguaglianza più sovranità popolare) caduta nell’oblio postpolitico.
La crisi della democrazia pluralistica deriverebbe dunque dalla distruzione dell’agonismo, ossia dall’affermazione di un modello estremamente pericoloso, quello deliberativo. Jürgen Habermas aprì la strada alla rinuncia ad una visione dissociativa della Politica, così che la trasformazione della politica in esecuzione tecnica, affiancata dalla colpevolizzazione delle passioni dell’uomo comune, arrivò a bollare il conflitto come un pericolo per la democrazia pluralistica. Si tratta di un percorso che è proseguito dagli ultimi decenni del Novecento fino agli anni Duemila, che da Habermas si è trascinato fino ad Anthony Giddens, sociologo e ideologo di Tony Blair.
La figura del politico come un buon contabile, un cassiere responsabile, un androide progettato ad estirpare la conflittualità per fare da scudo ai conti pubblici - figura tra l’altro rilanciata ed evocata dalle dichiarazioni anche di politici italiani, quali Carlo Calenda - deriva in gran parte dai danni che il modello deliberativo ha causato alle società europee. Oggi la situazione del tenore democratico è preoccupante, in quanto qualsiasi tentativo europeo di recuperare la visione dissociativa/agonistica della Politica viene bollato come sovversivo e rischioso per la tenuta della democrazia pluralistica.
Ebbene, la realtà è che proprio il negare l’esistenza del conflitto risulta pericoloso per il tenore democratico. Se si soffoca la corretta forma agonistica del Politico - che è il motivo per cui il Politico esiste come dimensione indipendente -, questo non si esprimerà più in maniera agonistica, come battaglia tra avversari regolamentata da una cornice istituzionale, ma come forma anta-agonistica, in cui l’avversario democratico risulta invece un nemico da distruggere, anche fisicamente, con la violenza. Il modello deliberativo di cancellazione delle passioni dalla Politica porta, purtroppo, a deviare tutte queste ultime verso canali di espressione reazionari e antidemocratici.
Non può esistere il Politico senza conflittualità e senza l’espressione democratica del conflitto. Politica deriva da "Πόλεμος" che significa guerra. Per poter ripristinare la conflittualità, bisogna dunque sancire la supremazia del Politico e ricordare che non esiste alcuna risoluzione statica e definitiva della conflittualità. Voglio intendere per supremazia del Politico l’arte di emancipare la sfera politica come autonoma e non solo, ovviamente, come conflittuale: i marxisti avevano provato a subordinare il Politico allo Storico e i liberali hanno nettamente subordinato il Politico all’Economico. Occorre rompere radicalmente in maniera insubordinata con il tentativo di piegare ed assoggettare l’autonomia del Politico.
Il conflitto non potrà mai essere rinnegato, come vorrebbe il modello liberal-deliberativo, perché gli antagonismi esploderebbero con ancor più violenza, ma non può neanche essere risolto in maniera definitiva come vorrebbero i marxisti ortodossi, magari con la costruzione dello Stato paradisiaco socialista. Il conflitto è un processo dinamico, come il motore di una democrazia che è evoluzione e spostamento perenne di nuove ambizioni: l’ontogenesi delle nuove domande democratiche è interminabile, così che non potrà esserci mai la pacificazione universale.
A questo punto abbiamo visto come i liberali e il pensiero deliberativo abbiano eliminato il conflitto dalla politica, mentre l’agonismo è stato lasciato ai reazionari in maniera disarmante. Le socialdemocrazie europee hanno bollato gli affetti come “qualcosa che non li riguarda” o “cose rozze e brutte” e hanno preparato il terreno a forme solo reiette di identificazione collettiva. D’altra parte, a differenza dei liberali, i marxisti avevano accettato l’importanza del conflitto e l’identificazione collettiva, ma avevano concepito quest’ultima come immaginabile solo in termini di classe, e avevano reputato in maniera distorta il conflitto come qualcosa di, in fin dei conti, risolvibile: il sogno della pacificazione universale era dietro l’angolo.
Grave è da parte di taluni marxisti ortodossi il confondere la democrazia liberale - che infatti anche per questo motivo preferisco, come Mouffe, chiamare democrazia pluralistica - con l’egemonia neoliberale: tanto i marxisti ortodossi che i liberal-socialdemocratici non comprendono la possibilità di costruire un’egemonia socialista dentro i termini istituzionali della democrazia pluralistica, cosa che per esempio è successa in America Latina, dove molti esperimenti radicalmente democratici si sono espletati dentro la cornice di democrazia pluralistica distaccandosi nettamente dalle mostruosità burocratico-bolsceviche dell’Est Europa.
Spesso si è osservata, negli scritti di Mouffe, la disputa tra il razionalismo sfrenato dei liberali, rafforzato dalla visione di Habermas, e la riscoperta della Politica agonistica, ma possiamo dire che Paul Ginsborg e Sergio Labate abbiano offerto una lettura ancora più estrema di quella mouffiana. Se in Mouffe i liberali sono colpevoli della spoliticizzazione e della sterilizzazione delle passioni, in Labate è proprio il liberalismo a fare uso delle passioni, pur poi negandole. Nell’analisi di Labate è proprio l’homo oeconomicus neoliberale ad essere frutto del romanticismo politico, anziché dell’età dei lumi. Questo presupporrebbe una pluralità delle passioni e un discostamento tra passione e agonismo.
Se per Mouffe e Laclau i liberali hanno ucciso tanto l’agonismo quanto le passioni, per Labate e Ginsborg i liberali hanno ucciso l’agonismo “attraverso le passioni”, più precisamente attraverso un gruppo di passioni: quelle neoliberali. La conclusione di questa analisi è la seguente: con una rieducazione delle passioni è possibile quindi combattere il liberalismo, non solo in quanto sistema politico, ma in quanto “stile di vita”. Ginsborg e Labate invitano quindi a un’”ecologia delle passioni” e a uno studio del romanticismo politico.
Secondo la concezione degli affetti di Spinoza, un affetto può essere fermato solo da un affetto più forte e contrario: la stessa paura di taluni affetti spinge l’uomo da essere non completamente razionale a non arrecare danno ad altri. Gli affetti conferiscono, assumendo la riflessione di Mouffe, il potere alle idee, quando idee ed affetti si incontrano. Gli esseri umani, inseriti dentro una fitta rete di interazioni sociali, finiscono per scontrarsi con altri corpi: in Spinoza esiste uno sforzo, un “conatus”, un tentativo, un’impresa, uno slancio.
Inoltre, la “laetitia” e la “trististia” sono il nostro motore passionale, accanto al desiderio che ci spinge a commettere un’azione. Se amiamo, amiamo ciò che ama colui che amiamo e odieremo ciò che egli odia. Se odiamo, ameremo ciò che odia colui che odiamo e odieremo ciò che ama. Lo sforzo del “conatus” diventerà agonistica tensione, contrasto irremovibile, in cui l’espressione delle passioni è condizione giusta per il corretto emergere del conflitto in senso democratico. Lascio ai lettori e alle lettrici scegliere quale modello ritengano più corretto nello spiegare il declino dell’agonismo: quello di Mouffe che accusa il modello liberal-deliberativo o quello di Ginsborg-Labate che punta il dito contro delle passioni “sbagliate” da riconvertire in passioni “corrette”.
A questo punto vorrei porre l’attenzione su un concetto importante, a tal punto da aver suscitato una “disputa” tra Nadia Urbinati e Chantal Mouffe: l’inestirpabilità dell’antagonismo.
Secondo Mouffe l’antagonismo è inestirpabile e può essere solamente addomesticato in agonismo democratico tra avversari. Per ribadire questo aspetto Mouffe aveva studiato un pensatore a dir poco controverso: Carl Schmitt. Nonostante le premesse di quest’ultimo siano corrette, è chiaro che le conclusioni del suo ragionamento, come Mouffe fa notare, siano moralmente inaccettabili: per Carl Schmitt l’antagonismo è inestirpabile dalla democrazia pluralistica, quindi l’unica soluzione è eliminare la democrazia pluralistica. La trasformazione dell’antagonismo in agonismo è quindi democraticamente vitale, per impedire una qualsiasi deriva autoritaria del principio schmittiano.
In questo contesto Mouffe fu attaccata da Nadia Urbinati, che, secondo me, non avendo ben compreso il fondamento democratico del pensiero mouffiano, è arrivata a liquidare l’Italia come uno “stato [già] schmittiano” . Ciononostante, Urbinati ha compreso il ruolo moderno del conflitto, inteso come la rivolta dei molti contro i pochi, oppure, come lei stessa dice, “dei pochi contro i molti”. Pur facendo letture che io reputo sbagliatissime e ideologiche sul populismo di Laclau, Urbinati arriva a spingersi nel rivalutare perfino l’invidia - in alcune sue forme - come forza dinamica, da contrapporre allo status quo. Come ella stessa fa notare, oggi si potrebbe dire che i ricchi aspirino ad una “divina origine” che renda i poveri non solo sfortunati, ma pure colpevoli.
Tralasciando però il dibattito tra Mouffe e Urbinati, molto interessante da leggere integralmente, in cui la madre del populismo di sinistra e la paladina di Norberto Bobbio si fronteggiano a colpi di incessante dialettica, volevo sottolineare come tanto l’economia quanto la scienza politica siano scienze sociali: ergo, entrambe saranno soggette alla logica dell’egemonia.
Ci sono quindi delle conseguenze sul pensiero economico dovute all’arretramento della visione politica agonistico-dissociativa?
Per rispondere affermativamente a questa domanda basta cogliere le analisi di Mariana Mazzucato sull’evoluzione del pensiero economico fino al XX e al XXI secolo. Appare sorprendente vedere la somiglianza della concezione deliberativa con molti aspetti propri della teoria marginalista del valore. È inquietante osservare come proprio l’idea marginalista dell’equilibrio, visto come concorrenza perfetta, appaia come l’immagine economica del perfetto ordine politico-istituzionale de-conflittualizzato che Habermas e i suoi seguaci desideravano e sognavano.
Potremmo parlare di una complessiva degenerazione culturale, che ha portato alla scomparsa dell’agonismo politico e parallelamente ha colpito le voci economiche di stampo marxiano e keynesiano: un mondo neutrale, dove non esiste la politica di destra, di centro o di sinistra (al massimo la politica “buona” e “cattiva”), dove non si crea ma si estrae valore, dove la democrazia è una questione tecnica e dove l’elettore è un individuo impersonale che sceglie chi votare comodamente dal divano di casa sua. Da medico di formazione, sono consapevole che, quando oggi i miei colleghi ascoltano la macroeconomia in aula, non viene detto loro che si tratta di uno dei tanti modi di pensare il valore. Non solo negli ultimi cento anni la teoria marginalista del valore non è pressoché cambiata, ma ha costruito un’egemonia sempre più grande, cui è stata lasciata mano libera dopo il crollo di ciò che rimaneva di una sana visione dissociativa e democratica.
Come Mouffe fa notare, la situazione è oggi molto peggiore di quanto ci si sarebbe aspettato fino a qualche decennio fa: solo un nuovo agonismo ci consentirebbe dunque finalmente di invertire la rotta. Il futuro della democrazia dipende da noi.
[…] Sacro: occorre partire da una dicotomia diversa da quella schmittiana di amico/nemico (sublimata da Chantal Mouffe in amico/avversario), ossia quella di Zoe e […]
[…] pare risparmiata dalle nuove mode nazionalconservatrici. L’eccezione irlandese mostra come il populismo di sinistra, grazie a una forte base elettorale tra i giovani e la classe sanitaria, sia riuscito a sradicare […]
[…] “Perfino un uomo potente come me è capace di fare il buffone” è l’immagine della “castrazione simbolica” lacaniana. Secondo la psicanalisi lacaniana sono un re non perché lo sono, ma perché gli altri mi trattano da re. La castrazione di Lacan è dunque un divario tra il ruolo psico-sociale (potenzialmente miserabile) e l’identità (il mio mandato simbolico). Così, Bolsonaro non soffre una caduta pubblica della sua dignità, ma la padroneggia con spavalderia e un astuto lacaniano compiacimento. Lacan individua nella “castrazione simbolica” uno scarto profondo tra l’identità psicologica e quella simbolica, lo stesso Simbolico attraverso il quale può originarsi l’Egemonia. […]